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giovedì 2 maggio 2024

Perduto e ritrovato dall’amore di Dio



Sono nato in una famiglia cattolica come tante. Da bambino ho frequentato l’oratorio dei Salesiani e poi gli scout, il grande amore della mia vita. Dopo il liceo e la lettura di tanti testi religiosi, ho anche studiato teologia. Avevo fame di mondo e di vita. Sono anche diventato giornalista e ho viaggiato molto.

Cercavo di essere un buon cristiano e pensavo di cercare sinceramente il Signore. Ma, in verità, lo cercavo con paura e con rabbia. Forse dentro di me Dio era come mio padre, un uomo di formazione militare. A Dio, come a mio padre, bisognava solo ubbidire e l’obbedienza non era mai perfetta. Ubbidivo a Dio ma non lo amavo. Dentro di me anzi lo detestavo e lo maledicevo.

Mio padre era un uomo violento. E per me Dio era come lui. Per quanto mi sforzassi, non avrei mai meritato il suo amore. Mi sono sentito spesso come un cane randagio, costretto a mendicare carezze e cibo. Fuggivo da Dio così come avevo passato l’infanzia e l’adolescenza a fuggire dall’umore imprevedibile di mio padre. Pensavo di conoscere Dio, in fondo avevo studiato teologia! Ma lo conoscevo “per sentito dire”, come Giobbe (42,5). In verità, ero morto dentro. Formalmente un buon cristiano, vivevo una vita disordinata. Priva di amore, in continua e sorda ribellione.

Ma il Signore mi ha messo nel cuore una grande nostalgia e mi ha dato la forza di volgere i miei passi verso di Lui. Nell’estate del 2018 durante un corso di esercizi spirituali ho meditato la parabola del figliol prodigo. Ho urlato a Dio tutta la mia rabbia. Ma all’improvviso mi sono accorto della bellezza che mi circondava: il cielo terso, la luce dorata del sole, il mare e le colline. E ho sentito forte, avvolgente il suo amore che mi sanava il cuore. Scoppiavo di gioia!  Il Signore mi aveva riportato in vita. Mi aveva fatto sentire di essere figlio sempre amato, che Lui c’era sempre stato e che dovevo solo aprirgli la porta perché Lui entrasse nella mia vita e prendesse tutto il mio dolore e la mia rabbia.

Più di trent’anni fa, mio padre era spirato fra le mie braccia chiedendomi di perdonarlo per il male che mi aveva fatto. Lo avevo assistito, fin sulla soglia della morte, combattuto da sentimenti contrastanti. Non ero stato capace di perdonarlo. Solo oggi, a distanza di tanto tempo, posso di dire di averlo veramente perdonato.

Dal giorno della mia conversione, ho desiderato solo vivere e parlare di questo amore. Spero che la mia storia sia una piccola luce per chi ancora vive nelle tenebre della disperazione.

 

Davide Romano, giornalista

(Credere, n. 17, 28 aprile 2024)

martedì 9 aprile 2024

In libreria: Ernesto Buonaiuti, “Apologia del cattolicesimo”, a cura di Davide Romano, prefazione di Francesco Armetta, Edizioni La Zisa

 


L’Apologia del cattolicesimo venne pubblicata per la prima volta a Roma nel 1923 all’interno della collana Apologie, creata e diretta da Angelo Fortunato Formiggini. L’Apologia e il saggio di apologetica religiosa intitolato Verso la luce, guadagnarono al Buonaiuti la scomunica papale e la messa all’indice di tutte le sue opere. Le argomentazioni, così come affrontate dal Buonaiuti nell’Apologia, non si basavano più sui precetti della filosofia scolastica ma erano impregnate di un misticismo che diede vita ad una sorta di antitetico individualismo dell’anima. È lo stesso Buonaiuti a chiarire sin dall’inizio la sua tesi apologetica: «il movimento religioso, scaturito dalla predicazione del Vangelo, rappresenta la perfezione soprannaturale nello sviluppo della religiosità umana, e che del cristianesimo, sigillato e consacrato dalla luce incontaminata di un divino afflato rivelatore, il cattolicismo costituisce in una completa identità sostanziale la logica realizzazione nella storia».

 

Ernesto Buonaiuti (1881-1946), illustre esponente della corrente modernista italiana, presbitero e accademico, nei suoi studi indagò ogni aspetto e ogni figura appartenente alla storia cristiana. Oltre all’Apologia possiamo ricordare, tra i suoi scritti più significativi, Lutero e la Riforma religiosa in GermaniaGioacchino da FioreStoria del cristianesimo e l’autobiografia dal titolo Pellegrino di Roma.

lunedì 25 marzo 2024

In libreria: Edoardo Marengo, “La pragmatica musicale nella liturgia dopo il Concilio Vaticano II. Cum musica fit sacra”, a cura di Davide Romano, prefazione di Roberto Tagliaferri, Edizioni progetto Accademia


Molto probabilmente, la presenza della musica nella liturgia potrebbe sembrare ai non addetti ai lavori quasi un fatto scontato tanto da non richiedere approfondimenti o momenti di riflessione. Invece, la questione della musica per la liturgia è una di quelle più dibattute di tutti i tempi. Le problematicità sono molteplici e le riflessioni esposte dai vari pensatori che si sono occupati di questo tema non sempre aiutano a mettere ordine, anzi tal-volta possono aumentare le perplessità.

L’autore, nel suo lavoro, passa in rassegna le varie teorie esposte nel corso del tempo da studiosi di grande rilievo cercando in tal modo di aiutare a comprendere come la presenza della musica nella liturgia non sia qualcosa di scontato o, come alcuni pensano, un di più rispetto alla liturgia stessa, ma ne è parte integrante, mezzo attraverso il quale l’assemblea dei fedeli partecipa al rito sacro in modo sacramentale. Cantare e suonare strumenti non è un fatto meccanico, ma è esso stesso incontro con Dio.

Quale musica? Quali difficoltà si incontrano nel quotidiano? Cosa può essere definito sacro e cosa no? Bisogna dare delle linee guida o si rischia in questo modo di cadere in una fissità che non permette di adeguarsi alle esigenze dei partecipanti ai riti sacri? Gli interrogativi sono molteplici. Edoardo Marengo, in modo puntuale e preciso, ci espone passo dopo passo le tesi più importanti riguardo questo complesso argomento, ma anche le questioni pratiche che affrontano coloro che in una diocesi si occupano in prima persona della musica nella liturgia.


