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martedì 19 settembre 2023

Storia. L’Inquisizione tra verità e ideologia: gli studi di Adriano Prosperi



Una istituzione da sempre al centro di grandi contestazioni e dibattiti, che spesso però sono stati alimentati da fuoco ideologico: lo dimostrano anche gli studi di Adriano Prosperi, ora in volume 

La storia del cristianesimo è anche la storia di un paradosso. Nato da un fondatore che, a leggere i Vangeli, era un sovversivo sistematico e intenzionale dell’ordine costituito, un contestatore di leggi religiose per fare entrare le persone in un “Regno” dove l’unica legge fosse la libertà dello Spirito, dopo qualche secolo si è trasformato in un sistema religioso che ha ricreato ortodossie, persecuzioni dei dissidenti, lacci e laccioli teologici più severi di quelli degli scribi e dei farisei contro i quali Gesù si scagliava con grande forza durante la sua vita. È forse l’inevitabile sorte dei carismi che si trasformano in istituzioni: all’inizio le prime strutture e regole nascono per servire il carisma, poi, nel tempo, ne prendono il posto fino a sostituirlo completamente se una continua ‘distruzione creatrice’ non fa rinascere il carisma sulla morte delle sue istituzioni. 

Ecco perché il modo più proficuo e corretto di leggere i rimproveri che Gesù rivolgeva alle autorità religiose del suo tempo è pensarli come rivolte oggi alle istituzioni che il cristianesimo ha generato e genera: e così che il vangelo continua a liberarci, ogni giorno. L’Inquisizione è una istituzione da sempre al centro di grandi contestazioni e dibattiti, spesso animati e alimentati da fuoco ideologico. Adriano Prosperi, Accademico dei Lincei, ha dedicato all’inquisizione, agli eretici moderni e alla confessione auricolare una buona parte della sua lunga ricerca, che ha avuto nel saggio I tribunali della coscienza (1996) una tappa fondamentale. 

Il libro fu accolto da vivaci reazioni, dentro e fuori l’ambito cattolico, ricevendo molti plausi insieme a qualche critica dei colleghi, inclusa quella di Giovanni Romeo del 1999 (“Quaderni storici”), che rilevava, tra l’altro, una insufficienza di analisi empirica dell’indagine. Prosperi si è occupato molto anche di Controriforma, perché sebbene la fondazione dell’Inquisizione sia faccenda medioevale - fondamentale per la sua nascita fu la bolla di Lucio III del 1184 ( Ad abolendam)-, l’istituzione del Sant’Uffizio (o Inquisizione romana) ad opera di Paolo III con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542 è direttamente legata alla reazione contro la Riforma protestante. Siamo alla vigilia del Concilio di Trento, venticinque anni dopo le 95 tesi di Lutero. 

I venti scismatici ed eretici soffiavano già da tempo anche sotto le Alpi, e la Chiesa cattolica mise in campo le sue migliori forze per evitare che il germe luterano contaminasse tutta l’Europa. Per Prosperi, i nuovi ordini religiosi (i Gesuiti su tutti, senza dimenticare Cappuccini, Teatini, Somaschi ed altri) e il Sant’Uffizio furono i principali strumenti per bloccare l’epidemia protestante. 

lI foro esterno era gestito dall’Inquisizione, il foro interno dai confessori, due fori complementari, dove il confessionale divenne il terminale finale dell’Inquisizione. Da qui «la creazione di guide specializzate, di direttori e di confessori, capaci di orientare l’individuo nel fantastico labirinto» (De Ruggero, Rinascimento, Riforma e Controriforma, Laterza 1947). Negli ultimi anni gli studi sulla Inquisizione e sulla Controriforma hanno conosciuto una nuova primavera: «Il “segreto del S. Uffizio” nel corso degli ultimi anni è stato sempre più limato e corroso dal permesso concesso a singoli studiosi di accedere alla documentazione romana… Anche lo scrivente è stato ammesso a consultare questi documenti: sono segni nuovi, che vanno al di là della ristretta economia di una specifica ricerca», scrive Prosperi nel suo nuovo libro Inquisizioni (Quodlibet, pagine 758, euro 32,00). 

