sabato 20 gennaio 2024

Giornata della memoria, “Incontrare Anne Frank oggi” è il tema del confronto che il giornalista Davide Romano avrà con gli alunni dell’istituto Marcellino Corradini di Palermo



“Incontrare Anne Frank oggi” è il tema del confronto, organizzato in occasione della Giornata della Memoria, che il giornalista Davide Romano avrà con gli alunni dell’istituto Marcellino Corradini, gestito dalle suore Collegine della Sacra Famiglia, a Palermo.

 

“Una vita breve e preziosa quella di Anne Frank – spiega suor Anna Oliveri, vicaria generale della congregazione e dirigente scolastico dell’istituto – che vogliamo ricordare attualizzandola nel confronto con gli alunni della nostra scuola. Anche quest’anno, infatti, non sfugge alla scuola Marcellino Corradini l’appuntamento con la Shoah. È un evento troppo grande ed importante perché venga dimenticato o sottovalutato. Quest’anno anche la Shoah verrà illuminata dal tema progettuale: ‘La memoria di ciò che siamo libera melodie inaspettate’”.

 

E continua: “Il protagonista di the Giver, Jonas, trova, per certi versi, il suo alter ego femminile, da cui ovviamente differisce per una serie di ragioni. La storia di Anne Frank è realmente accaduta. Ella consegna a chi si avvicina con apertura e con stupore i ricordi di una vita che sogna un futuro migliore, ricco di valori: in primis il rispetto dell’altro e l'accoglienza della diversità. Il suo background è connotato dalla sopraffazione e dalla violenza. Tuttavia tra le mura del nascondiglio di famiglia si dispiega la sua crescita, la sua adolescenza”.

 

“Quest’anno – conclude la religiosa - il giornalista Davide Romano aiuterà i nostri alunni della secondaria di primo grado a cogliere come Anne Frank possa aiutarli a vivere la loro giovinezza trasformando ogni difficoltà in opportunità di crescita. Un grazie speciale a Romano per la sua disponibilità a condividere le sue riflessioni con i nostri ragazzi. È un tassello molto prezioso che si aggiunge alla formazione umana, culturale e spirituale dei nostri alunni”.


giovedì 11 gennaio 2024

Emarginazione. C’era una volta in America: «Così muore il sogno a stelle e strisce»

 



Il 12% degli abitanti degli Stati Uniti vive in stato di bisogno Il sociologo Desmond: «Per ogni dollaro speso nell’assistenza sociale, solo 22 centesimi vanno ai poveri»

Gli Stati Uniti sono la nazione più ricca al mondo. Gli Stati Uniti possono permettersi di eliminare la povertà dal suo territorio e sanno come farlo. Ma quasi il 12% della popolazione americana vive nel bisogno. Per 38 milioni di persone, cibo a sufficienza, acqua pulita, un’abitazione adeguata o vestiti puliti sono un lusso spesso inaccessibile.

Javier Marquez è uno di loro. Pulisce uffici in un grattacielo di San Diego nove ore al giorno, sei giorni alla settimana, e dorme in un furgone parcheggiato nella periferia della metropoli californiana. «Chi proviene da una famiglia privilegiata spesso non capisce che cosa vuol dire crescere in povertà — dice il 30enne —. È una battaglia che dura tutta la vita contro cattive condizioni di salute, poca istruzione, cibo scarso. È svegliarsi con una maglietta sporca e andare a letto affamati. Da quando avevo 14 anni lavoro sodo, ma per il 90% del tempo non sono stato in grado di soddisfare i miei bisogni».

Il paradosso tutto americano della lotta per la sopravvivenza in mezzo alla ricchezza non è radicato in misteriose alchimie economiche o incomprensibili cause sociali. Le sue ragioni sono state studiate e puntano tutte a una tesi tanto scomoda quanto evidente. Una larga fetta di americani vive nel bisogno perché al resto della popolazione conviene che sia così. L’ultimo a portarla a galla è Matthew Desmond, sociologo alla Princeton University e vincitore del Premio Pulitzer, che l’ha illustrata nel libro Poverty, by America, dove sottolinea non solo la responsabilità delle multinazionali e di Wall Street, ma anche di tutti gli americani che hanno raggiunto la sicurezza economica e, per mantenerla e goderne i benefici, approfittano dei connazionali che stentano a restare a galla.