EDOARDO MARENGO, nasce ad Alba e, dopo la maturità classica presso il liceo classico “G. Govone” di Alba (Cn), ha conseguito il Baccalaureato in Teologia presso lo STI di Fossano (Cn) e la Licenza in Teologia con specializzazione Liturgico Pastorale presso l’Istituto di Liturgia Pastorale dell’Abbazia benedettina “Santa Giustina” di Padova, incorporato al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Ha svolto i suoi studi musicali presso l’Istituto Diocesano di Musica Sacra di Alba, approfondendo successivamente la metodologia dell’educazione musicale e la direzione corale. È docente di religione nella scuola secondaria di secondo grado. È diacono, direttore dell’Ufficio Catechistico della Diocesi di Alba, dove da anni svolge il suo impegno pastorale nel campo musicale e teologico liturgico. È sposato con Serena e papà del piccolo Gioele.

sabato 2 dicembre 2023

“I Gesuiti, origine e grandezza dell'ordine religioso di papa Francesco” di Davide Romano

 


 

I Gesuiti, formalmente noti come la Compagnia di Gesù, sono un ordine religioso della Chiesa cattolica fondato nel 1540 da Ignazio di Loyola. Da allora, questa comunità ha giocato un ruolo significativo nella storia del mondo, distinguendosi per la sua dedizione alla spiritualità, all'istruzione e alla missione. L'ordine è cresciuto nel corso dei secoli, adattandosi ai cambiamenti sociali e culturali, ma ha mantenuto il suo impegno per l'educazione, il servizio e la promozione della fede cristiana. In questo articolo, esploreremo la grandezza dei Gesuiti attraverso il loro impatto nella storia.

La Compagnia di Gesù è stata fondata da Ignazio di Loyola, un ex soldato spagnolo che, dopo essere stato ferito in battaglia, ha sperimentato una profonda conversione spirituale. Nel 1534, Ignazio e sei compagni giurarono voti di povertà e castità, dedicandosi al servizio di Dio. Nel 1540, il Papa Paolo III riconobbe ufficialmente la Compagnia di Gesù, consentendo la sua espansione in tutto il mondo.

I Gesuiti si impegnavano a diffondere la fede cristiana attraverso l'insegnamento, la predicazione e il lavoro missionario. Questa missione li ha portati a operare in molte parti del mondo, incluso il Nuovo Mondo durante l'epoca delle esplorazioni.

Una delle caratteristiche distintive dei Gesuiti è stata la loro dedizione all'educazione. Nel corso dei secoli, hanno fondato numerose scuole, collegi e università in tutto il mondo. I Gesuiti hanno sempre creduto che l'educazione fosse uno strumento potente per formare individui competenti e moralmente responsabili. I loro istituti educativi sono stati pionieri nell'integrazione di una formazione spirituale e intellettuale, influenzando generazioni di studenti.

I Gesuiti sono stati attivi anche nel campo delle attività missionarie, portando il cristianesimo in luoghi lontani e spesso difficili da raggiungere. La loro presenza è stata particolarmente importante durante il periodo delle esplorazioni e dell'evangelizzazione nelle colonie.

Inoltre, i Gesuiti hanno contribuito significativamente alla cultura, alla scienza e alle arti. Molti membri dell'ordine sono stati eminenti scienziati, filosofi e artisti che hanno apportato contributi rilevanti alla conoscenza umana. La loro tradizione intellettuale e la promozione delle arti hanno influenzato positivamente le società in cui operavano.

Nel corso del tempo, i Gesuiti si sono distinti anche per il loro impegno sociale e la promozione della giustizia. Sono stati attivi nelle opere di carità, nell'assistenza ai poveri e nella difesa dei diritti umani. Il loro approccio alla giustizia sociale ha radici profonde nei principi della dottrina sociale della Chiesa cattolica.

La grandezza dei Gesuiti nella storia risiede nella loro capacità di adattarsi alle sfide dei tempi, mantenendo al contempo il loro impegno per la fede, l'educazione, la missione e la giustizia sociale. La loro influenza si estende in molte aree della società, contribuendo al progresso intellettuale, culturale e spirituale. Mentre l'ordine ha attraversato periodi difficili nella sua storia, la sua eredità di dedizione al servizio e alla ricerca della giustizia continua a ispirare molte persone oggi.

sabato 18 novembre 2023

“La suora del West. Vita avventurosa di Rosa Maria Segale (meglio nota come suor Blandina)” di Davide Romano



In un'insolita storia legata al Far West, i protagonisti non sono i classici duelli tra pistoleri, gli assalti alle diligenze o le guerre tra indiani e il Settimo cavallerizzo. Al centro dell'attenzione emerge Suor Blandina, al secolo Rosa Maria Segale, una missionaria italiana inviata nel Far West dopo la metà dell'Ottocento per sostenere i poveri e i bisognosi. Recentemente, la diocesi di Santa Fe ha annunciato l'avvio del processo di beatificazione per Suor Blandina, la cui storia presenta persino un alone leggendario, incrociandosi per ben tre volte con quella di un temuto bandito: Billy the Kid.

Il primo incontro con il pistolero più veloce del West coinvolse un compagno della banda di Billy, ferito durante una lite e abbandonato in una baracca desolata. Suor Blandina si prese cura di lui per settimane, fornendo assistenza e impedendo che il malato si togliesse la vita. In un'altra occasione, riuscì a persuadere Billy the Kid a risparmiare la vita di quattro medici del paese che avevano rifiutato di curare il suo compagno ferito.

Il bandito e la sua banda progettarono di rapinare un convoglio, ma Billy, notando la presenza di Suor Blandina sulla carovana, decise di abbandonare l'impresa. Il secondo incontro avvenne nella città di Santa Fe, dove il giovane fuorilegge era rinchiuso in una cella di massima sicurezza per aver minacciato di assassinare il governatore Lew Wallace, autore del celebre romanzo "Ben Hur".

Suor Blandina, nata a Cicagna (Liguria) nel 1850, emigrò con la sua famiglia negli Stati Uniti all'età di quattro anni. Entrò nel convento delle suore della Carità nell'Ohio a 16 anni, assumendo il nome di Blandina in memoria di santa Blandina, martire nel 177 durante l'impero di Marco Aurelio. Dopo aver insegnato per sei anni, fu inviata come missionaria a Trinidad, in Colorado, con l'obiettivo di costruire una scuola pubblica.