La liberalizzazione dell’accesso alle carte dell’Archivio del Sant’Uffizio per gli studiosi era stata annunciata formalmente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 22 gennaio del 1998, quindi ormai più di un quarto di secolo fa. Una data che segna anche una svolta negli studi storici sull’Inquisizione, di cui Adriano Prosperi è tra i principali protagonisti internazionali. Il volume Inquisizioni è una raccolta di 29 articoli sul tema pubblicati dall’autore tra il 1983 e il 2022, aperto da un importante testo inedito “Alle origini della coscienza”, che traccia le coordinate scientifiche, storiche ed etiche dell’intero volume. 

Il tema della libertà di coscienza attraversa infatti tutti i capitoli del libro, poiché la grande fatica che la Chiesa cattolica fece a riconoscere questa specifica libertà della persona fu il centro dell’umanesimo (o del disumanesimo) della Controriforma. Il mancato riconoscimento iniziava dalla teologia e finiva nella prassi pastorale. Infatti, per il Bellarmino (1587), un teologo importante della Controriforma, «la libertà di coscienza predicata dagli eretici era una libertà degna dei figli del diavolo, peggiore di ogni schiavitù ( filiorum diaboli non filiorum dei) ». E il solo evocare la libertà di coscienza era già di per sé segnale eloquente di contagio luterano: « Non per niente Bellarmino dette di Lutero un giudizio feroce, dedicandogli termini tali da farlo apparire come un essere diabolico, mostruoso». 

Per Prosperi la paura per i frutti perversi che poteva portare la libertà di coscienza, ha prodotto i suoi effetti fino alla stesura della nostra Costituzione repubblicana. La prima versione dell’articolo 7, la cui redazione venne affidata all’on. Lelio Basso, «socialista, già partigiano e uomo di cultura sensibile alla tradizione evangelica», recitava: « Nessun limite può porsi alla libertà di coscienza». Questa versione dell’articolo 7 fu però sostituita nella versione finale «dai rapporti tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede con l’inserimento in Costituzione dei Patti Lateranensi e quindi anche del Concordato. Quei Patti erano stati un grande successo per il regime fascista, tanto che la data dell’11 febbraio era stata dichiarata giorno festivo con vacanza scolastica. Tale doveva restare fino al 1977». 

Ci si poteva aspettare, in questo contesto, un riferimento a Ernesto Buonaiuti, personaggio la cui storia è una sintesi della lotta per libertà di coscienza nella Chiesa cattolica nel primo Novecento, che invece non c’è né qui né in nessuna altra pagina del volume. Importante è il capitolo sulla santità dissimulata e “affettata”, dove, tra l’altro, è riportato il caso interessante del francescano portoghese Amadeo Ménes da Silva che in un suo libro aveva affermato che «le immagini della Madonna sono da considerare l’equivalente dell’eucarestia». A tale proposito Prosperi commenta: «La discussione lacerante sulla presenza reale che impegna le diverse tendenze teologiche dell’età della Riforma non è che la punta più elevata di un bisogno di presenza e di comunicazione col divino che attraversa tutte le manifestazioni del rapporto coi santi». 

Così, mentre i corpi dei santi e le loro reliquie erano presenti nel mondo e certificabili, quelle di Gesù e di Maria erano invece assenti dalla terra: ecco allora l’importanza dell’eucaristica e delle rappresentazioni artistiche mariane che fungevano da sostituti (si pensi alle icone), ma «la differenza di protezione che i fedeli avvertivano non era necessariamente a vantaggio del culto eucaristico », che restava realtà teologica (la “transustanziazione”) troppo distante dal popolo, che conosceva altri ‘accidenti’ diversi da quelli sacramentali e preferiva toccare e baciare santi e le loro reliquie. Molto spazio è dedicato al rapporto tra l’Inquisizione e gli ebrei, da cui emergono fatti nuovi e a volte sorprendenti. Nella Chiesa cattolica «rimase profondamente radicata una forte ostilità antiebraica», lo sappiamo, che portava ancora nell’Ottocento l’arcivescovo di Pisa «a rifiutare di sedersi a tavola con l’ebreo professor Alessandro D’Ancona», come ci testimonia una lettera di Domenico Comparetti (il bisnonno di Don Lorenzo Milani). La scelta ufficiale della Chiesa di Roma fu comunque quella di «mantenere la presenza ebraica, rinunciando a seguire il modello spagnolo dell’alternativa secca tra espulsione e conversione»; anche perché, dato il divieto di usura tra cristiani, gli Stati e i mercanti italiani avevano un bisogno vitale della finanza ebraica (che, per la loro religione, potevano prestare ai cristiani). 

