giovedì 31 agosto 2023

I Poveri, il cuore del Vangelo

“Egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: ‘Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati’”.  (Luca 6,20-21)

Nel cuore stesso del Vangelo risplende una verità innegabile: i poveri occupano una posizione centrale. È impossibile penetrare il significato del Vangelo senza considerare la condizione dei poveri. Essi divengono parte integrante della stessa natura di Gesù che, nonostante la sua divina ricchezza, ha volontariamente scelto di umiliarsi, di condividere la povertà umana, e persino di assumere il peso del peccato, la forma più cruda di povertà. In questa scelta, i poveri si fondono con la stessa personalità di Cristo. Paradossalmente, è proprio la loro povertà che ci assicura un patrimonio eterno, e già in questo momento ci permette di arricchirci attraverso l'amore. Questo perché la più grande povertà che dobbiamo combattere è la mancanza di amore.

Al termine del nostro pellegrinaggio terreno, la verità profonda della vita sarà rivelata con chiarezza: le finzioni del mondo, che attribuiscono senso all'esistenza mediante il successo, il potere e la ricchezza, si dissolveranno. Invece, l'amore che avremo donato e condiviso emergerà come l'unico vero tesoro. Le cose materiali svaniranno nell'oblio, ma l'amore resterà, risplendendo come un faro luminoso nella notte. Se vogliamo evitare di vivere una povertà spirituale, dobbiamo chiedere la grazia di riconoscere la presenza di Gesù nei volti dei poveri e di servirlo attraverso il nostro impegno verso di loro. Perché servire i poveri, diceva Giacomo Cusmano, è servire Gesù.

Noi siamo portatori di un tesoro di inestimabile valore, una ricchezza che non dipende dal numero di beni materiali accumulati, ma dalla nostra essenza. Questa ricchezza trae origine dalla vita che ci è stata donata, dalla virtù che risiede in noi e dalla bellezza indelebile con cui Dio ci ha dotati, essendo noi riflessi della sua immagine. Ciascuno di noi è un gioiello prezioso agli occhi di Dio, unico e irripetibile nella storia dell'umanità. Dio ci contempla con occhi di amore e ascolta i battiti dei nostri cuori con tenerezza. Spesso, però, ci lasciamo sopraffare dal senso di mancanza, concentrandoci su ciò che ci manca anziché rallegrarci per ciò che possediamo. Cadendo nella tentazione del "magari", finiamo per ignorare i doni e i talenti che ci sono stati affidati. Mentre c'è qualcosa che desidereremmo avere, c'è anche tanto che abbiamo già.

Dio ci ha arricchito con questi doni in base alla sua conoscenza profonda di ciascuno di noi e alla fiducia nella nostra capacità di farli fruttare, nonostante le nostre fragilità. Anche il servo timoroso, che ha nascosto il proprio talento per paura, riceve la fiducia di Dio. Dio si augura che, nonostante le sue paure, anche questo servo utilizzi bene ciò che gli è stato dato. In sintesi, il Signore ci esorta ad impegnarci attivamente nel tempo presente, abbandonando le nostalgie per il passato e ponendoci nell'attesa operosa del suo ritorno.

La nostalgia, tuttavia, può tramutarsi in un'oscura nuvola che avvolge l'anima. Questo senso di malinconia, come un'ombra giallastra o un'oscurità soffocante, ci fa rivolgere costantemente lo sguardo al passato o agli altri, impedendoci di concentrarci sulle nostre potenzialità e sulle opportunità di lavoro che Dio ci ha concesso. Nel Vangelo, i servi lodevoli sono coloro che osano sfidare la zona di comfort. Essi non sono prudenti e cauti, non si preoccupano di conservare gelosamente ciò che hanno ricevuto, ma hanno il coraggio di metterlo in gioco. Infatti, il bene che non viene investito si perde; così, la grandezza della vita non dipende da quanto si accumula, ma da quanto si condivide e si fa fruttare. In un mondo in cui molti sono preoccupati solo di accumulare, pensando a sé stessi più che agli altri, la vita diventa vuota e priva di significato. Una vita vera è quella che si nutre di doni, quella che vive per essere dono agli altri.

La fedeltà a Dio non si limita soltanto a rispettare regole e comandamenti, che spesso hanno poco a che fare con la volontà del Signore, ma implica anche il coraggio di spendere la propria vita in un servizio incrollabile. Anche se abbiamo piani ben delineati, quando il richiamo al servizio si fa presente, è importante lasciarli da parte e rispondere con generosità. Purtroppo, esistono cristiani che giocano in difensiva, aderendo rigorosamente alle regole per evitare rischi.

La vera fedeltà a Gesù, invece, richiede audacia e il coraggio di amare, superando la passività che potrebbe facilmente trasformarsi in complicità. In un mondo segnato dall'incertezza e dalla fragilità, dobbiamo evitare di sprecare la nostra preziosa vita concentrando l'attenzione egoisticamente su noi stessi, rinunciando all'indifferenza. Oggi dobbiamo rispondere con un coraggio intraprendente e un amore attivo, affrontando le sfide con rinnovata speranza e compassione verso gli altri.

Scriveva il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer: “Di tutto questo alla fine rimarrà soltanto una cosa, cioè l'amore che abbiamo avuto nei nostri pensieri, nelle nostre preoccupazioni, nei nostri desideri e speranze. Tutto il resto cessa, passa, tutto ciò che non abbiamo pensato e desiderato per amore, tutti i pensieri, tutta la conoscenza, tutti i discorsi senza amore finiscono: soltanto l'amore rimane in eterno”.

 (Davide Romano)

Opportunità di Volontariato: Unisciti a Noi per Nutrire i Cuori e le Anime

 


Sei pronto/a a fare la differenza nelle vite di coloro che hanno bisogno? La Comunità cristiana "La Compagnia del Vangelo" ti invita ad unirti a noi in una missione di amore e solidarietà. Stiamo cercando uomini e donne di buona volontà che vogliano partecipare attivamente nella preparazione e nel servizio dei pasti quotidiani presso la mensa del Boccone del Povero, situata nella suggestiva piazzetta San Marco 8 nel popolare quartiere del Capo, a Palermo.