A Trinidad, Suor Blandina si batté anche per l'abolizione del linciaggio, una pratica popolare che condannava senza pietà chiunque fosse ritenuto colpevole di furto di bestiame. Dopo Trinidad, fu inviata a Santa Fe, dove riuscì a fondare un ospedale e una scuola per orfani. Successivamente, a Albuquerque, creò una biblioteca pubblica e avviò la scuola pubblica "Nostra Signora degli Angeli" insieme alle altre suore di Carità.

L'ultima tappa della sua missione la riportò a Trinidad, in Colorado, dopo 12 anni di assenza. Qui, Suor Blandina continuò i suoi insegnamenti missionari, dedicandosi infine ai connazionali italiani emigrati nelle città americane in cerca di lavoro e un futuro migliore. La sua straordinaria vita è stata narrata da lei stessa nel diario "At the End of the Santa Fe Trail" (pubblicato nel 1932), basato sulle lettere scambiate con sua sorella Giustina, anche lei religiosa nell'Ohio. Il volume è stato pubblicato in Italia negli anni novanta con il titolo "Una suora italiana nel West".

 

martedì 19 settembre 2023

Vita, passioni, tormenti (e pure eresie) di Tommaso, sommo teologo



Chi era veramente l’Aquinate? Il personaggio puro e casto gli fu cucito addosso dagli agiografi per giustificarne la canonizzazione, che avveniva 700 anni fa. Ma la sua storia è ben più complessa

Ha fatto tanti miracoli quanti articoli ha scritto!”: sembra abbia tuonato così papa Giovanni XXII al processo di canonizzazione di Tommaso d’Aquino rivolgendosi all’avvocato, il cosiddetto “avvocato del diavolo”, che si era permesso di fargli notare come fra’ Tommaso di miracoli ne aveva fatti pochi: ogni articolo è un miracolo, aveva replicato il papa, e quindi i miracoli erano migliaia. Strano. Perché i manoscritti di Tommaso d’Aquino che ci sono pervenuti sono pieni di cancellature, correzioni e la maggior parte degli articoli è stata chiaramente riscritta tre e spesso quattro volte. Se furono miracoli, certo Dio onnipotente dovette fare non poca fatica, visto che, stranamente, non gli riuscirono al primo tentativo. Eppure la Chiesa mai ha avuto dubbi a proposito dell’ispirazione divina dell’opera dell’Aquinate, tanto che, per citare solo un esempio, al Concilio di Trento (XVI secolo) la sua Somma di Teologia fu esposta addirittura sull’altare insieme alla Bibbia.

Quasi mai, a onor del vero. Perché diversi degli articoli cosiddetti “ispirati” di Tommaso furono condannati nel XIII come eretici dal vescovo di Parigi mentre Tommaso era ancora in vita e poi ben altre tre volte a Parigi e a Canterbury pochi anni dopo la sua morte. E il maestro domenicano Richard Knapwell, per essersi rifiutato di condannare Tommaso d’Aquino – ripeto: rifiutato di condannare – fu dapprima scomunicato e poi, per gentile concessione del papa che gli tolse la scomunica, condannato al silenzio perpetuo (il poveretto a quel punto si ritirò a Bologna, morendovi pazzo nel 1286 e, narrano le cronache, di una morte, per pudore non meglio specificata, “orribile”). La questione è certo quella della coerenza della Chiesa, che prima condanna e poi santifica o, come il Dio di Manzoni, “atterra e suscita, affanna e consola” (sebbene nessuno santificò, suscitò o consolò il povero Knapwell nemmeno dopo morto). Tuttavia, visto che l’incoerenza della Chiesa non fa certo notizia, la vera questione qui è l’enorme discrepanza tra il Tommaso raccontato dopo la santificazione e il Tommaso reale. Le origini di questa discrepanza vanno ricercate concretamente in quei trentasette anni che separano la morte di Richard Knapwell, nel 1286, dalla canonizzazione di Tommaso d’Aquino, nel 1323, quando fra’ Tommaso da uomo in odore di eresia fu trasformato in santo.

Che cosa accadde in quegli anni? Si deve – finalmente – sapere come andarono effettivamente le cose. Un bel giorno del 1316 fu (difficoltosamente) eletto papa con il nome di Giovanni XXII il cardinale Jacques Duèze. Ora, il neo papa volle dimostrare la sua gratitudine nei confronti dei domenicani che avevano ospitato generosamente il lungo conclave nel loro convento di Lione, e fece sapere di essere disponibile a fare santo uno di loro (così andava il mondo nel secolo decimo quarto). A quel punto il re d’Aragona propose Raimondo di Peñafort. Il papa, tuttavia, non amava la casa d’Aragona ed era molto legato invece alla casa d’Angiò, sicché scartò la candidatura dello spagnolo e chiese alla regina Maria d’Angiò, vedova del re di Napoli, di fargli un nome. La regina e i suoi figli fecero il nome del napoletano fra’ Tommaso dei conti d’Aquino e il papa accettò. C’era però un piccolo problema: molti nella Chiesa lo consideravano ancora vicino all’eresia – e ci credo: i vescovi continuavano a condannarlo! – quindi bisognava creargli intorno una buona reputazione e fugare ogni sospetto sulla sua dottrina.

Fu così che Guglielmo da Tocco, non prima e a prescindere ma durante la causa di canonizzazione, scrisse la prima biografia di Tommaso, cucendola su misura sul candidato secondo i criteri della Curia pontificia di allora per essere dichiarato santo. Ma il giudice, ossia il papa, aveva già stabilito a tavolino, su richiesta della regina, l’esito della causa, e al diavolo le perplessità dell’avvocato del diavolo sui suoi miracoli! Bastava fargli avere un curriculum vitae scritto come Chiesa comanda, una Ystoria sancti Thomae de Aquino, ossia una biografia, non dico inventata ma certamente interpretata, abbellita, insomma “impupata”, come si suole dire nell’ex Regno di Sicilia, e la cosa era fatta. E siccome i criteri per diventare santo all’epoca escludevano i peccatori pentiti, come Sant’Agostino ad esempio, e, invece, esigevano candidati letteralmente impeccabili, e in particolare castissimi, ecco che, miracolosamente, la biografia risultò piena di prove di impeccabilità e di castità.