Una buona notizia, infine, per gli economisti italiani: «Invece il ruolo degli ebrei nella nascita della società mercantile fu sottolineato da Antonio Genovesi». In effetti, scorrendo le Lezioni del Genovesi (del 1765-1767) i riferimenti agli ebrei sono in genere benevoli o neutrali, e in un passaggio vengono lodati per aver inventato la “lettera di cambio” strumento decisivo per la crescita dei commerci internazionali. E riguardo le dure persecuzioni agli ebrei perché accusati di usura, così Genovesi commenta: «Confessiamo nondimeno che… quasi tutte le leggi emanate contra gli ebrei sentono più d’invidia e d’odio pubblico che abbiano di sedata ragione. La legge non debbe incollerirsi; ella è ragione, non passione». Parole di una sorprendente attualità e bellezza.

(Fonte: Luigino Bruni, Avvenire, martedì 19 settembre 2023)

Vita, passioni, tormenti (e pure eresie) di Tommaso, sommo teologo



Chi era veramente l’Aquinate? Il personaggio puro e casto gli fu cucito addosso dagli agiografi per giustificarne la canonizzazione, che avveniva 700 anni fa. Ma la sua storia è ben più complessa

Ha fatto tanti miracoli quanti articoli ha scritto!”: sembra abbia tuonato così papa Giovanni XXII al processo di canonizzazione di Tommaso d’Aquino rivolgendosi all’avvocato, il cosiddetto “avvocato del diavolo”, che si era permesso di fargli notare come fra’ Tommaso di miracoli ne aveva fatti pochi: ogni articolo è un miracolo, aveva replicato il papa, e quindi i miracoli erano migliaia. Strano. Perché i manoscritti di Tommaso d’Aquino che ci sono pervenuti sono pieni di cancellature, correzioni e la maggior parte degli articoli è stata chiaramente riscritta tre e spesso quattro volte. Se furono miracoli, certo Dio onnipotente dovette fare non poca fatica, visto che, stranamente, non gli riuscirono al primo tentativo. Eppure la Chiesa mai ha avuto dubbi a proposito dell’ispirazione divina dell’opera dell’Aquinate, tanto che, per citare solo un esempio, al Concilio di Trento (XVI secolo) la sua Somma di Teologia fu esposta addirittura sull’altare insieme alla Bibbia.

Quasi mai, a onor del vero. Perché diversi degli articoli cosiddetti “ispirati” di Tommaso furono condannati nel XIII come eretici dal vescovo di Parigi mentre Tommaso era ancora in vita e poi ben altre tre volte a Parigi e a Canterbury pochi anni dopo la sua morte. E il maestro domenicano Richard Knapwell, per essersi rifiutato di condannare Tommaso d’Aquino – ripeto: rifiutato di condannare – fu dapprima scomunicato e poi, per gentile concessione del papa che gli tolse la scomunica, condannato al silenzio perpetuo (il poveretto a quel punto si ritirò a Bologna, morendovi pazzo nel 1286 e, narrano le cronache, di una morte, per pudore non meglio specificata, “orribile”). La questione è certo quella della coerenza della Chiesa, che prima condanna e poi santifica o, come il Dio di Manzoni, “atterra e suscita, affanna e consola” (sebbene nessuno santificò, suscitò o consolò il povero Knapwell nemmeno dopo morto). Tuttavia, visto che l’incoerenza della Chiesa non fa certo notizia, la vera questione qui è l’enorme discrepanza tra il Tommaso raccontato dopo la santificazione e il Tommaso reale. Le origini di questa discrepanza vanno ricercate concretamente in quei trentasette anni che separano la morte di Richard Knapwell, nel 1286, dalla canonizzazione di Tommaso d’Aquino, nel 1323, quando fra’ Tommaso da uomo in odore di eresia fu trasformato in santo.