Da oltre due anni, abbiamo avviato una collaborazione unica e virtuosa che coinvolge varie realtà religiose e sociali. Insieme alle suore del Boccone del Povero, la Chiesa Anglicana, la Chiesa Mennonita della città e a numerosissimi altri volontari, ci impegniamo con passione e dedizione nella gestione di questa mensa, offrendo cibo e sostegno ai nostri fratelli e sorelle che attraversano momenti di difficoltà.

Davide Romano, il fondatore della Comunità La Compagnia del Vangelo, sottolinea l'importanza di questa collaborazione ecumenica dal basso. I pasti completi e abbondanti che prepariamo ogni pomeriggio rappresentano un faro di speranza per coloro che hanno bisogno. Ma abbiamo bisogno del tuo aiuto. Stiamo cercando volontari appassionati che desiderino unirsi a noi in questo nobile scopo. Ogni singola mano tesa e ogni contributo fanno la differenza.

Se vuoi unirti a noi, ti aspettiamo direttamente presso il convento nella piazzetta San Marco 8 durante i giorni di apertura della mensa, a partire dalle ore 16. Sarà un'occasione per condividere il tuo spirito di servizio e contribuire a rendere il mondo un posto migliore attraverso il gesto semplice ma potente di nutrire i cuori e le anime.

La Comunità del Vangelo, fondata dal giornalista Davide Romano, è un gruppo di cristiani che si ispirano alla predicazione e all'esempio del martire di mafia don Pino Puglisi. Siamo uniti da un comune desiderio di rispondere all'appello del Signore attraverso l'assistenza ai più bisognosi.

Unisciti a noi in questa straordinaria missione di amore e speranza. Insieme possiamo fare la differenza nelle vite di chi ha bisogno.

lunedì 28 agosto 2023

“Il seme della Parola e la buona terra” (Sermone su Matteo 13, 1-23) di Davide Romano

 


Le parabole del regno dei cieli; il seminatore e i diversi terreni


1 In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; 2 e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva. 3 Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo:
«Il seminatore uscì a seminare. 4 Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. 5 Un'altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; 6 ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. 7 Un'altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. 8 Un'altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9 Chi ha orecchi oda».
10 Allora i discepoli si avvicinarono e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?» 11 Egli rispose loro: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato. 12 Perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell'abbondanza; ma a chiunque non ha sarà tolto anche quello che ha. 13 Per questo parlo loro in parabole, perché, vedendo, non vedono; e udendo, non odono né comprendono. 14 E si adempie in loro la profezia d'Isaia che dice:
"Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete;
guarderete con i vostri occhi e non vedrete;
15 perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile:
sono diventati duri d'orecchi e hanno chiuso gli occhi,
per non rischiare di vedere con gli occhi e di udire con gli orecchi,
e di comprendere con il cuore
e di convertirsi, perché io li guarisca".
16 Ma beati gli occhi vostri, perché vedono; e i vostri orecchi, perché odono! 17 In verità io vi dico che molti profeti e giusti desiderarono vedere le cose che voi vedete, e non le videro; e udire le cose che voi udite, e non le udirono.

Spiegazione della parabola del seminatore
18 «Voi dunque ascoltate che cosa significhi la parabola del seminatore! 19 Tutte le volte che uno ode la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada. 20 Quello che ha ricevuto il seme in luoghi rocciosi, è colui che ode la parola e subito la riceve con gioia, 21 però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato. 22 Quello che ha ricevuto il seme tra le spine è colui che ode la parola; poi gli impegni mondani e l'inganno delle ricchezze soffocano la parola che rimane infruttuosa. 23 Ma quello che ha ricevuto il seme in terra buona è colui che ode la parola e la comprende; egli porta del frutto e, così, l'uno rende il cento, l'altro il sessanta e l'altro il trenta».

 

Che cosa è una parabola? Secondo la parola greca parabolè, parabola è un modo semplice, con esempi tratti dalla vita di tutti i giorni, per spiegare un concetto complesso. Ed è questo ciò che Gesù fa anche questa volta. Chissà quante volte il Signore si sarà seduto ai bordi di un campo, magari nel primo meriggio o all’alba di un nuovo giorno, guardando l’ampio gesto del braccio di un seminatore che sparge i suoi semi per i campi brulli...

Abbiamo mai visto un contadino seminare un campo? Forse no. Ma un ebreo del tempo di Gesù aveva ben chiara in mente questa immagine. A lui sicuramente diceva molto di più di ciò che può dire a noi, uomini e donne di un mondo consegnato all’azione delle macchine.

Siamo in un momento particolare della vita del Salvatore. Il tempo dell’ascolto entusiasta da parte delle folle sembra essersi esaurito e ormai è chiara l’ostilità dei capi religiosi giudaici che sono giunti alla decisione di “farlo fuori” (cf. Mt 12,14).

Sì, è accaduto così e accade così anche oggi nei confronti di chi predica e annuncia veramente il Vangelo. Del sangue dei martiri sono continuamente bagnate le strade del mondo.

Ma da noi questo fortunatamente non accade, anzi. Ogni domenica da più di duemila anni nel nostro Paese più di dieci milioni di uomini e donne che credono, o dicono di credere, in Gesù Cristo si radunano nelle chiese, nei templi, nelle sale per le adunanze, di qualunque confessione, per ascoltare la parola di Dio. Eppure poi non accade nulla. Nulla che annunci il regno di Dio che viene. La parola di Dio è inefficace? Chi la predica, predica in realtà parole sue, o magari inquina o sostituisce in modo fraudolento questo purissimo seme della parola con altro? E chi ascolta, ascolta veramente e accoglie la parola di Dio? E chi l’accoglie, è poi conseguente, fino a realizzarla nella propria vita?

Quando Matteo scrive questa pagina, che presenta Gesù sulla barca intento ad annunciare le parabole, interrogativi simili risuonano anche nella sua comunità cristiana. Singolarmente, questa è una parabola in atto: perché è evidentemente Gesù il seminatore che sta parlando del suo seminare la Parola in quanti lo ascoltano sulla riva.

I cristiani sanno che la parola di Dio, uscita da Dio, produce sempre il suo effetto (cf. Is 55,10-11): e allora perché tanta parola predicata, a fronte di un risultato così scarso?