Non fu un caso, dunque, che nella Ystoria di Tocco venne messa ben in risalto la lotta vittoriosa del giovane Tommaso contro le tentazioni di una giovane bellissima, una puella pulcherrima, introdotta di nascosto dai fratelli nel castello di famiglia con l’intento di farlo desistere dal proposito di farsi frate domenicano. Non fu un caso che vi sia riportata la testimonianza del suo confessore a proposito dell’assoluta castità di Tommaso, che mai conobbe i “moti della carne” (tranne nel caso della puella pulcherrima, quando “vide e sentì risvegliarsi dentro di sé lo stimolo carnale”). E infine non fu per caso che vi si trovi in primo piano il famoso racconto degli angeli che, vinta la tentazione della puella pulcherrima, regalarono a Tommaso una invisibile ma potentissima cintura di castità, onde renderlo per sempre simile a loro, ossia angelico.

Restava però il problema del sospetto di eresia. E lì Tocco ebbe un’idea geniale, di quelle che solo a un napoletano potevano venire in mente: trasformare il motivo del sospetto, ossia le novità da lui introdotte nella dottrina cristiana tradizionale, in prova di santità: “Nel corso delle sue lezioni – scrisse – egli introduceva nuovi articoli, risolveva questioni in un modo nuovo e più chiaro con nuovi argomenti. Perciò, coloro che lo ascoltavano insegnare tesi nuove e trattate secondo un metodo nuovo non potevano dubitare – e qui arriva il colpo da maestro – che Dio non l’avesse illuminato con una nuova luce: infatti, si possono insegnare o scrivere opinioni nuove, se non si è ricevuta da Dio un’ispirazione nuova?”. Voilà: ecco trasformato un uomo in un santo senza macchia né dottrinale – fu ispirato da Dio – né morale – fu castissimo: Dottore Angelico. E la trasformazione da quel momento fu definitiva, perché la Ystoria di Tocco servì da esempio e da base per tutte le altre successive biografie di Tommaso nei secoli a venire.

Ma chi fu veramente Tommaso? Forse è venuto il momento di chiederselo, di liberarlo dalle finte narrazioni trionfalistiche da supereroe della castità e della dottrina, da supercampione della teologia, per il cui merito, come scrisse Pio V, “le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia” e “il mondo si salva ogni giorno dalla peste degli errori”. Forse, a settecento anni dalla sua canonizzazione, è tempo di rendere giustizia all’uomo che veramente fu. Il lavoro è stato già iniziato da grandi studiosi (James Weisheipl, Jean-Pierre Torrell, Pierre-Marie Gils, René-Antoine Gauthier, Ruedi Imbach, Adriano Oliva, Pasquale Porro e altri), ma molto resta ancora da fare. Manca infatti un’opera come Le Confessioni di sant’Agostino, che ci avrebbe permesso di conoscere Tommaso dal di dentro della sua percezione di sé, sicché non resta che provare a ricostruire la sua vita a partire da dati storicamente accertati: gli incontri umani che fece, i libri che lesse, gli avvenimenti in cui fu coinvolto.

A me sembra importante partire dai suoi maestri allo Studium Generale di Napoli, dove studiò tra i sedici e i diciotto anni, un’età decisiva per comprendere lo sviluppo culturale successivo di una personalità. La biografia di Guglielmo da Tocco menziona un certo Pietro l’Irlandese. Chi era costui? Nulla se ne è saputo per secoli, fino a quando nel 1920 furono scoperti per caso tre manoscritti delle sue opere, uno a Erfurt e due alla Biblioteca Vaticana. Così, studiando questi antichi testi, saltò fuori dall’oblio della storia la personalità culturale del maestro napoletano di Tommaso. E se ne capì non solo la statura ma anche l’influsso che esercitò sul giovane suo studente. Pietro l’Irlandese, a noi per secoli sconosciuto, era invece molto noto ai suoi contemporanei, che lo consideravano “gioiello fra i professori e alloro di buoni costumi”. Che cosa insegnava a Napoli il maestro irlandese cristiano? Molto verosimilmente la Metafisica e la Fisica del greco pagano Aristotele, corredate dal commento del filosofo arabo musulmano Averroè, allora appena tradotte dall’arabo in latino a Toledo e a Palermo da un intellettuale scozzese, Michele Scoto, sotto gli auspici e il finanziamento dell’imperatore franco-tedesco Federico II di Svevia.

Queste circostanze, felicissime allora e impensabili oggi, dicono molto. Anzitutto che i testi di Aristotele erano letti e insegnati a Napoli senza divieti, come invece avveniva in quegli stessi anni a Parigi – e d’altra parte chi avrebbe dovuto condannarli, Federico II, noto scomunicato? Inoltre dicono che i maestri cristiani non insegnavano solo i testi dei cristiani, come a Parigi, ma anche quelli dei pagani e dei musulmani. Infine dicono che Aristotele non era letto con l’intento di concordarlo con Platone e il platonismo ma con quello di distinguerlo da Platone. Non per nulla Pietro l’Irlandese era considerato un aristotelico puro, antiplatonico. Egli partecipava, poi, ai dibattiti animati dalla comunità ebraica napoletana, seguace del filosofo ebreo Mosè Maimonide, che era molto aperta a quei tempi al dialogo con i cristiani e i musulmani, a differenza, di nuovo, della omologa comunità ebraica di Parigi dove il dialogo era invece vietato. In quei dibattiti si parlava, tutti insieme, ebrei, cristiani e musulmani, di Dio – era immutabile o mutevole, uno o trino? – e si leggevano i testi sacri confrontando le varie interpretazioni con le teorie di Aristotele, di Maimonide, di Averroè, di Agostino.

Tutto questo permette di comprendere meglio alcuni tratti caratteristici della personalità culturale di Tommaso, giovane allievo di Pietro l’Irlandese. Anzitutto, si capisce che l’aria di novità tipica della sua opera non dipendeva da illuminazioni divine, come abbiamo letto nella Ystoria di Tocco, bensì, più umanamente, dall’influenza dei suoi maestri. Anche l’adagio da lui tanto amato appare come un riassunto dell’esperienza dei suoi anni di scuola napoletani: “Ogni vero, da chiunque sia detto, viene dallo Spirito Santo”. Infine, si comprende perfettamente la novità principale del suo pensiero: l’introduzione nella teologia cristiana, a quel tempo fortemente neoplatonica, della filosofia di Aristotele, ossia precisamente di quel filosofo pagano che aveva studiato per la prima volta a Napoli sui banchi di scuola. Come hanno notato Gauthier e Twentymiles, infatti, tutta la sua missione culturale può essere riassunta così: usare Aristotele per de-platonizzare la teologia.