Che cosa accadde in quegli anni? Si deve – finalmente – sapere come andarono effettivamente le cose. Un bel giorno del 1316 fu (difficoltosamente) eletto papa con il nome di Giovanni XXII il cardinale Jacques Duèze. Ora, il neo papa volle dimostrare la sua gratitudine nei confronti dei domenicani che avevano ospitato generosamente il lungo conclave nel loro convento di Lione, e fece sapere di essere disponibile a fare santo uno di loro (così andava il mondo nel secolo decimo quarto). A quel punto il re d’Aragona propose Raimondo di Peñafort. Il papa, tuttavia, non amava la casa d’Aragona ed era molto legato invece alla casa d’Angiò, sicché scartò la candidatura dello spagnolo e chiese alla regina Maria d’Angiò, vedova del re di Napoli, di fargli un nome. La regina e i suoi figli fecero il nome del napoletano fra’ Tommaso dei conti d’Aquino e il papa accettò. C’era però un piccolo problema: molti nella Chiesa lo consideravano ancora vicino all’eresia – e ci credo: i vescovi continuavano a condannarlo! – quindi bisognava creargli intorno una buona reputazione e fugare ogni sospetto sulla sua dottrina.

Fu così che Guglielmo da Tocco, non prima e a prescindere ma durante la causa di canonizzazione, scrisse la prima biografia di Tommaso, cucendola su misura sul candidato secondo i criteri della Curia pontificia di allora per essere dichiarato santo. Ma il giudice, ossia il papa, aveva già stabilito a tavolino, su richiesta della regina, l’esito della causa, e al diavolo le perplessità dell’avvocato del diavolo sui suoi miracoli! Bastava fargli avere un curriculum vitae scritto come Chiesa comanda, una Ystoria sancti Thomae de Aquino, ossia una biografia, non dico inventata ma certamente interpretata, abbellita, insomma “impupata”, come si suole dire nell’ex Regno di Sicilia, e la cosa era fatta. E siccome i criteri per diventare santo all’epoca escludevano i peccatori pentiti, come Sant’Agostino ad esempio, e, invece, esigevano candidati letteralmente impeccabili, e in particolare castissimi, ecco che, miracolosamente, la biografia risultò piena di prove di impeccabilità e di castità.

Non fu un caso, dunque, che nella Ystoria di Tocco venne messa ben in risalto la lotta vittoriosa del giovane Tommaso contro le tentazioni di una giovane bellissima, una puella pulcherrima, introdotta di nascosto dai fratelli nel castello di famiglia con l’intento di farlo desistere dal proposito di farsi frate domenicano. Non fu un caso che vi sia riportata la testimonianza del suo confessore a proposito dell’assoluta castità di Tommaso, che mai conobbe i “moti della carne” (tranne nel caso della puella pulcherrima, quando “vide e sentì risvegliarsi dentro di sé lo stimolo carnale”). E infine non fu per caso che vi si trovi in primo piano il famoso racconto degli angeli che, vinta la tentazione della puella pulcherrima, regalarono a Tommaso una invisibile ma potentissima cintura di castità, onde renderlo per sempre simile a loro, ossia angelico.