Ma torniamo al racconto evangelico: Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti! Il monito è evidentemente rivolto ai suoi ascoltatori. Cercate di capire! Aprite le orecchie!

In questa parabola stupisce la quantità di seme gettato dal seminatore, e chi non sa che in Palestina prima si seminava e poi si arava per seppellire il seme, potrebbe pensare a un contadino sbadato o sprecone. Invece il seme è abbondante perché abbondante è la parola di Dio, che deve essere seminata, gettata come un seme, senza parsimonia. E questo vale anche oggi per noi che siamo sempre tentati di fare strategie quando si parla di evangelizzazione, di selezionare i target: questo sì e quello no. Il seminatore semina ovunque.

Ma torniamo alla pagina evangelica, il predicatore che annuncia la Parola sa che ci sono innanzitutto ascoltatori i quali la sentono risuonare ma in verità non l’ascoltano. Superficiali, senza grande interesse né passione per la Parola, la sentono ma non le fanno spazio nel loro cuore, e così essa è subito sottratta, portata via.

Ci sono poi ascoltatori che hanno un cuore capace di accogliere la Parola, possono addirittura entusiasmarsi per essa, ma non hanno vita interiore, il loro cuore non è profondo, non offre condizioni per farla crescere, e allora quella predicazione appare sterile: qualcosa germoglia per un po’ ma, non nutrito, subito si secca e muore.

Altri ascoltatori avrebbero tutte le possibilità di essere fecondi; accolgono la Parola, la custodiscono, sentono che ferisce il loro cuore, ma hanno nel cuore altre presenze potenti, dominanti: la ricchezza, il successo e il potere. Questi sono gli idoli che sempre si affacciano, con volti nuovi e diversi, nel cuore del credente. Queste presenze non lasciano posto alla presenza della Parola, che viene contrastata e dunque muore per mancanza di spazio.

Ma c’è anche qualcuno che accoglie la Parola, la pensa, la interpreta, la medita, la prega e la realizza nella propria vita. La fa diventare carne e storia, la sua carne e la sua storia. Certo, il risultato di una semina così abbondante può sembrare deludente: tanto seme, tanto lavoro, piccolo il risultato… Ma la piccolezza non va temuta: ciò che conta è che il frutto venga generato! Dio è venuto è venuto per salvarci uno alla volta… E’ venuto per ognuno di noi.

Questi racconti in parabole non erano comuni tra i rabbini del tempo di Gesù, e anche per questo i discepoli gli chiedono conto del suo stile particolare nell’annunciare il Regno che viene. Gesù risponde loro con parole che ci stupiscono, ci intrigano e ci chiedono grande responsabilità: “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli”. Nel passo parallelo di Marco, a cui Matteo s’ispira, queste parole di Gesù sono ancora più forti: “A voi è stato è dato di conoscere il mistero del regno di Dio” (Mc 4,11). Sì, proprio ai poveri discepoli è stato affidato e consegnato, da Dio, ciò che riguarda il suo regno. Per dono di Dio essi hanno accesso a una conoscenza che li rende capaci di vedere il velo alzato sul mistero, su ciò che era stato nascosto per essere svelato. Non è un privilegio per i discepoli, ma una grande responsabilità e quindi un compito: a loro è stata data la conoscenza di come Dio agisce nella storia di salvezza!

Ecco però, subito dopo, l’annuncio di una contrapposizione: vi sono invece altri che vedendo non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono, restando chiusi nella loro autosufficienza, nella loro autoreferenzialità religiosa. E si badi bene a queste parole di Gesù, ispirate al profeta Isaia (cf. Is 6,9-10): esse non vogliono indicare arbitrio da parte di Dio, il quale consegnerebbe il Regno ad alcuni e lo negherebbe ad altri. Non c’è una doppia predestinazione che salva alcuni e danna altri. Con buona pace di alcuni padri della Riforma protestante.

Si deve invece comprendere che chi è destinatario della parola predicata da Dio e non l’ascolta, ma la lascia cadere, non resta nella situazione di partenza. La “parola di Dio”, sempre “viva ed efficace” (Eb 4,12), quando è accolta, salva, guarisce e vivifica; al contrario, quando è rifiutata, causa la malattia della sclerocardia, della durezza del cuore, che diventa sempre più insensibile alla Parola, sempre più incapace di sentirsi toccato e ferito da essa. È così, ma non per volontà di Dio, bensì per il rifiuto da parte dell’essere umano: gli viene offerta la vita, ma non la accoglie, e di conseguenza va verso la morte…

Spesso il popolo di Israele, ma anche il popolo dei discepoli di Gesù, ha un cuore indurito, ha orecchi chiusi, ha occhi accecati, e così non solo non comprende ma neppure discerne la parola del Signore e non fa nessun tentativo di conversione, di ritorno a Dio, il quale sempre ci attende per guarire i nostri orecchi e i nostri occhi. Basterebbe riconoscere e affermare: “Siamo ciechi, siamo sordi, parlaci Signore!”.

Eppure quella dei giorni terreni di Gesù era “un’ora favorevole” (2 Cor 6,2), l’ora della visita di Dio (cf. Lc 19,44), l’ora della misericordia del Signore (cf. Lc 4,19). Perciò Gesù dice ai discepoli che lo circondano: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti dell’antica alleanza hanno desiderato di essere presenti nei giorni del Messia, hanno sognato di vederlo in azione e di ascoltare le sue parole, ma a loro non è stato possibile. Voi invece, voi che ho chiamato e che mi avete seguito, avete potuto vedere con i vostri occhi e ascoltare con i vostri orecchi”.

Non un’idea, non una teologia, non un’etica, ma un uomo, Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, venuto da Dio! “Voi lo avete incontrato e ne avete fatto esperienza con i vostri sensi. Sì, beati voi!”.