In proposito cito solo due delle sue tante soluzioni innovative: quella data al problema del numero nel Dio uno e trino e quella data al problema del rapporto tra anima e corpo.

La prima questione ricorda i dibattiti napoletani – Dio è solo uno o è anche trino? La Trinità rappresentava una grande difficoltà per i teologi cristiani neoplatonici. Uno degli adagi principali di ogni platonismo era in effetti questo: l’unità è perfezione, la molteplicità è imperfezione. Considerare, dunque, Dio, essere perfettissimo per eccellenza, trino, e quindi molteplice, era difficile da comprendere e accettare. Sicché, si preferiva sostenere che il numero “tre” attribuito a Dio fosse piuttosto un modo negativo di parlare, un po’ come dire “Dio non è solo uno”, ma nulla di più. Tommaso d’Aquino criticò espressamente su questo punto “tutti gli antichi dottori”. Aristotele alla mano, egli cominciò con il contestare l’assunto dei neoplatonici: chi l’ha detto che la molteplicità è segno di imperfezione? L’universo è originariamente molteplice, aveva argomentato Aristotele contro Platone e Parmenide, fanatici dell’unità. E Tommaso gli fece eco: la perfezione dell’universo e la sua bellezza implicano la molteplicità. Se non ci fosse, l’universo sarebbe semplicemente monotono e brutto. Non era difficile immaginarlo in un tempo in cui dal canto gregoriano monodico si passava a quello polifonico. E forse non era difficile immaginarlo per lui dopo l’esperienza felice della molteplicità culturale vissuta a Napoli. Dunque, concludeva il maestro: se la molteplicità è perfezione, di conseguenza non può mancare all’Essere perfettissimo. Voilà: come usare la filosofia del pagano Aristotele per meglio spiegare il mistero cristiano della Trinità e come fare della Trinità cristiana un’occasione per riscoprire i segreti nascosti nell’opera del grande filosofo greco: geniale!

La questione dell’anima fu impostata in modo analogo: prima di Tommaso pressoché tutti i teologi cristiani, sant’Agostino in testa, avevano sostenuto, platonicamente, che l’io è l’anima e non il corpo. Quindi, alla morte morirebbe solo il mio corpo, non io, che sono l’anima. Questo pensavano tutti, da Platone ad Agostino (e pensano ancora praticamente tutti i cristiani). Non così, però, Tommaso d’Aquino: “L’anima – scrisse chiaramente – non è tutto l’uomo, e la mia anima non è l’io. Quindi, anche se l’anima conseguisse la salvezza (salutem) in un’altra vita, tuttavia non la conseguirei io o qualunque altro uomo. Inoltre, poiché l’uomo desidera la salute (salutem) anche del corpo, il desiderio naturale verrebbe frustrato, se non ci fosse la risurrezione dei corpi” (In I Cor., c. 15, l. 2). Insomma: l’uomo non è solo la sua anima ma un corpo animato, insegnava Aristotele nel suo libro Sull’anima. Ora, un corpo animato desidera, istintivamente e per natura, semplicemente non soffrire e non morire; si chiama istinto di sopravvivenza. Quindi, il messaggio centrale del cristianesimo, argomentava Tommaso, non è l’immortalità dell’anima, arcinota già dai tempi di Platone, bensì la risurrezione di tutto l’uomo, anima e corpo, come aveva scritto san Paolo. Il cuore del cristianesimo, insomma, era la felicità di tutto l’uomo, anima e corpo, cioè niente altro che una vita bella finalmente senza sofferenze fisiche e psichiche. Di nuovo: Aristotele utile per comprendere meglio la rivelazione cristiana, e la rivelazione cristiana trasformata in un formidabile laboratorio di ricerca filosofica e teologica, dove meglio apprezzare le perle del filosofo greco.

Il tema appena accennato del desiderio naturale di felicità e l’impossibilità di soddisfarlo del tutto in questa vita è uno di quelli che attraversa tutta l’opera di Tommaso con insistenza ricorrente. Come mai? Forse che il Dottore Angelico non fu serafico? Qui bisognerebbe lasciare parlare gli avvenimenti in cui fu coinvolto, invece che sfogliare le agiografie imbellettate, ché certo fra’ Tommaso non fu circondato da cori angelici.

All’età di vent’anni, appena preso l’abito domenicano, fu vittima di un agguato: alcuni soldati di Federico II, tra cui suo stesso fratello Rinaldo, lo catturarono mentre era in viaggio verso Parigi, gli strapparono l’abito e lo condussero nel castello di Monte San Giovanni e poi in quello di Roccasecca, entrambi di famiglia: vi resterà rinchiuso o, diciamo, in soggiorno forzato per più di un anno. Come mai? Storie di ordinario misero snobismo. La famiglia dei conti d’Aquino, cui Tommaso apparteneva, non poteva sopportare l’onta di annoverare un familiare tra i mendicanti! A quel tempo, infatti, i frati domenicani, come i francescani, vivevano con estremo rigore la povertà evangelica, non possedevano nulla e vivevano facendo letteralmente l’elemosina. Non è difficile immaginare le reazioni per nulla angeliche dei suoi fratelli (suo padre era già morto), che frequentavano la corte dell’Imperatore: Tommaso, un Aquino, ridotto a fare l’accattone, che vergogna! E non è difficile immaginare la rabbia e la sofferenza di Tommaso di fronte alla nauseabonda ipocrisia dei suoi fratelli: gli era lecito entrare nei benedettini, ordine ricco e potente, ma non in quello dei domenicani, mendicanti, come se la fede cristiana fosse accettabile solo a patto di non mettere in discussione i veri valori della famiglia, ossia niente altro che ricchezza e potere.