«Alcune vite sono ridotte in modo che altre possano crescere», spiega Desmond a L’economia civile, indicando una nuova prospettiva: concentrarsi meno sui poveri e più sui comportamenti che radicano la povertà e sull’imperativo morale di non tollerare le privazioni. Desmond non ha del tutto scelto di occuparsi di disagio. Si è aggrappato al tema per dare un senso alla sua storia personale. Cresciuto in una famiglia dove i soldi erano pochi, ha visto i genitori perdere la casa e finire in una roulotte quando era all’università. «È stato un periodo di grande tumulto. All’università ho visto così tanti soldi. Ho iniziato a passare del tempo con i senzatetto, facendo amicizia. Mi ha aiutato a dare un senso alla mia confusione».

Sulle strade di Tempe, in Arizona, Desmond ha visto una povertà «e crudele», fatta di anziani senza riscaldamento che passano l’inverno sotto le coperte e bambini che vivono sui marciapiedi. E ha scoperto che molti luoghi comuni sono falsi. Il primo è che la povertà sia la conseguenza di dipendenze da droga o alcool: «Ho incontrato molti senzatetto che sono caduti nella dipendenza da oppiacei per anestetizzare il trauma di non avere una casa. Molti usano le metanfetamine perché vivere per strada fa paura. Ma la maggior parte delle persone sotto la soglia di povertà non fanno uso di droghe e non bevono. I ricchi bevono molto di più dei poveri».

Un altro pregiudizio che sfata è che i poveri stiano molto meglio oggi rispetto a 30 anni fa, perché spesso hanno un cellulare o un televisore. «Non puoi mangiare un telefono, non puoi scambiare un televisore per un salario dignitoso. Il costo dei prodotti di massa è diminuito, mentre elettricità e cibo sono aumentati del 115% dal 2000. Il calo del prezzo dei tostapane non è un progresso nella lotta alla povertà».

Negli Stati Uniti esistono programmi governativi per i meno abbienti, ma sono diminuiti radicalmente rispetto agli anni ’60, quando il welfare di Lyndon Johnson ha dimezzato la povertà in 10 anni. «Erano programmi ambiziosi che non hanno ridotto la crescita economica americana, anzi. Gli Stati Uniti possono sradicare la povertà senza andare sul lastrico», assicura Desmond. L’ultimo esempio è la pandemia. Per due anni l’Amministrazione Biden ha versato a tutte le famiglie della classe lavoratrice assegni fra i 3.000 e 3.600 dollari per figlio all’anno, che sono bastati a dimezzare la povertà infantile. Una soluzione alla povertà in America secondo il sociologo sono dunque i programmi pubblici di facile accesso. «Per ogni dollaro che spendiamo per l’assistenza solo 22 centesimi finiscono nelle tasche di una famiglia povera. Perché gli Stati hanno molta discrezione e spesso tengono i soldi da parte per le emergenze. Inoltre solo un americano su cinque che ha diritto ai buoni pasto li riceve davvero e uno su sei non chiede crediti fiscali. Perché sono difficili da ottenere, nascosti sotto strati di burocrazia».

L’altra soluzione è un lavoro dignitoso. In America la maggior parte delle persone che vivono in povertà lavora moltissime ore. Ashley Jones, ad esempio, ha 18 anni e ogni giorno passa 8 ore da McDonald’s e 8 in un’azienda di latta per vivere in un piccolo appartamento in Arizona con la madre e il fratello di nove anni. Non è un’eccezione. Una ricerca del Mit calcola che il salario di sussistenza per una famiglia di quattro persone è di 24,16 dollari l’ora, mentre il salario minimo federale è fissato a 7,25 dollari. Con quello stipendio, due genitori con due figli devono lavorare 98 ore alla settimana ciascuno per sopravvivere.

Non è sempre stato così. Negli anni ’60, un lavoratore Usa su tre era sindacalizzato. Ma nel corso degli anni il potere dei dipendenti è diminuito. «Questo è sfruttamento — accusa Desmond — dobbiamo chiamarlo con il suo nome. Decine di milioni di americani non sono poveri per condotta personale. La povertà persiste perché molti lo vogliono».