Dunque, a noi che siamo uditori della Parola e che accogliamo la sua semina nel nostro cuore, non resta che vigilare e stare attenti: la Parola viene a noi e noi dobbiamo anzitutto custodirla, meditarla e lasciarci da lei ispirare, trasformare; dobbiamo perseverare in questo ascolto e in questa custodia nel nostro cuore; dobbiamo infine predisporci alla lotta spirituale per custodirla, farle spazio, difenderla da quelle presenze che ce la vorrebbero rubare. In breve, basta avere fede in essa: la Parola, “il Vangelo è potenza di Dio” (Rm 1,16)

È ciò che accade anche di fronte alla persona di Gesù: è lui, Parola divenuta uomo, «il mistero del regno dei cieli»; è dalla comunione con lui che dipende la fecondità della nostra vita.

E se ciò non accade, se la nostra vita è sterile, forse è perché, anche se non ce ne rendiamo conto, anche se diciamo continuamente “Signore, Signore!”, anche noi siamo sordi e ciechi. E non sentiamo e non vediamo. E allora questo è il momento di chiedere al Signore di essere guariti. “Se vuoi, puoi guarirmi” (Marco 1,40). Cosa rispose il Signore? “Lo voglio!”.

 

sabato 26 agosto 2023

“Davide Romano secondo me. La verità sul giornalista palermitano” di suor Marie Jeanne Mulamba Meta

 


Se al mondo ci fossero più persone come Davide Romano, la nostra vita sarebbe forse più piacevole e bella. Di questa persona, di questo fraterno amico, che il Signore ha messo inaspettatamente sul mio cammino posso solo rendere grazie a Dio per la benedizione che è stato e continua ad essere per il nostro convento e la nostra comunità del convento di San Marco al Capo, a Palermo.

L’ho conosciuto per caso qualche anno fa perché accompagnava un ragazzo della sua comunità che voleva fare del volontariato nella nostra struttura che accoglieva anziani indigenti. Il ragazzo non è più venuto ma Davide è rimasto. In quella occasione, quando l’ho guardato, ho capito che il Signore me lo aveva mandato perché Lui voleva che facesse qualcosa per Lui attraverso di me. E allora l’ho guardato e gli ho detto senza neppure conoscerlo ancora: “Voglio aprire una mensa per i poveri della città. Mi vuoi dare una mano?”. Si vedeva che era sorpreso, ci ha pensato un attimo e con una luce immensa negli occhi mi ha risposto di sì.

Da quel momento è venuto tutte le settimane, usando tutto il suo tempo libero, per preparare i pasti per i nostri poveri. Alle volte si è trovato da solo a cucinare e a servire più di trenta persone. Sudato e visibilmente stanco in estate, con una temperatura esterna 45 gradi, in cucina almeno 10 di più, non ha mai fatto mancare cibo squisito e abbondante e accoglienza per i nostri poverelli. Sempre sorridente. All’inizio il cibo della mensa lo comparava soprattutto con le offerte raccolte al culto domenicale della sua comunità, poi sono arrivate le donazioni e non è stato più necessario. Inoltre, a poco a poco ha raccolto un gruppo di volontari, che oggi sono circa 30, che ogni giorno da allora continua a gestire la mensa.

E ancora oggi, seppure lontano, continua a seguire il gruppo e la sua attività, alcune volte anche facendo pubblicare articoli, che spesso scrive lui stesso, su quello che facciamo in modo da raccogliere cibo e offerte per i nostri poveri, oltre che sempre nuovi volontari. Il gruppo fin dall’inizio è stato caratterizzato da una forte impronta ecumenica. Ed è attualmente formato da cattolici, anglicani, mennoniti, protestanti di varie comunità oltre che da aderenti dell’Esercito della Salvezza

Ha anche fondato un gruppo informale di volontari cristiani che si chiama “La Compagnia del Vangelo” richiamandosi all’esempio, al martirio e alla predicazione antimafia di padre Pino Puglisi, ucciso da Cosa nostra il 15 settembre del 1993 per il suo impegno a favore degli emarginati in un quartiere molto difficile di Palermo che si chiama Brancaccio. Da quello che so, nella vita di Davide questo piccolo e sorridente prete cattolico aveva avuto un ruolo importante.

Per le nostre attività, inoltre, ha creato un blog che ha aggiornato quasi fino al giorno stesso della sua partenza.

Per la crescita spirituale e culturale dei volontari abbiamo anche dato l’avvio insieme un book club di letture cristiane scegliendo libri di ogni tradizione cristiana. Ma tutti riguardanti figure che hanno servito il Signore nei poveri. Abbiamo discusso anche di un libro sull’Esercito della Salvezza, oltre che di vari testi sul pensiero, la figura e la spiritualità del nostro amato fondatore: il beato Giacomo Cusmano. Per gli eventi pubblici ci ha sempre pensato lui. Ha chiamato i relatori, ha scritto e diffuso i comunicati stampa e raccolto il denaro con la vendita dei libri per la mensa.

Inoltre, sempre per i volontari ma non solo, abbiamo anche organizzato delle intense giornate di ritiro spirituale che abbiamo condotto insieme.

Mi ha pure aiutato a stendere un piano di nuove attività caritative per il quartiere quali uno sportello di ascolto per il disagio mentale, visto che io sono pure psicologa, un ambulatorio medico gratuito e tante altre cose. Per lavorare meglio, perché è uno che non si ferma mai e che non dice mai di no, gli ho chiesto di venire a vivere per qualche settimana nel nostro convento. Gli ho dato una stanza e lui ha seguito la nostra vita. Le sorelle erano tutte molto contente perché è una persona disponibile e sempre gentile. E quando è andato via per noi è stato un momento molto triste. La nostra suora anziana di 99 anni, Natalia che lo chiamava “padre”, ha pianto e non voleva che andasse via. Lui ha promesso che presto sarebbe tornato.

Per finanziare le nostre attività caritative ha avuto l’idea di trasformare parte del convento in un b&b e un centro di spiritualità che oggi funzionano a pieno regime. Anche in questo caso si è occupato di tutto lui sia dal punto organizzativo che legislativo. Ha scritto per conto nostro al Santo Padre ed è arrivata una toccante lettera di Papa Francesco colla quale benediceva il lavoro che stavamo facendo.

Davide ci aveva già dato una mano regalandoci sedie, scrivanie, lampade da tavolo, pc, cancelleria varia… perché una delle sue caratteristiche è che non ha nessun attaccamento al denaro e alle cose ed è felice perché è felice di poco.