Comunque, Tommaso non arretrò di un passo dalla sua intenzione di diventare mendicante, sicché la famiglia fu costretta a lasciarlo andare a Parigi a studiare, da domenicano. Giunto lì, però, le cose non andarono certo tanto meglio. I religiosi diocesani francesi, infatti, erano animati da uno zelantissimo odio per i religiosi mendicanti, per lo più stranieri e fedelissimi al papa di Roma, e li accusavano – niente di nuovo sotto il sole – di venire a rubare cattedre e stipendi (e stima da parte degli studenti) in casa loro. Aizzavano alcuni studenti e il popolo contro i religiosi stranieri, al punto che nell’inverno 1255-1256 i domenicani venivano assaliti per strada, sicché il re dovette mandare nientedimeno che gli arcieri a proteggerli. Si svolse in questo clima di violenza e di paura, in un’aula semivuota e con le guardie fuori dall’aula, la lezione inaugurale di Tommaso il primo giorno del suo insegnamento all’università di Parigi.

In un modo o in un altro, comunque, le sue lezioni iniziarono e a poco a poco Tommaso riuscì a conquistare la stima di studenti e colleghi. Ma le difficoltà erano per lui solo all’inizio. Con le prime pubblicazioni iniziarono i sospetti di eresia, le denunce e le condanne. Vennero attaccati dapprima alcuni suoi studenti che sostenevano le sue tesi, poi altri colleghi che condividevano con lui la stima per Aristotele. E arrivò infine anche una condanna del vescovo di Parigi, nel 1270, indiretta (lui non venne menzionato espressamente) ma chiarissima. E non c’era certo da stare sereni a quei tempi quando si trattava di condanne ecclesiastiche. Basterà ricordare che pochi anni prima, sempre a Parigi, Amalrico da Bene, anche lui filoaristotelico, fu condannato per eresia e ucciso, mentre nove suoi allievi furono bruciati vivi alle porte di Parigi, e qualche anno dopo, lo stesso vescovo di Parigi, non ancora pago, fece esumare le ossa di Amalrico – che, non essendo state bruciate, erano ancora lì – e le fece gettare in terra non consacrata. Ecco, questo era il clima, caldo nel vero senso della parola, in cui Tommaso insegnò e scrisse: un clima ecclesiastico infernale. No, la vita di Tommaso non fu sempre felice. Fu la vita di un uomo come tanti, come molti di noi: amato da alcuni, odiato da altri.

La sua grafia, studiata mirabilmente da Gils, e poi molti suoi scritti, rivelano i tratti di un uomo tutt’altro che serafico, ma, al contrario, irascibile, nervoso, stanco, dubbioso, di fretta, meticoloso, chiaro ma anche sbadato, geniale ma mai testardo, anzi spesso onestamente capace di cambiare opinione.

Dei molti suoi ripensamenti – il campione mondiale della filosofia perenne non considerava perenne la sua stessa opera – uno, avvenuto verso la fine della sua vita, mi sembra particolarmente significativo, perché riguarda il senso della frase più centrale di tutta la teologia, ossia “Dio esiste”. Dopo anni faticosi di insegnamento, infatti, tra Roma, Orvieto e Parigi, Tommaso fece ritorno nella sua Napoli. Era stanco. Stanco delle tensioni, delle incomprensioni, delle lotte infinite, delle denunce, delle condanne. Sembra che a Napoli Tommaso ebbe l’occasione di rileggere il filosofo ebreo Mosè Maimonide, di cui gli aveva parlato proprio lì il suo antico maestro Pietro l’Irlandese. Così, affascinato dall’ebraismo dove il nome di Dio è impronunciabile, Tommaso si convinse che “Dio esiste” non è una frase molto sensata, perché “Dio” non è il nome proprio di Dio, come lo sono ad esempio Pietro o Paolo o Sara. Dio infatti non ha nome proprio e non ha nome alcuno: è innominabile. Sicché, a rigore, non può essere il soggetto di alcuna proposizione, nemmeno della proposizione “Dio esiste”. Di lì a poco, dopo una Messa vissuta in lacrime con una intensità tutta speciale, confidò al suo segretario: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia”. E da quel momento non scrisse più nulla, lasciando incompiute diverse opere importanti. Guglielmo da Tocco, manco a dirlo, si premurò di abbellire quella famosa frase con un’aggiunta adatta a un candidato santo, allungandola un poco: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quello che mi è stato rivelato”, come se Dio gli avesse parlato per l’ennesima volta.

A me sembra, invece, che la frase anche senza la precisazione soprannaturalistica, anzi proprio senza di essa, sia da sola bellissima: cosa c’è di più drammatico ma anche di più grande, di più umano, di più autenticamente religioso, di veramente mistico, che comprendere, dopo anni passati a scrivere milioni di parole su Dio, che Dio non si può scrivere, non si può dire, non si può comprendere? Anzi, non solo Dio ma proprio tutto: omnia. Tutto è alla fin fine indicibile e incomprensibile. Un grande, immenso, mistero. So di non sapere nulla di nulla. Qui il mistico e l’agnostico si incontrano. E qui san Tommaso d’Aquino, come ognuno di noi, trova finalmente pace. Tutto è paglia.

 (Fonte: Giovanni Ventimiglia, Il Foglio, 18 settembre 2023)


martedì 12 settembre 2023

“Il celibato ecclesiastico, la ‘fulgida gemma’ che la Chiesa Cattolica Romana non vuol gettare via” di Davide Romano



Come ribadì papa Paolo VI: «Il celibato sacerdotale, che la Chiesa custodisce da secoli come fulgida gemma, conserva tutto il suo valore anche nel nostro tempo». La Chiesa cattolica riconosce che teoricamente si potrebbe cambiare questa disciplina della Chiesa latina, della quale alcuni individui e gruppi chiedono l'abolizione o la modifica, ma della quale i recenti papi hanno sottolineato l'alto valore.

Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) intervenne più volte in difesa del celibato dichiarando che sarebbe stato una positiva soluzione al calo delle vocazioni. Giovanni Paolo II elencò anche una serie di motivi perché un sacerdote debba essere celibe, quali: maggior tempo da dedicare alla parrocchia e alla comunità, un prete non deve pensare ai beni terreni e questo nell'ottica di avere un figlio sarebbe ingiusto. Tra i suoi discorsi sul celibato da notare quello del 9 novembre 1978 al clero di Roma.

Papa Benedetto XVI (2005-2013) nella Sacramentum Caritatis afferma: «Il fatto che Cristo stesso, sacerdote in eterno, abbia vissuto la sua missione fino al sacrificio della croce nello stato di verginità costituisce il punto di riferimento sicuro per cogliere il senso della tradizione della Chiesa latina a questo proposito».