Per far cogliere l’urgenza morale del problema, il sociologo spesso al posto della parola «povertà» — troppo teorica, troppo generica — parla dei suoi effetti: morte, violenza, paura, fame, freddo, insicurezza. E indica i comportamenti che tutti possono cambiare per sradicarla. Il primo è dire no alla segregazione, a vivere in comunità benestanti che concentrano i servizi e creano sacche di povertà. «Dobbiamo andare alla riunione di urbanistica della nostra città e dire di no a regole che impediscano ai più poveri o ai neri di abitare nel nostro quartiere, che desideriamo maggiore integrazione». Un altro muro da abbattere è quello dell’istruzione, dando ai genitori la scelta di mandare i loro figli alla scuola che vogliono, non solo a quella di quartiere. «I ragazzi che frequentano scuole integrate e con maggiore diversità economica e razziale se la cavano molto meglio, tutti», dice Desmond, che spiega come la discriminazione del mercato del lavoro nei confronti dei neri non è cambiata in 30 anni. «La fine della povertà è un traguardo assolutamente raggiungibile per gli Stati Uniti, senza aumentare le tasse — conclude —. Se il 10% che guadagna di più pagasse le tasse che deve, senza sconti, potremmo raccogliere 175 miliardi di dollari in più all’anno: abbastanza per tirare fuori tutti dal bisogno. Ma per farlo, dobbiamo riconoscere che la povertà è un abominio e che ci trascina tutti verso il basso».

(Fonte: Avvenire.it)

Roma 25-27 gennaio, la Chiesa Luterana Confessionale d’Italia organizza il convegno “Roma e la giustificazione”








Una tre giorni intensa di studio, riflessione e discussione, ma anche di preghiera, dal titolo “Roma e la giustificazione”, è quella che organizza la Chiesa Luterana Confessionale d’Italia, a Roma. Mentre i lavori del convegno si svolgeranno, a partire dal pomeriggio del 25 gennaio fino al pomeriggio del 27, presso i locali della Chiesa Evangelica Breccia di Roma, sita in via di sant’Eufemia 9, i culti si terranno, invece, presso il tempio della Chiesa Evangelica Battista di via Teatro valle 27.

“Questo convegno teologico – spiega il pastore luterano Tyler McMiller, organizzatore dell’evento – ha lo scopo di presentare compiutamente la dottrina luterana della giustificazione  biblicamente fondata nelle sue varie declinazioni. Le relazioni saranno o in italiano o in inglese con traduzione in italiano. Per collegarsi mediante ZOOM, si può scrivere un’e-mail a me (tyler.mcmiller@lcms.org). L’evento sarà anche trasmesso mediante la nostra pagina Facebook ‘Chiesa Luterana Confessionale d’Italia’ (https://www.facebook.com/luteranaConfessionale)  e  caricato sul nostro canale Youtube (https://www.youtube.com/@revtylermcmiller1614)”.

La Chiesa Luterana Confessionale d’Italia (CLCI) è una missione della Chiesa Luterana del Sinodo Missouri (LCMS) degli Stati Uniti che ha come scopo quello di diffondere il messaggio evangelico secondo la più autentica dottrina luterana. Pur essendo presente solo da pochi anni nel nostro Paese, sta già riscontrando un notevole interesse.

La missione è stata affidata al pastore Tyler McMiller che abita a Roma, con la sua famiglia, dove cura una parrocchia di lingua italiana nel centro storico della città (il culto è ogni sabato alle 17).

Pur essendovi soltanto un pastore per tutta la penisola, tre uomini (Joshua Salas, Lorenzo Murrone e Luiz Lange) stanno attualmente studiando per diventare ministri di culto (due a Roma, uno a Padova) attraverso un seminario online con base a Riga, in Lettonia, chiamato Luther Academy. Altri candidati al pastorato sono attualmente in una fase di discernimento vocazionale.

Per condividere il Vangelo con una comunità così diffusa sul territorio, il pastore McMiller, che ha alle spalle una lunga esperienza missionaria in America Latina, condivide ogni domenica mattina una trasmissione online di una funzione di preghiera e uno studio biblico.

Inoltre, viaggia per tutta la Penisola, con missioni a Padova, Piacenza, Firenze, Roma e Salerno, per amministrare l’eucaristia. Mediante il sito web, ancora non del tutto operativo, www.luteranaconfessionale.it  lavora per distribuire i testi classici del luteranesimo in Italiano.