Restava però il problema del sospetto di eresia. E lì Tocco ebbe un’idea geniale, di quelle che solo a un napoletano potevano venire in mente: trasformare il motivo del sospetto, ossia le novità da lui introdotte nella dottrina cristiana tradizionale, in prova di santità: “Nel corso delle sue lezioni – scrisse – egli introduceva nuovi articoli, risolveva questioni in un modo nuovo e più chiaro con nuovi argomenti. Perciò, coloro che lo ascoltavano insegnare tesi nuove e trattate secondo un metodo nuovo non potevano dubitare – e qui arriva il colpo da maestro – che Dio non l’avesse illuminato con una nuova luce: infatti, si possono insegnare o scrivere opinioni nuove, se non si è ricevuta da Dio un’ispirazione nuova?”. Voilà: ecco trasformato un uomo in un santo senza macchia né dottrinale – fu ispirato da Dio – né morale – fu castissimo: Dottore Angelico. E la trasformazione da quel momento fu definitiva, perché la Ystoria di Tocco servì da esempio e da base per tutte le altre successive biografie di Tommaso nei secoli a venire.

Ma chi fu veramente Tommaso? Forse è venuto il momento di chiederselo, di liberarlo dalle finte narrazioni trionfalistiche da supereroe della castità e della dottrina, da supercampione della teologia, per il cui merito, come scrisse Pio V, “le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia” e “il mondo si salva ogni giorno dalla peste degli errori”. Forse, a settecento anni dalla sua canonizzazione, è tempo di rendere giustizia all’uomo che veramente fu. Il lavoro è stato già iniziato da grandi studiosi (James Weisheipl, Jean-Pierre Torrell, Pierre-Marie Gils, René-Antoine Gauthier, Ruedi Imbach, Adriano Oliva, Pasquale Porro e altri), ma molto resta ancora da fare. Manca infatti un’opera come Le Confessioni di sant’Agostino, che ci avrebbe permesso di conoscere Tommaso dal di dentro della sua percezione di sé, sicché non resta che provare a ricostruire la sua vita a partire da dati storicamente accertati: gli incontri umani che fece, i libri che lesse, gli avvenimenti in cui fu coinvolto.

A me sembra importante partire dai suoi maestri allo Studium Generale di Napoli, dove studiò tra i sedici e i diciotto anni, un’età decisiva per comprendere lo sviluppo culturale successivo di una personalità. La biografia di Guglielmo da Tocco menziona un certo Pietro l’Irlandese. Chi era costui? Nulla se ne è saputo per secoli, fino a quando nel 1920 furono scoperti per caso tre manoscritti delle sue opere, uno a Erfurt e due alla Biblioteca Vaticana. Così, studiando questi antichi testi, saltò fuori dall’oblio della storia la personalità culturale del maestro napoletano di Tommaso. E se ne capì non solo la statura ma anche l’influsso che esercitò sul giovane suo studente. Pietro l’Irlandese, a noi per secoli sconosciuto, era invece molto noto ai suoi contemporanei, che lo consideravano “gioiello fra i professori e alloro di buoni costumi”. Che cosa insegnava a Napoli il maestro irlandese cristiano? Molto verosimilmente la Metafisica e la Fisica del greco pagano Aristotele, corredate dal commento del filosofo arabo musulmano Averroè, allora appena tradotte dall’arabo in latino a Toledo e a Palermo da un intellettuale scozzese, Michele Scoto, sotto gli auspici e il finanziamento dell’imperatore franco-tedesco Federico II di Svevia.

Queste circostanze, felicissime allora e impensabili oggi, dicono molto. Anzitutto che i testi di Aristotele erano letti e insegnati a Napoli senza divieti, come invece avveniva in quegli stessi anni a Parigi – e d’altra parte chi avrebbe dovuto condannarli, Federico II, noto scomunicato? Inoltre dicono che i maestri cristiani non insegnavano solo i testi dei cristiani, come a Parigi, ma anche quelli dei pagani e dei musulmani. Infine dicono che Aristotele non era letto con l’intento di concordarlo con Platone e il platonismo ma con quello di distinguerlo da Platone. Non per nulla Pietro l’Irlandese era considerato un aristotelico puro, antiplatonico. Egli partecipava, poi, ai dibattiti animati dalla comunità ebraica napoletana, seguace del filosofo ebreo Mosè Maimonide, che era molto aperta a quei tempi al dialogo con i cristiani e i musulmani, a differenza, di nuovo, della omologa comunità ebraica di Parigi dove il dialogo era invece vietato. In quei dibattiti si parlava, tutti insieme, ebrei, cristiani e musulmani, di Dio – era immutabile o mutevole, uno o trino? – e si leggevano i testi sacri confrontando le varie interpretazioni con le teorie di Aristotele, di Maimonide, di Averroè, di Agostino.