Il celibato ecclesiastico, o la pratica del voto di castità per i membri del clero cattolico romano, è infatti un tema dibattuto da secoli. Alcuni critici vedono questa pratica come obsoleta, mentre altri la considerano fondamentale per la vita religiosa. In questo articolo, esploreremo alcune delle ragioni per cui il celibato ecclesiastico rimane una parte importante della tradizione cattolica e difenderemo questa scelta sacra.

Il celibato ecclesiastico ha radici profonde nella tradizione apostolica. Gesù stesso ha parlato dell'importanza della castità e del lasciare tutto per seguirlo. Gli apostoli, che sono stati i primi vescovi e sacerdoti della Chiesa, hanno abbracciato questa chiamata, scegliendo di vivere una vita di celibato per dedicarsi completamente al servizio di Dio e della comunità cristiana. Questa tradizione si è trasferita attraverso i secoli e rimane un segno di continuità con gli insegnamenti degli apostoli.

Il celibato ecclesiastico consente ai sacerdoti di concentrarsi completamente sul loro ministero spirituale e sul servizio alla comunità. Senza le responsabilità della famiglia, i sacerdoti possono essere più disponibili per le necessità dei fedeli. Possono dedicare più tempo alla preghiera, alla meditazione e allo studio delle Sacre Scritture, il che arricchisce il loro insegnamento e la loro guida spirituale.

Il celibato ecclesiastico aiuta a evitare situazioni in cui il sacerdote potrebbe essere influenzato da questioni familiari o interessi personali nelle sue decisioni pastorali. Evita anche il rischio di eredità ecclesiastiche, in cui posizioni di potere e autorità vengono trasmesse da una generazione all'altra all'interno delle famiglie dei sacerdoti. Ciò contribuisce a garantire una maggiore trasparenza e integrità nell'amministrazione delle parrocchie e delle diocesi.

Il celibato ecclesiastico è considerato un atto di consacrazione totale a Dio. I sacerdoti rinunciano volontariamente alle relazioni romantiche e familiari per essere più vicini a Dio e alla sua chiamata. Questa scelta rappresenta un impegno profondo e un segno di sacrificio personale, che è altamente stimato nella tradizione religiosa.

In conclusione, il celibato ecclesiastico è una pratica che ha profonde radici nella tradizione apostolica e che continua a svolgere un ruolo importante nella Chiesa cattolica. Questa scelta sacra offre numerosi vantaggi, tra cui la dedizione al servizio spirituale, l'evitare potenziali conflitti di interesse e il segno di una consacrazione totale a Dio. Mentre il dibattito sul celibato ecclesiastico può continuare, è importante riconoscere il suo significato nella vita religiosa e il ruolo che svolge nell'approfondire la fede e la dedizione dei sacerdoti cattolici. È curioso che chi lo contesta, battendosi per un sacerdozio uxorato, ovvero chi vuole preti con mogli e figli, è spesso lo stesso che, al momento dell’ordinazione sacerdotale, lo ha accettato senza alcuno scrupolo morale e senza alcuna costrizione. Ci ha solo ripensato dopo quando magari ha incontrato l’amore carnale negli occhi di una donna (o di un altro uomo). Troppo comodo.

 

lunedì 31 luglio 2023

"'Voi mi cercherete e mi troverete’. Storia breve di una conversione” di Davide Romano


 

"Voi mi cercherete e mi troverete perché mi cercherete con tutto il vostro cuore". (Geremia 29, 13)

Sono nato in una famiglia cattolica come tante altre. Quando ero piccolo, con mio padre e  mia sorella minore Laura arrivavamo sempre alla fine della messa, giusto in tempo per salutare il prete. Quasi un omaggio domenicale a quel presbitero. Non so perché.

Da bambino ho frequentato l’oratorio gestito dai buoni padri salesiani e poi, crescendo, gli scout. Il grande amore della mia vita.

Penso di essere stato sempre religioso e naturalmente cristiano. Dopo il liceo e appassionate letture dei padri della Chiesa, in particolare di Agostino d’Ippona, e di testi teologici e di storia delle religioni, sotto la guida amorevole del mio coltissimo e inquieto nonno materno, ho anche studiato teologia.

 Da giovane avevo fame di mondo e di vita. E di vita e di mondo ne ho divorati tanti da allora. Sono anche diventato giornalista, mi occupavo soprattutto di Vaticano e questioni attinenti alla religione. Poi di mafia e di politica. Ho viaggiato molto, ho attraversato mondi.

A un certo punto, dopo una lunga riflessione, sono uscito dalla Chiesa cattolica, la Chiesa che amavo, per aderire alla Chiesa valdese. La mia ricerca teologica, la mia fame di Verità mi aveva portato fin là. Cercavo di essere un buon cristiano, un cittadino responsabile e impegnato, e pensavo di cercare sinceramente il Signore. Ma, in verità, lo cercavo con paura e con rabbia. Forse dentro di me Dio era come mio padre, un uomo di formazione militare. A Dio, come a mio padre, bisognava solo ubbidire e l’obbedienza non era mai perfetta. Ubbidivo a Dio ma non lo amavo. La mia obbedienza era puramente mentale. Dentro di me lo detestavo e lo maledicevo. Mi aveva dato un’esistenza difficile e, a tratti, orribile.

Mio padre era un uomo violento. E per me Dio era come lui. Per quanto mi sforzassi, non avrei mai meritato il suo amore. Lui avrebbe sempre trovato un motivo per punirmi con la stessa ferocia che avevo sperimentato da parte di mio padre la cui ira scoppiava all’improvviso, come una tempesta, e si placava solo dopo essersi scaricata con tutta la sua forza su di me. La sua violenza era anche psicologica. Raramente mio padre era fiero di me, ricordo solo pochi apprezzamenti, quasi sulle dita di una sola mano. Per il resto, solo rimproveri, insulti. Mi sono sentito spesso come un cane randagio che nessuno vuole, scacciato da tutti, venuto al mondo quasi per caso, che non si rassegna a morire, costretto a mendicare carezze e cibo. Così ero io. Solo e non voluto, non amato.