Per info si può contattare il pastore Tyler McMiller: tyler.mcmiller@lcms.org; cell. +39 3463270882


L'addetto stampa, 

Davide Romano

venerdì 5 gennaio 2024

“La nobile arte e il sogno di una vita diversa” di Davide Romano

 


Gaetano ha solo otto anni, dei pantaloncini blu sdruciti, una canottierina a coste che un giorno, forse non lontano, fu bianca e indossa un paio di guantoni rossi, troppo grandi, che gli arrivano quasi ai gomiti, ma picchia duro contro il sacco di sabbia.

Sogna di diventare un pugile famoso, uno di quelli che guadagnano «un mare di soldi», che hanno le foto sui giornali e abitano in grandi case colorate con il prato intorno. Così potrebbe aiutare sua madre che fatica tutto il giorno per una paga da fame. Gaetano si allena ogni giorno per un'ora, dopo aver finito i compiti, in una piccola palestra in quartiere popolare, come tanti, in una città del Sud, ma non è il solo. Con lui altri venti ragazzi, fra i dieci e i diciotto anni, ogni pomeriggio s'incontrano per boxare, imparare quella che una volta si chiamava «la nobile arte» e sognare una vita diversa in un quartiere in cui la povertà più che essere una condizione è spesso una malattia ereditaria, che si tramanda di generazione in generazione.

Ad allenarli c'è Salvatore, capelli brizzolati, un po' stempiato, una passione forte per il pugilato e la sua gente, che lo ha spinto a mettere da parte per anni i soldi degli straordinari e a tirar su dal nulla, qualche anno fa, una palestra, nella canonica di una delle infinite chiese abbandonate che affollano il centro storico della sua città, con ring regolamentare, pesi e sacchi di sabbia.

«La boxe è come le donne – dice Salvatore –, o ci s'innamora a prima vista o niente, non ci sono vie di mezzo. Sono entrato per la prima volta in una palestra a tredici anni per accompagnare un amico più grande – racconta – e da allora non ne sono più uscito. A quattordici anni e mezzo ho fatto il primo incontro e non mi ricordo più neanche se l'ho vinto o perso, quanto tempo e passato, – sorride – erano gli anni Settanta del secolo scorso e c'era la fame. Io lavoravo di giorno e la sera mi allenavo, quando dovevo combattere mi davo malato, per questo motivo sono stato anche licenziato due volte. Talvolta – continua – tornavo al lavoro ammaccato e dovevo inventare un sacco di scuse per giustificare i lividi».

Poi son venuti il matrimonio, i figli e la necessità di non rischiare il posto di lavoro. Salvatore è costretto ad appendere i guantoni al chiodo, ma continua ad allenarsi ogni sera, organizzare piccoli tornei e frequentare l'ambiente.

Un giorno un amico, che gestisce una palestra in un piccolo centro della provincia, gli chiede se gli va di dargli una mano ad allenare qualche ragazzo che promette bene, accetta. Comincia quella che lui stesso chiama la «fase due» della sua vita sportiva. «Ho scoperto – dice – che questo modo di vivere la boxe mi piaceva di più. Allenare un adolescente, infatti, e anche in un certo senso educarlo, accompagnarlo in un tratto di strada che è o è stato, in fondo, il più difficile per tutti. E in questo senso – continua –, la boxe e una scuola straordinaria perché t'insegna ad autodisciplinarti, a controllare la tua aggressività, ad imparare a studiare chi hai di fronte per indovinare le sue mosse. Insomma, ti sveglia».

Un pomeriggio, poi, mentre torna a casa dal lavoro, si ferma ad osservare due ragazzini che mimavano a fare i pugili, non si scambiano pugni, stanno immobili l'uno di fronte all'altro e cercano di anticipare, parandosi con le braccia, i colpi del compagno.

«Una tecnica quasi perfetta – ricorda –, quei due erano dei veri boxeurs. Il campione, infatti, non mira a far male all'avversario, ma a dimostrargli con l'agilità dei movimenti la sua superiorità. Ho pensato: peccato che nessuno si accorgerà mai di questi due, magari potrebbero anche sfondare. Non ci ho dormito la notte. La mattina dopo – conclude –, avevo già deciso, cercai un locale e misi su una vera palestra tutta per loro, per levarli dalla strada, per non fargli venire strane tentazioni e per invogliarli e, per favorire le famiglie, non ho mai chiesto un euro. Qualche volta mi chiedono se sono credente, per me credere significa semplicemente questo: insegnare a questi ragazzi quello che possono diventare, persone migliori».