Tutto questo permette di comprendere meglio alcuni tratti caratteristici della personalità culturale di Tommaso, giovane allievo di Pietro l’Irlandese. Anzitutto, si capisce che l’aria di novità tipica della sua opera non dipendeva da illuminazioni divine, come abbiamo letto nella Ystoria di Tocco, bensì, più umanamente, dall’influenza dei suoi maestri. Anche l’adagio da lui tanto amato appare come un riassunto dell’esperienza dei suoi anni di scuola napoletani: “Ogni vero, da chiunque sia detto, viene dallo Spirito Santo”. Infine, si comprende perfettamente la novità principale del suo pensiero: l’introduzione nella teologia cristiana, a quel tempo fortemente neoplatonica, della filosofia di Aristotele, ossia precisamente di quel filosofo pagano che aveva studiato per la prima volta a Napoli sui banchi di scuola. Come hanno notato Gauthier e Twentymiles, infatti, tutta la sua missione culturale può essere riassunta così: usare Aristotele per de-platonizzare la teologia.

In proposito cito solo due delle sue tante soluzioni innovative: quella data al problema del numero nel Dio uno e trino e quella data al problema del rapporto tra anima e corpo.

La prima questione ricorda i dibattiti napoletani – Dio è solo uno o è anche trino? La Trinità rappresentava una grande difficoltà per i teologi cristiani neoplatonici. Uno degli adagi principali di ogni platonismo era in effetti questo: l’unità è perfezione, la molteplicità è imperfezione. Considerare, dunque, Dio, essere perfettissimo per eccellenza, trino, e quindi molteplice, era difficile da comprendere e accettare. Sicché, si preferiva sostenere che il numero “tre” attribuito a Dio fosse piuttosto un modo negativo di parlare, un po’ come dire “Dio non è solo uno”, ma nulla di più. Tommaso d’Aquino criticò espressamente su questo punto “tutti gli antichi dottori”. Aristotele alla mano, egli cominciò con il contestare l’assunto dei neoplatonici: chi l’ha detto che la molteplicità è segno di imperfezione? L’universo è originariamente molteplice, aveva argomentato Aristotele contro Platone e Parmenide, fanatici dell’unità. E Tommaso gli fece eco: la perfezione dell’universo e la sua bellezza implicano la molteplicità. Se non ci fosse, l’universo sarebbe semplicemente monotono e brutto. Non era difficile immaginarlo in un tempo in cui dal canto gregoriano monodico si passava a quello polifonico. E forse non era difficile immaginarlo per lui dopo l’esperienza felice della molteplicità culturale vissuta a Napoli. Dunque, concludeva il maestro: se la molteplicità è perfezione, di conseguenza non può mancare all’Essere perfettissimo. Voilà: come usare la filosofia del pagano Aristotele per meglio spiegare il mistero cristiano della Trinità e come fare della Trinità cristiana un’occasione per riscoprire i segreti nascosti nell’opera del grande filosofo greco: geniale!