Anzi, è più felice quando dà. E, quando ha deciso di lasciare tutto per servire il Signore nei suoi poveri, gli ho visto dare tutte le sue cose, dai vestiti alle pentole, ai quadri, ai libri… sembrava San Francesco d’Assisi. Era felice di dare.

Ho voluto scrivere queste righe perché conosco ormai Davide e so che lui non ama parlare di tutto quello che il Signore fa con lui e i suoi talenti e sbaglia. È una persona molto umile e riservata ma qualche volta per me lo è troppo.

Davide ama i poveri, li ama davvero così come ama il Signore e li ama nel Signore. Davide è una benedizione per tutti. E la sua vita può ispirare tanta gente a fare quello che lui ha fatto e sta ancora facendo.

(https://www.ilgiornaledipantelleria.it/palermo-davide-romano-secondo-me-di-suor-marie/)

 


martedì 15 agosto 2023

“Dio ama chi ama rischiare per amore". Un commento a Matteo 25, 14-30 di Davide Romano

 


La parabola dei talenti

14 «Poiché avverrà come a un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni. 15 A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì. 16 Subito, colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque. 17 Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due. 18 Ma colui che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone. 19 Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro. 20 Colui che aveva ricevuto i cinque talenti venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: "Signore, tu mi affidasti cinque talenti: ecco, ne ho guadagnati altri cinque". 21 Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore". 22 Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: "Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". 23 Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore". 24 Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: "Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo". 26 Il suo padrone gli rispose: "Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l'interesse. 28 Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti. 29 Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 30 E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti". 


Siamo sulla strada verso Gerusalemme città nella quale Gesù sarà catturato e condannato a morte. Gesù sta dando ai discepoli le “istruzioni” per il tempo che verrà dopo la sua salita al cielo e prima del suo ritorno. All’inizio della parabola usa infatti la congiunzione “poiché” che la collega all’esortazione del versetto 13 dello stesso capitolo (“Vegliate perché non sapete né il giorno né l’ora”) inserita all’interno di quella sulle Dieci vergini.

I protagonisti della storia. C’è un Signore, che è chiaramente Gesù, che sta partendo per un lungo viaggio dal quale però tornerà. Anche se nessuno sa quando. E ci sono tre servi ai quali affida un consistente deposito. A ciascuno secondo le proprie capacità perché il padrone conosce bene i suoi servi. Insieme al deposito, affida ai servi anche la sua fiducia. Perché i servi avrebbero potuto anche scappare con la cassa! Del resto la somma era notevole. Pensate che un “talento” non era una moneta ma un valore che poteva essere quantificato sia in monete d’argento o d’oro e che equivaleva a circa 6mila denari e sappiamo (Mt. 20,2) che un denaro era una giornata di lavoro agricolo. Quindi un solo talento equivaleva a circa 16 anni di lavoro.

Dicevo che il Signore conosceva bene i suoi servi e, infatti, al suo ritorno i primi due gli restituiscono il capitale addirittura raddoppiato. E ricevono per questo una duplice ricompensa: la possibilità di dominare su un patrimonio sproporzionato rispetto a quello, al poco, che avevano ricevuto in amministrazione e soprattutto la “gioia” che è quella che il Signore concede a coloro che ama.

E veniamo all’altro personaggio della storia: il terzo servo il quale gli restituisce il talento ricevuto accompagnando il gesto con parole assai poco rispettose (“Tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”). Gli dice, insomma, che si arricchisce sul lavoro degli altri perché è vero che il capitale è il suo ma non la fatica per farlo fruttare. “Ho avuto paura” gli dice. Magari di perdere il talento e di doverlo rifondere di tasca sua! Certo, potrebbe essere anche una scusa per giustificare la sua svogliatezza e anche il suo risentimento – in fondo lui ha ricevuto meno degli altri - perché il padrone pretende di “mietere” il frutto del suo lavoro. Insomma, un opportunista spietato che campa sul lavoro altrui!

In punta di diritto alachico, come sostiene uno studioso, il terzo servitore ha osservato una norma rabbinica secondo la quale seppellendo il denaro e poi restituendolo lui con la legge era a posto, come si suol dire. ! “Questo è il tuo talento, amici come prima!”.

Ma dal punto di vista morale, le cose stanno ben diversamente. Il padrone gli ha affidato non solo il denaro ma anche la sua fiducia, dicevamo. Se avesse voluto seppellirlo, lo avrebbe potuto fare lui stesso. E così il Signore gli rigetta in faccia le sue stesse parole e l’immagine che gli ha dato di lui, come in uno specchio. Forse il servo è davvero prigioniero di questa terribile immagine del suo Signore. È un prigioniero, un cattivo da captivus diaboli, prigioniero del diavolo. Forse lo siamo anche noi. Che immagine abbiamo di Dio in noi? Non è forse questa immagine distorta che ci blocca e che ci dà in fondo anche un alibi?

Tutto chiaro? Cominciamo dal significato che tutti noi diamo alla parola talento. Lei ha talento per la musica, lui per la cucina…Talento è ormai per noi una dote naturale che il brano ci invita a mettere a frutto per il bene di tutti. Per alcuni esegeti non è solo questo. Secondo loro la colpa sarebbe di Giovanni Calvino, povero Calvino!

Per alcuni, infatti, la parabola è in verità un invito alla conversione rivolto a quel cristiano che sovente è ben contento del suo rassicurante “minimo”, della sua confortevole tiepidezza, che fa le cose come si sono sempre fatte perché non ha alcuna vera passione per il Regno e che anzi si affaccia alle nuove sfide e ai nuovi impegni che l’annuncio pone con “paura”. Un cristiano che non guarda con audacia, creatività e generosità a compiti che il Signore continuamente pone in un mondo in veloce e perenne mutazione. Un mondo in cui la messe sterminata di coloro che “vogliono vedere Gesù” (Gv 12,21) leva al cielo la sua voce. Perché l’attesa del Signore deve essere vigilante, operosa, creativa. Non pigra.

Lui non è più con noi, è partito per un lungo viaggio e non sappiamo quando tornerà. Ma sappiamo che ha affidato a ognuno di noi un compito: moltiplicare i doni che ciascuno ha ricevuto. Perché, come abbiamo visto, il dono è anche un compito: custodire e far fruttificare. Ma allora che cosa è questo dono?