Adesso Salvatore ogni pomeriggio, alle cinque, scende da casa e va ad aprire il locale della vecchia canonica dove s'insegna la «nobile arte», dietro di lui una torma di ragazzini spinge e si precipita dentro a sognare di essere Rocky Balboa che non ha paura di nessuno, neppure dei mafiosi, sconfigge i malvagi e abita in una grande casa colorata con il prato intorno. E chissà che un giorno la favola per qualcuno non si avveri.


venerdì 22 dicembre 2023

“Giuseppe Benedetto Labre, il santo mendicante” di Davide Romano, giornalista

 

"Sii povero e ama la povertà. Ricorda che niente siamo, che niente possediamo, che niente vale la pena tranne Dio." - Giuseppe Benedetto Labre

La storia di Giuseppe Benedetto Labre, santo per la Chiesa cattolica romana, nonostante le sue radici francesi, si intreccia in modo indelebile con il nostro Paerse, dove ha vissuto gran parte della sua vita dedicandosi alla preghiera, all'adorazione eucaristica e a un profondo senso di povertà e di condivisione con i più poveri ed emarginati. Nato il 26 marzo 1748 ad Amettes, un piccolo villaggio nella diocesi di Boulogne-sur-Mer, in Francia, Labre ha incarnato la spiritualità attraverso una vita di rinuncia e servizio.

Labre proveniva da una famiglia di agricoltori, ma fin dalla giovinezza, il suo cuore era orientato verso la vita spirituale. A soli sedici anni, intraprese il cammino della rinuncia alle ricchezze materiali, desiderando dedicare la sua vita a Dio. Tuttavia, i primi tentativi di ingresso in ordini religiosi come i Cappuccini e i Trappisti furono infruttuosi.

Nel 1770, Labre giunse a Roma, la Città Eterna, alla ricerca della sua vocazione spirituale. Qui iniziò il capitolo più significativo della sua vita, caratterizzato da una profonda devozione e povertà. La sua giornata era un perpetuo atto di adorazione, passata pregando nelle chiese e nutrendo una vita ascetica. La sua testimonianza di vita divenne presto una fonte di ispirazione per coloro che lo incontravano.

"Sii come il pane: il pane è per tutti e si dà a tutti. Sii anche tu per tutti." - Giuseppe Benedetto Labre

La vita di Labre era segnata da estrema povertà. Dipendeva interamente dalla carità degli altri, eppure la sua gioia interiore e la sua pace lo rendevano un faro di speranza per i poveri e gli emarginati di Roma. Indossava abiti logori e digiunava quasi ininterrottamente, dimostrando che la vera ricchezza risiede nella consacrazione a Dio.

Labre trascorse gli ultimi anni della sua vita peregrinando tra le chiese di Roma e compiendo pellegrinaggi a luoghi sacri. Nel periodo della Quaresima del 1783, la sua salute peggiorò notevolmente, e il 16 aprile di quell'anno, a trentacinque anni, chiuse gli occhi sulla terra. La sua morte fu accolta con una mistura di tristezza e riconoscenza per la testimonianza di vita offerta.

La fama di santità di Giuseppe Benedetto Labre si diffuse rapidamente. Il suo spirito di sacrificio e la sua dedizione alla povertà ispirarono molte persone. La Chiesa Cattolica lo canonizzò il 8 dicembre 1881, riconoscendo ufficialmente la sua santità.

"Il mio unico desiderio è quello di essere santo." - Giuseppe Benedetto Labre

Oggi, San Giuseppe Benedetto Labre è venerato come il patrono dei senzatetto, dei pellegrini e dei giovani in cerca di direzione nella vita. La sua vita di totale abbandono a Dio continua a ispirare milioni di persone in tutto il mondo, insegnando che la vera ricchezza è nel dono di sé e nell'amore per il prossimo.


sabato 16 dicembre 2023

“John Henry Newman tra fede e ragione” di Davide Romano, giornalista

 


 

John Henry Newman, noto teologo, cardinale e scrittore del XIX secolo, è una figura chiave nella storia della Chiesa cattolica e del pensiero religioso. La sua vita, caratterizzata da una profonda ricerca spirituale e intellettuale, ha influenzato il panorama religioso e filosofico del suo tempo. In questo articolo, esploreremo la vita straordinaria di John Henry Newman, dalle sue origini alla sua canonizzazione nel 2019.