Quindi, pur pensando di cercarlo, in verità, fuggivo da Dio così come avevo passato l’infanzia e l’adolescenza a fuggire dall’umore capriccioso e imprevedibile di mio padre.

Uno scrittore un giorno ha detto che l’inferno sono gli altri. Per me l’inferno in terra era mio padre.

E così, pensavo di conoscere Dio, in fondo avevo studiato teologia! Ma lo conoscevo “per sentito dire” (cfr. Giobbe 42, 5). Solo a livello mentale. In verità, ero morto dentro. Mi ero allontanato da Dio, come avevo passato la vita ad allontanarmi a fuggire da mio padre. Pur essendo formalmente un buon cristiano, vivevo una vita disordinata. Priva di amore, in continua e sorda ribellione.

Come il figliolo della parabola, anch’io mi sono perso. E, mentre giacevo a terra, reso quasi impotente e stremato per le percosse della vita, il Signore mi ha messo nel cuore una grande nostalgia e la forza di volgere i miei passi e la mia speranza verso di Lui e la sua casa.

Estate 2018. Corso di esercizi spirituali. Meditazione sulla parabola del figliol prodigo. Ero nella mia stanza, ma mi sentivo soffocare. Il cuore mi batteva forte. Sono uscito in giardino e gli ho urlato contro tutta la mia rabbia. Basta! Adesso schiantami, gli ho detto, distruggimi, riprenditi questa vita che non voglio più perché è solo dolore e solitudine, annientami, riducimi in cenere e che il vento disperda per sempre anche il ricordo di me. Maledico Te e la mia vita!

Il cielo era terso. La luce del sole dorava il paesaggio: il mare davanti a me e le colline intorno. Silenzio. Un silenzio assoluto, solido, palpabile. A tratti assordante. Mi sono accorto all’improvviso della bellezza che mi circondava. Un dono. E ho sentito forte, avvolgente il suo amore che mi abbracciava e mi sanava il cuore. L’amore che spezza ogni parola. Che brucia i sensi di colpa. E il cuore quasi mi scoppiava di gioia!

Poco prima ero morto. E all’improvviso il Signore mi aveva riportato in vita. Mi aveva fatto sentire di essere figlio sempre amato, che Lui c’era sempre stato e che dovevo solo aprirgli la porta perché lui entrasse nella mia vita e prendesse tutto il mio dolore, la mia rabbia… il peso della mia intera esistenza.

Ero perduto e Lui mi aveva ritrovato. Pensiamo di cercare Dio e invece è Lui che non smette mai di cercare noi. Ognuno di noi.

“Gli sono venuto incontro da lontano e gli ho detto: ‘Ti ho sempre amato e per questo continuerò a mostrarti il mio amore incrollabile’” (Geremia 31,3).

Ho capito, ho sentito che Dio ama ognuno di noi di un amore speciale e unico. Per ognuno di noi, per la gioia dei nostri occhi, ricreerebbe ogni giorno il mondo con tutti i suoi profumi e colori e l’universo intero con tutte le sue galassie. Solo perché siamo figli amati e non servi chiamati a un’ubbidienza cieca. E, per quanto facciamo, nessuno di noi sarà mai lontano dal suo amore. Niente e nessuno potrà mai separarci dal suo amore. (Cfr. Rm 8, 35-39)

Da allora ho desiderato solo vivere e parlare di questo amore, servirlo con quello che rimane della mia vita. Non importa quanti giorni ancora il Signore mi concederà, desidero che ogni giorno che Lui mi donerà sia speso solo per la sua gloria e per servire i fratelli. Sia una piccola luce per chi ancora vive nelle tenebre della disperazione, un segno del suo amore.

Un giorno nei tuoi cortili val più che mille altrove. Io preferirei stare sulla soglia della casa del mio Dio, che abitare nelle tende degli empi”. (Salmo 84, 10)

 


venerdì 16 giugno 2023

Chiesa, Padre Marko Rupnik è stato dimesso dalla Compagnia di Gesù


“A causa del suo rifiuto ostinato a osservare il voto di obbedienza” Marko Rupnik è stato dimesso dalla Compagnia di Gesù. Di seguito la dichiarazione del Delegato del padre Generale della Compagnia di Gesù per le Case e le opere interprovinciali dei Gesuiti  (DIR) a Roma, padre Johan Verschueren, pubblicata oggi.

Informiamo con cuore addolorato che il giorno 9 giugno 2023 il p. Generale ha dimesso dalla Compagnia di Gesù p. Marko Ivan Rupnik. Questo è stato fatto in conformità al diritto canonico, a causa del suo rifiuto ostinato di osservare il voto di obbedienza.

 Il “Team Referente in casi di denunce nei confronti di gesuiti appartenenti alla DIR” ci ha consegnato nel febbraio 2023 il suo dossier relativamente alle numerose denunce di ogni tipo che ci sono giunte, provenienti da fonti molto diverse e per fatti avvenuti in un arco temporale di oltre 30 anni a riguardo di padre Rupnik. Come Superiori abbiamo ritenuto il grado di credibilità di quanto denunciato o testimoniato come molto alto e ci siamo attenuti alle indicazioni e alle raccomandazioni forniteci dal Team Referente nelle sue considerazioni finali.

Così abbiamo imposto a padre Marko Rupnik di cambiare di comunità e di accettare una nuova missione in cui gli abbiamo offerto un’ultima possibilità come gesuita di fare i conti con il proprio passato e di dare un segnale chiaro alle numerose persone lese che testimoniavano contro di lui, per poter entrare in un percorso di verità. Di fronte al reiterato rifiuto di Marko Rupnik di obbedire a questo mandato, ci è rimasta purtroppo una sola soluzione: la dimissione dalla Compagnia di Gesù.

Ora egli, dal giorno 14 giugno 2023, data in cui ha ricevuto il decreto di dimissione, conformemente alle norme canoniche, ha 30 giorni di tempo per far ricorso. In questo periodo dobbiamo limitarci a questa comunicazione ufficiale per permettere alle procedure di avere il loro decorso.

 Se e soltanto quando la dimissione dalla Compagnia di p. Marko Rupnik diventasse definitiva, sarà possibile approfondire i temi. Non prima.

 

Delegato DIR

Johan Verschueren SJ

(Fonte: gesuiti.it)

“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

Nell'ampio spettro della convivenza umana, la diversità brilla come una gemma dai molteplici colori. Ogni individuo è unico nel suo insi...