Secondo Ireneo di Lione è la vita che Dio ha donato a ciascuno di noi. La vita è un dono che non va sprecato in inutili passatempi, occupazioni, in strade che non arrivano da nessuna parte. Secondo altri, invece, i talenti sono le Parole che il Signore ha affidato ai suoi discepoli per custodirle e farle fruttare nel mondo. E, in questo compito, c’è anche una componente di rischio… ma il Signore ama chi rischia per lui. Ed è infatti proprio il rischio che il terzo servo non ha voluto accettare. Più che il male, ha fatto di peggio: non ha fatto nulla!

E noi? Come stiamo mettendo a frutto il dono che il Signore ci ha affidato? Come lo stanno mettendo a frutto le nostre chiese spesso contente del loro “poco”, anche lei loro pochi fedeli, che non vogliono accettare il rischio, che magari hanno seppellito il talento sotto coltri di rituali sempre più vuoti e burocratiche discipline, e che non hanno il coraggio di obbedire fino in fondo il Signore che ci ha comandato di annunciare il Vangelo fino ai confini del mondo? A ogni costo e correndo ogni rischio?

"L’eremita delle Madonie" di Davide Romano

Una manciata di case gettata sulla catena montuosa siciliana delle Madonie, poche migliaia di anime un tempo dedite quasi esclusivamente alla coltivazione e alla raccolta della manna.

Castelbuono, un centro che dista poco più di cinquanta chilometri da Palermo, oggi e una località segnalata in quasi tutte le guide turistiche soprattutto per il suo magnifico castello, i ristoranti rustici e i suoi alberghi. Ma non solo. Nell’articolata geografia religiosa dell’Isola il piccolo comune madonita è da tempo noto anche come vivaio di vocazioni alla vita consacrata. E, in particolare, per una speciale forma di quest’ultima: quella eremitica. C’è infatti una lunga tradizione di uomini in fuga dal mondo e gelosi della propria solitudine.

L’ultimo in ordine di tempo è un giovane di poco più di trent’anni, minuto, il volto scavato, gli occhi piccoli e accesi, una folta barba e i capelli rasati. Quasi raggomitolato nel suo abito di panno rozzo, sembra emergere da un’altra epoca.

Si chiama frate Rosario Leonarda, e originario della stessa Castelbuono e vive in un piccolo eremo in pietra viva ai margini del paese messogli a disposizione dal vescovo di Cefalù.

Mi accoglie in una stanzetta buia. «La luce non ce l’ho – mi dice subito –, dobbiamo aspettare che si alzi il sole». All’interno qualche candela, un letto di assi, un tavolo con sopra un cucinino e, accanto a questo, una radio. «Ascolto solo Radio Maria» si giustifica.

Poi s’informa: «Sei venuto per parlare? No? Dovrei raccontarti la mia vita? Ma a chi può interessare? E una vicenda normale come tante altre».

Lo convinco che è piuttosto singolare che, nell’era della comunicazione globale, un uomo decida di vivere da solo tagliando i ponti con la società. «Se pensi che possa aiutare qualcuno ad avvicinarsi a Dio, allora va bene: ti racconto la mia storia».

Nato nel maggio del 1967, ultimo di sei figli di una famiglia semplice e contadina, in paese lo descrivono come un bambino sveglio e vivace. Come molti suoi coetanei, dopo le medie, frequenta l’istituto alberghiero.

«A diciotto anni ho fatto la prima esperienza presso un convento di frati». Poi i ricordi si fanno più confusi, nel racconto del “piccolo eremita” qualcosa non quadra. Parla di due anni di permanenza a Corleone nel noviziato dei Francescani rinnovati, ma non sa collocare con precisione il periodo nel tempo.

La gente di Castelbuono racconta, invece, la storia di un giovane allegro partito come volontario per il Libano, durante il servizio militare, e tornato, qualche anno dopo, con uno sguardo spento, attraversato da strane visioni di morte. La gente parla ancora di un giovane tornato vecchio, rimasto per mesi segregato in silenzio a casa sua e partito all’improvviso una mattina, quasi di nascosto, per farsi frate.

«Mentre ero a Corleone – riprende Rosario, – mi sentivo chiamato a vivere con Dio nella solitudine. Ma non è come pensano le persone che si entra in monastero e si decide. È necessario fare un lungo discernimento per capire cosa Dio vuole da noi». Alla vigilia dei voti, decide di uscire dal convento. Va allora in Svizzera a lavorare per qualche anno come cuoco.

«Avevo bisogno di chiarirmi le idee», spiega. «Per chi ha vissuto in un ambiente protetto come una comunità religiosa, il mondo è una giungla violenta. Lavorando, però, ho riscoperto la realtà della vita materiale, ho imparato che nella fatica d’ogni giorno è possibile incontrare Dio».

Nel 1991 altra decisione apparentemente repentina. Si licenzia e torna a casa. «Me ne sono andato quando ho capito che la mia esperienza lì era finita. Sono cose che senti, è inutile spiegare come avvengono», chiosa.

Un giorno, passeggiando per i boschi che circondano il paese, incontra frate Gabriele, un eremita figlio di un diplomatico argentino in Italia che, dopo aver passato più di dieci anni sepolto in un monastero cistercense vicino Roma, si era stabilito in un piccolo rifugio sui monti a pochi chilometri da Castelbuono.

«Rimasi subito affascinato dal suo ideale di radicalismo evangelico, – continua – ma avevo paura. Non mi sentivo pronto. Non sempre puoi fare quello che desideri. Ci sono tempi e momenti per ogni cosa. Quando il tempo è maturo, la cosa non ti costa fatica. Nella vita ho imparato che bisogna sapere attendere che i fiori sboccino da soli. Forzandoli, li si uccide solamente».

Dopo un anno, torna un’altra volta in convento a Corleone. Ma lì capisce finalmente qual è la sua strada. Va, quindi, dal suo vescovo per chiedergli consiglio. «Il mio pastore è un uomo molto buono e molto saggio. Mi affidai a lui e promisi nelle sue mani di essere povero, casto e obbediente per tutta la vita».