Nato il 21 febbraio 1801 a Londra, Newman proveniva da una famiglia di ascendenza olandese e fu battezzato nella Chiesa anglicana. La sua educazione iniziale fu eccezionale, distinguendosi per la sua intelligenza e il suo talento accademico. Si diplomò a Oxford nel 1821 e divenne un Fellow presso Oriel College.

La carriera accademica di Newman fiorì ad Oxford, dove divenne noto per la sua brillantezza intellettuale e le sue riflessioni teologiche. Nel 1833, fondò il movimento Tractarian, noto anche come Oxford Movement, un gruppo di intellettuali che cercavano di rinnovare la Chiesa anglicana tornando alle sue radici cattoliche. Questo fu il primo passo significativo verso la sua conversione al cattolicesimo.

Dopo anni di intensa ricerca teologica e spirituale, Newman si convertì al cattolicesimo nel 1845. Questa decisione radicale lo portò a rinunciare alla sua posizione a Oxford e a intraprendere una nuova vita come sacerdote cattolico. La sua conversione non fu priva di controversie, ma fu un atto di profonda sincerità nella sua ricerca della verità religiosa.

Dopo la sua conversione, Newman divenne uno dei teologi cattolici più eminenti del suo tempo. Le sue opere, tra cui l'influente "Essay on the Development of Christian Doctrine" e "Apologia Pro Vita Sua," riflettevano la sua dedizione alla fede e la sua abilità di comunicare idee complesse in modo accessibile.

Nel 1879, Papa Leone XIII nominò Newman cardinale, riconoscendo la sua straordinaria contribuzione alla Chiesa e il suo impegno per il dialogo tra fede e ragione. Questo fu un momento significativo nella sua vita, poiché divenne il primo cardinale inglese dai tempi della Riforma.

Il 13 ottobre 2019, Newman è stato canonizzato da Papa Francesco. La sua santità è stata riconosciuta non solo per la sua erudizione teologica, ma anche per la sua vita di preghiera, umiltà e carità.

Oggi, l'eredità di John Henry Newman continua a vivere attraverso le sue opere e l'influenza che ha avuto sulla teologia cattolica. La sua ricerca della verità, la sua dedizione alla fede e la sua abilità di adattarsi ai cambiamenti della società lo rendono un esempio per i credenti di tutte le epoche.

La vita di John Henry Newman è un racconto avvincente di ricerca spirituale, conversione e impegno per la verità. La sua canonizzazione è un riconoscimento della sua santità e della sua influenza duratura sulla Chiesa cattolica.

sabato 9 dicembre 2023

Palermo, la Compagnia del Vangelo lancia l’iniziativa “Aggiungi un posto a tavola. A Natale dona anche tu un pasto completo a un povero”

Natale, tempo gioioso di regali e di auguri, tempo per le cene in famiglia all’ombra di alberi pieni di luci. Ma non per tutti. Sempre più persone, infatti, anche all’interno delle nostre società opulente, fanno fatica a mangiare tutti i giorni. La Compagnia del Vangelo, in collaborazione con le suore Serve dei Poveri del Boccone del Povero del Capo, a Palermo, lancia l’iniziativa “Aggiungi un posto a tavola”.

“Il Natale è ormai alle porte e molte famiglie si preparano a celebrare la festività con cene e regali – scrive in una nota il giornalista Davide Romano, responsabile della comunità La Compagnia del Vangelo -. Sarebbe bello se, soprattutto in un giorno così speciale per tutti, non ci dimenticassimo dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in difficoltà”.

E aggiunge: “Insieme alle suore del Boccone del Povero al Capo di via piazzetta san Marco 8, nel popolare quartiere del Capo a Palermo, abbiamo così pensato di organizzare il pranzo di Natale per chi è senza famiglia o vive per strada. Persone che le ottime suore servono già durante tutto l’anno con la mensa che gestiscono insieme a un gruppo di volontari, ma che non vogliono lasciare sole soprattutto nel giorno in cui ricordiamo la nascita del Signore in mezzo a noi”.

“Chi volesse dare un contributo, offrendo un pasto o il proprio aiuto come volontario – conclude Romano -, può contattare la superiora del convento suor Rosalia al numero 329 491 9286 o recarsi direttamente sul posto”.