Da allora vive nel piccolo eremo ai bordi del centro abitato.

«Conduco una vita normale», dice. «Mi alzo alle otto. Sì, lo so è un po’ tardi. Prima mi ponevo il problema. Dopo ho pensato che, se anche dormo un po’ di più, Dio mi vuole bene lo stesso. O no?». Il resto della giornata lo dedica a fabbricare piccoli oggetti in legno o in gesso e a dipingere icone.

«Lavoro dalle quattro alle sei ore al giorno se nessuno viene qui a trovarmi. Molta gente vuole che l’ascolti. Oggi nessuno ne ha più il tempo. In quanto alla pittura, ho imparato da solo osservando alcuni monaci. Le cose che faccio le regalo».

Sul suo tavolo ci sono alcune tavolette e dei fogli incolonnati. Li prende e ci spiega la complessa esegesi delle figure sacre. Notiamo che i volti, stranamente, si assomigliano un po’ tutti e ricordiamo quello che la gente va dicendo in proposito su di lui. Qualcuno segnandosi narra, infatti, che una notte frate Rosario pregando ha parlato con Dio e l’ha anche visto…

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I fioretti di fra Rosario

«Vivo nel presente, giorno per giorno. Il domani appartiene a Dio solo. Perché allora preoccuparsene?»

«Leggo solo la Bibbia, le opere di Santa Teresa d’Avila e di San Giovanni della Croce. Da qualche tempo anche i mistici orientali. I documenti del magistero? Io non ne so di teologia, non li capisco…»

«Quelli che nella Chiesa fanno carriera diventando magari vescovi o cardinali, quelli che in nome di Dio si arricchiscono morendo lordati di denaro… mi provocano solo compassione e misericordia perché hanno perso di vista l’unica cosa essenziale nella loro vita: Dio e il suo amore per tutti gli uomini. Sono stati abbagliati dalla gloria del mondo e dal demonio. Io non ho paura di giudicare chi si comporta così. Ogni cristiano, infatti, è chiamato a scegliere il bene e a scartare il male, anche nella Chiesa. E poi l’ha detto Gesù: non chi dice “Signore, Signore” è cristiano anche se monsignore o cardinale»

«L’universo è nulla in confronto al mondo interiore d’ogni uomo, al suo cuore». 

lunedì 14 agosto 2023

Solo per oggi



1. Solo per oggi cercherò di vivere alla giornata senza voler risolvere i problemi della mia vita tutti in una volta.

2. Solo per oggi avrò la massima cura del mio aspetto: vestirò con sobrietà, non alzerò la voce, sarò cortese nei modi, non criticherò nessuno, non cercherò di migliorare o disciplinare nessuno tranne me stesso.

3. Solo per oggi sarò felice nella certezza che sono stato creato per essere felice non solo nell'altro mondo, ma anche in questo.

4. Solo per oggi mi adatterò alle circostanze, senza pretendere che le circostanze si adattino ai miei desideri.

5. Solo per oggi dedicherò dieci minuti del mio tempo a sedere in silenzio ascoltando Dio, ricordando che come il cibo è necessario alla vita del corpo, così il silenzio e l'ascolto sono necessari alla vita dell'anima.

6. Solo per oggi compirò una buona azione e non lo dirò a nessuno.

7. Solo per oggi mi farò un programma: forse non lo seguirò perfettamente, ma lo farò. E mi guarderò dai due malanni: la fretta e l'indecisione.

8. Solo per oggi saprò dal profondo del cuore, nonostante le apparenze, che l'esistenza si prende cura di me come nessun altro al mondo.

9. Solo per oggi non avrò timori. In modo particolare non avrò paura di godere di ciò che è bello e di credere nell'Amore.

10. Posso ben fare per 12 ore ciò che mi sgomenterebbe se pensassi di doverlo fare tutta la vita.

(Giovanni XXIII)

lunedì 7 agosto 2023

“Prigionieri in casa nostra. Commento a Luca 10, 38-42” di Davide Romano

 

A chi piace il cinema? Sono sicuro a tutti. Che bello stare sul divano di casa o nel buio di una sala e lasciarsi trascinare in un altro tempo o in una struggente storia d’amore o magari farsi commuovere ed edificare da un film cristiano. Che bella magia il cinema. Io ne sono schiavo, fin da piccolo. Così ho questo problema: ogni volta che apro la Bibbia, per me comincia un film. Alle volte c’è anche la colonna sonora! Precipito nella pagina che sto leggendo.

A Cana penso di essermi sentito quasi ubriaco. E poi le cene e i pranzi. S’inizia con Cana, come sappiamo, e si finisce con l’Ultima Cena. Nel mezzo, ho mangiato a casa di Pietro, Levi, Simone, Zaccheo… Forse è anche per questo che ho preso qualche chilo. “È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”. (Matteo 11,19)

Oggi voglio invitarvi a vivere con me questa pagina del Vangelo di Luca in modo diverso. Proviamo a immaginarla tutti insieme. La scena è quella assai nota del pasto a casa di Marta e Maria a Betania. Facciamo apparire nella nostra mente,  quasi magicamente, la piccola città di Betania, da non confondersi con quella oltre il Giordano dove operava Giovanni il battezzatore, è una cittadina a pochi chilometri da Gerusalemme. Oggi ha cambiato nome ma esiste ancora. Nella Bibbia leggiamo di Betania anche nel Vangelo di Giovanni (11, 1-45), a proposito della resurrezione di Lazzaro, dell’unzione di Gesù ad opera di Maria (Giovanni 12, 1-11), ma anche in Matteo e, infine, sempre in Luca (24, 50) in occasione della sua ascensione al cielo.

La vedete con le sue case imbiancate dal sole sotto un cielo di cobalto? Vedete anche gli ulivi, che punteggiano il paesaggio, quasi carezzati e accompagnati dal vento nelle loro danze lente? In quella cittadina, quasi uguale a tante altre, vivevano tre amici di Gesù: Lazzaro, l’energica Marta (purtroppo spesso citata a sproposito in troppe predicazioni) e la mite Maria, probabilmente più giovane di lei.