“Church Army, cristiani in divisa per servire i più poveri” di Davide Romano, giornalista



Anche nel nostro Paese, non pochi conoscono l’Esercito della Salvezza (in inglese Salvation Army) con le sue curiose uniformi militari. Ma non molti sanno che esistono anche altre realtà simili come, ad esempio, la Church Army. Fondata nel 1882 da Wilson Carlile, è un'organizzazione cristiana della Chiesa Anglicana che ha attraversato più di un secolo di storia, portando avanti la sua missione di servizio e speranza. L'ispirazione per la sua creazione risiedeva nella volontà di estendere la compassione e il messaggio cristiano al di là delle quattro pareti di una chiesa, raggiungendo le persone, soprattutto le più emarginate, direttamente nelle loro comunità e nelle loro esigenze quotidiane.

L'approccio distintivo della Church Army è quello di essere radicata nelle comunità locali, operando attraverso un corpo di volontari e missionari che si immergono nelle realtà quotidiane delle persone. La loro missione si fonda sull'idea che la fede cristiana non debba rimanere confinata nei luoghi di culto, ma debba tradursi in azione pratica, portando speranza e amore tangibile dove c'è bisogno.

Uno degli aspetti chiave del lavoro della Church Army è il suo impegno nella lotta contro l'emarginazione sociale e l'isolamento. Attraverso programmi e iniziative mirate, l'organizzazione cerca di raggiungere coloro che sono ai margini della società, offrendo sostegno emotivo, materiale e spirituale. Come afferma Wilson Carlile, il fondatore, "La Church Army è chiamata a essere un esercito di persone dedicate a portare il Vangelo a coloro che altrimenti non lo ascolterebbero." E, particolare, ai più poveri.

Un'altra caratteristica distintiva della Church Army è la sua adattabilità alle sfide contemporanee. Nel corso degli anni, l'organizzazione ha risposto prontamente ai cambiamenti nella società e alle nuove esigenze emergenti. Dall'assistenza ai senzatetto all'impegno nella promozione dell'istruzione e dello sviluppo comunitario, la Church Army si è dimostrata un faro di speranza che si adatta alle esigenze mutevoli delle comunità che serve.

Il lavoro della Church Army è stato ampiamente riconosciuto per il suo impatto positivo. Le testimonianze delle persone toccate dal loro servizio narrano storie di trasformazione, rinascita e rinforzo della fede. L'organizzazione agisce come un ponte tra la tradizione ecclesiastica e le esigenze pratiche del mondo contemporaneo, dimostrando che la fede può essere vissuta in modo autentico anche al di fuori delle strutture ecclesiastiche convenzionali.

Diffusa oggi in tutto il Mondo, la Church Army si distingue come un'organizzazione che incarna il messaggio cristiano attraverso l'azione concreta e la presenza nelle comunità. La sua eredità di servizio compassionevole ha lasciato un'impronta duratura nella storia della missione cristiana. Continuando a lavorare per alleviare le sofferenze umane e portare speranza, la Church Army rimane un faro di luce e amore nelle comunità che serve.

“Servire i poveri per rimanere umani” di Davide Romano, giornalista

 


Nel cuore di ogni società, la questione della povertà emerge come un richiamo urgente alla compassione e all'azione. Servire i poveri non è soltanto un atto di beneficenza, ma un impegno profondo che riflette il nostro riconoscimento condiviso della dignità umana e dell'uguaglianza. Come afferma Mahatma Gandhi, "La vera grandezza di una nazione risiede nel modo in cui tratta i suoi membri più vulnerabili."

La solidarietà e il senso di comunità che emergono dal servizio ai poveri non solo connettono le persone, ma gettano le basi per una società più forte e resilienti. Come Martin Luther King Jr. ha sottolineato, "Ogni volta che alziamo gli altri, ci innalziamo anche noi stessi." In questo spirito, il servizio ai poveri diventa una pietra angolare per costruire relazioni umane significative e sostenere l'unità nella diversità.

La riduzione delle disuguaglianze, una sfida che affligge molte società, richiede un impegno costante nel servire i poveri. Come dichiara Nelson Mandela, "La vera prova di una società avanzata non è la magnificenza delle sue costruzioni, ma il benessere di tutti i suoi membri." Investire in programmi che offrono opportunità di formazione e sostegno economico è un passo essenziale per garantire che ogni individuo possa contribuire al progresso collettivo.

L'importanza di servire i poveri non si limita all'aspetto economico, ma si estende anche alla dimensione personale. Madre Teresa di Calcutta sottolinea questa connessione profonda quando afferma: "Nel servire gli altri, troviamo la gioia che non può essere espressa." Questa gioia, derivante dall'atto di dare, si traduce in una forza motrice che spinge le persone a continuare a lottare per un mondo più equo.

Infine, l'azione di servire i poveri è fondamentale per la costruzione di un'economia sostenibile. Il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, pioniere del concetto di microcredito, afferma che "L'uso intelligente del microcredito può contribuire a liberare le energie umane e a creare condizioni per un futuro sostenibile." Un'economia equa e inclusiva è la chiave per garantire che nessuno sia lasciato indietro.

Il servizio ai poveri, insomma, è un imperativo morale che richiede l'impegno di tutti. Come afferma Papa Francesco, "La povertà non è destinata a esistere in modo perpetuo. Possiamo debellarla eliminando le cause strutturali della povertà e promuovendo lo sviluppo integrale dei più vulnerabili della nostra società." È attraverso il servizio compassionevole ai poveri che possiamo realmente sperare di creare una società che riflette i valori universali di giustizia, uguaglianza e amore.

martedì 5 dicembre 2023

“Solitario viaggio in Giappone, i ricordi di un'avventura indimenticabile” di Davide Romano


Il grande orientalista Fosco Maraini che una delle esperienze più incantevoli del mondo è “vagare per il Giappone di tempio in valle, di villa in bosco, di fiume in monte, di lago in costa marina, con alcuni cari amici, senza un piano prestabilito”.

Un’esperienza che, a un certo punto della mia vita, ho deciso di donarmi e di vivere da solo, senza alcuna compagnia se non quella di alcuni libri e il ricordo di qualche documentario. Ma, per quanto mi aspettassi essere sorpreso dal Paese del Sol Levante, nulla avrebbe mai potuto in verità preparami al continuo splendore di cui ho fatto ogni istante esperienza. Ancora oggi, quando vado con la mente a quell’avventura, i ricordi quasi si confondono e si trasformano e mi viene il dubbio di aver più sognato che vissuto il mio solitario viaggio.

Ricordo ancora il profumo dell'incenso che s'innalzava delicatamente nell'aria mentre mi trovavo nel suggestivo tempio di Kyoto. Il mio viaggio in Giappone è stato un'esperienza indimenticabile, un caleidoscopio di tradizioni antiche, modernità sfrenata e paesaggi mozzafiato.

Partendo dalla frenetica Tokyo, ho vagato tra i grattacieli illuminati al neon e le strade affollate di Akihabara, il quartiere dell'elettronica. Il contrasto con i giardini sereni di Rikugien è stato straordinario, regalandomi una pausa di tranquillità circondato da alberi secolari e laghetti placidi.

Proseguendo verso il Monte Fuji, la maestosità di questa montagna sacra ha rapito il mio sguardo. La neve scintillava al sole del mattino, creando uno spettacolo surreale di pace e bellezza. Un'escursione fino alla quinta stazione mi ha permesso di abbracciare la grandezza di questo simbolo nazionale.

Nara, con i suoi cervi sacri che si aggirano liberamente tra i visitatori, è stata un'esperienza unica. Nutrire questi animali, considerati messaggeri degli dei, ha creato un legame speciale con la spiritualità del luogo.

Kyoto, ricca di antichi templi e giardini zen, mi ha trasportato indietro nel tempo. Il Tempio d'Argento, con i suoi padiglioni riflettenti e il viale di ciliegi in fiore, è stato un vero spettacolo. Le vie geisha di Gion, con le loro lanterne illuminate, hanno aggiunto un tocco di mistero e tradizione.

La cucina giapponese ha deliziato i miei sensi. Ramen fumanti, sushi freschissimo e dolci artistici sono diventati un rituale quotidiano. La cura e l'attenzione nei dettagli della preparazione culinaria sono un riflesso della perfezione giapponese in ogni ambito.

Le sorgenti termali di Hakone hanno regalato relax e benessere, immerso in acque calde con vista sul paesaggio vulcanico. La mia visita al parco dei cervi di Miyajima, con il Torii galleggiante sull'acqua, ha sigillato il viaggio con un'immagine iconica che rimarrà impressa nella memoria.

Ogni passo in Giappone è stato un dialogo con la storia, la spiritualità e la natura. Questo paese ha lasciato un'impronta indelebile nel mio cuore, un mosaico di ricordi che si intrecciano come i rami dei ciliegi in primavera.

 

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...