Il Vangelo di Luca (10, 38), che è l’unico a riferire questo episodio, dice: “Mentre erano in cammino, Gesù entro in un villaggio e una donna, di nome Marta lo ricevette in casa sua”. Quindi le fece un’improvvisata. E possiamo supporre che non vi andò da solo ma insieme ai discepoli. Vi sono mai arrivati in casa all’improvviso degli ospiti? Povera Marta a correre da una stanza all’altra mentre sua sorella, Maria, rimaneva immobile ai piedi di Gesù ad ascoltarlo. Fra l’altro, anche nell’episodio della risurrezione di Lazzaro, narrato da Giovanni (11,20), Marta va incontro a Gesù mentre Maria rimane seduta in casa. Stava sempre seduta la ragazza. Scherzo!

A un certo punto sareste sbottati anche voi. Immaginatevi Marta con le braccia a teiera o con una zuppiera in una mano e un mestolo nell’altra che con la testa indica a Gesù sua sorella e gli urla: “Ma non le dici nulla? Non vedi che corro da una stanza all’altra e che lei mi ha lasciata sola?”. Il tutto in mezzo agli odori del cibo, al via vai dei servi, al brusio delle conversazioni, il vento che entra dalle finestre muovendo le tende e che porta in casa il profumo degli ulivi… Fermatevi un attimo a vedere la scena. Osservate tutti i personaggi. Ci sarà stato dell’imbarazzo, magari si saranno di colpo fermati per osservare Marta. Qualcuno avrà pure commentato l’accaduto a bassa voce coi suoi vicini. Riuscite a vedere Gesù che fissa Marta e le risponde? La risposta del Signore è nota, edificante. Discorso chiuso o forse no.

Quando ero bambino, mi piaceva costruirmi, con alcune sedie e con tutto quello che trovavo, scatole di cartone, piccoli mobili, uno spazio immaginario che rappresentava di volta in volta la mia casa, una fortezza o un castello. Uno spazio dentro il quale sentirmi protetto, sicuro. Uno spazio in cui inventare la mia vita di allora. Il problema è che spesso non sapevo poi come uscirne, allora chiamavo in soccorso mia madre. Lei arrivava, mi sorrideva e mi tirava fuori dal mio rifugio sicuro.

Ecco io penso che la pagina del Vangelo di oggi ci parli proprio di questo: dello spazio vitale che ci siamo costruiti nel tempo e dentro il quale rischiamo di rimanere intrappolati. Noi non possiamo più uscirne e nessuno riesce più a entravi.

Marta è imbrigliata dentro i suoi rituali, in se stessi buoni, ma che la distraggono rispetto a ciò che avviene persino nella sua casa o vita. E sembra che Gesù qui si faccia ospite per tirare fuori Marta dal disordine delle sue tante preoccupazioni che la portano lontana da se stessa e dalla sua interiorità, ma soprattutto dal Signore che, secondo lei, sta servendo.

La Bibbia ci dice una speranza di liberazione per tutti che, però, non può arrivare da noi stessi ma da un Altro che viene a visitarci in maniera inaspettata. L’ospite non atteso. Sorprendente.

Dio si fa ospite per portare una Parola. E questo brano evangelico ci mostra come Maria si ponga prontamente all’ascolto di questa parola che libera da seduta, in una posizione di accoglienza e quasi di resa, di obbedienza. Si mette in basso, ai piedi di Gesù. È pronta a ricevere la sua parola. Perché la parola di senso e di verità che Dio pronuncia nelle nostre vite, nelle forme più imprevedibili, chiede di essere ascoltata e pienamente accolta. Il più delle volte, invece, neppure ci accorgiamo di questa parola e forse neppure di questa presenza nelle nostre esistenze. 

Gesù è lì ma noi siamo impegnati a fare altro. Siamo troppo distratti, presi in cose che, come nel caso di Marta, sono senza dubbio buone. Marta sta servendo il Signore e anche noi talvolta nascondiamo la nostra chiusura alla sua parola dietro i nostri impegni spirituali. Forse, come Marta, c’è qualcosa che intuiamo ma che non vogliamo ascoltare. “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” ma non adesso. “Si faccia la tua volontà”, ma io ho un’idea migliore, Signore. Facciamo a modo mio! Ne parliamo un’altra volta.

E, per convincerci e convincere gli altri che siamo sulla giusta strada, la retta via, cerchiamo di far ricadere la colpa sugli altri: Marta vuole distrarsi servendo, ma non vuole prendersi questa responsabilità delle proprie scelte. E noi non agiamo nello stesso modo? Nervosi e insofferenti servitori del Signore.

Da Gesù ospite, giunto magari senza neppure avvertire, Marta si sarebbe aspettata parole diverse, parole di conferma, di riconoscimento per il suo impegno, di gratitudine. E, invece, il suo ospite improvviso e imprevedibile non sta al gioco. L’ospite è venuto a liberare Marta dai suoi rituali, dai suoi convincimenti, persino buoni, nei quali è rimasta imprigionata. Gesù risveglia Marta dalla sua incapacità ad accogliere la novità che è entrata nella sua casa e di cui lei non è più capace di accorgersi.

Possiamo fare tanto bene, come Marta, essere operosi e lodevoli servitori del Signore, ma diventare pure prigionieri del bene che facciamo. Dell’immagine inossidabile di noi stessi che ci costruiamo negli anni.

Marta è intrappolata dentro il labirinto del suo dovere e ciò l’ha resa inaccessibile, persino a Dio. Marta non lo ascolta più, non lo accoglie più davvero. S’illude di farlo ma in cuor suo sa che non è così.

Anche la vita di servizio più ammirevole può divenire una fortezza nella quale Dio e il nostro prossimo non possono più entrare. Un po’ come le fortezze che mi costruivo da piccolo dalle quali chiamavo mia madre a liberarmi.

John Lennon cantava: “La vita è quello che ti accade | mentre sei occupato a fare altri progetti”. Che oggi la Vita ci accada davvero! Che il Signore ci liberi dalle dorate prigioni che ci siamo costruiti, che inaspettato finalmente arrivi e che ci trovi pronti ad accoglierlo con le orecchie e il cuore aperti!

Amen!

 

“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

Nell'ampio spettro della convivenza umana, la diversità brilla come una gemma dai molteplici colori. Ogni individuo è unico nel suo insi...