La questione dell’anima fu impostata in modo analogo: prima di Tommaso pressoché tutti i teologi cristiani, sant’Agostino in testa, avevano sostenuto, platonicamente, che l’io è l’anima e non il corpo. Quindi, alla morte morirebbe solo il mio corpo, non io, che sono l’anima. Questo pensavano tutti, da Platone ad Agostino (e pensano ancora praticamente tutti i cristiani). Non così, però, Tommaso d’Aquino: “L’anima – scrisse chiaramente – non è tutto l’uomo, e la mia anima non è l’io. Quindi, anche se l’anima conseguisse la salvezza (salutem) in un’altra vita, tuttavia non la conseguirei io o qualunque altro uomo. Inoltre, poiché l’uomo desidera la salute (salutem) anche del corpo, il desiderio naturale verrebbe frustrato, se non ci fosse la risurrezione dei corpi” (In I Cor., c. 15, l. 2). Insomma: l’uomo non è solo la sua anima ma un corpo animato, insegnava Aristotele nel suo libro Sull’anima. Ora, un corpo animato desidera, istintivamente e per natura, semplicemente non soffrire e non morire; si chiama istinto di sopravvivenza. Quindi, il messaggio centrale del cristianesimo, argomentava Tommaso, non è l’immortalità dell’anima, arcinota già dai tempi di Platone, bensì la risurrezione di tutto l’uomo, anima e corpo, come aveva scritto san Paolo. Il cuore del cristianesimo, insomma, era la felicità di tutto l’uomo, anima e corpo, cioè niente altro che una vita bella finalmente senza sofferenze fisiche e psichiche. Di nuovo: Aristotele utile per comprendere meglio la rivelazione cristiana, e la rivelazione cristiana trasformata in un formidabile laboratorio di ricerca filosofica e teologica, dove meglio apprezzare le perle del filosofo greco.

Il tema appena accennato del desiderio naturale di felicità e l’impossibilità di soddisfarlo del tutto in questa vita è uno di quelli che attraversa tutta l’opera di Tommaso con insistenza ricorrente. Come mai? Forse che il Dottore Angelico non fu serafico? Qui bisognerebbe lasciare parlare gli avvenimenti in cui fu coinvolto, invece che sfogliare le agiografie imbellettate, ché certo fra’ Tommaso non fu circondato da cori angelici.

All’età di vent’anni, appena preso l’abito domenicano, fu vittima di un agguato: alcuni soldati di Federico II, tra cui suo stesso fratello Rinaldo, lo catturarono mentre era in viaggio verso Parigi, gli strapparono l’abito e lo condussero nel castello di Monte San Giovanni e poi in quello di Roccasecca, entrambi di famiglia: vi resterà rinchiuso o, diciamo, in soggiorno forzato per più di un anno. Come mai? Storie di ordinario misero snobismo. La famiglia dei conti d’Aquino, cui Tommaso apparteneva, non poteva sopportare l’onta di annoverare un familiare tra i mendicanti! A quel tempo, infatti, i frati domenicani, come i francescani, vivevano con estremo rigore la povertà evangelica, non possedevano nulla e vivevano facendo letteralmente l’elemosina. Non è difficile immaginare le reazioni per nulla angeliche dei suoi fratelli (suo padre era già morto), che frequentavano la corte dell’Imperatore: Tommaso, un Aquino, ridotto a fare l’accattone, che vergogna! E non è difficile immaginare la rabbia e la sofferenza di Tommaso di fronte alla nauseabonda ipocrisia dei suoi fratelli: gli era lecito entrare nei benedettini, ordine ricco e potente, ma non in quello dei domenicani, mendicanti, come se la fede cristiana fosse accettabile solo a patto di non mettere in discussione i veri valori della famiglia, ossia niente altro che ricchezza e potere.

Comunque, Tommaso non arretrò di un passo dalla sua intenzione di diventare mendicante, sicché la famiglia fu costretta a lasciarlo andare a Parigi a studiare, da domenicano. Giunto lì, però, le cose non andarono certo tanto meglio. I religiosi diocesani francesi, infatti, erano animati da uno zelantissimo odio per i religiosi mendicanti, per lo più stranieri e fedelissimi al papa di Roma, e li accusavano – niente di nuovo sotto il sole – di venire a rubare cattedre e stipendi (e stima da parte degli studenti) in casa loro. Aizzavano alcuni studenti e il popolo contro i religiosi stranieri, al punto che nell’inverno 1255-1256 i domenicani venivano assaliti per strada, sicché il re dovette mandare nientedimeno che gli arcieri a proteggerli. Si svolse in questo clima di violenza e di paura, in un’aula semivuota e con le guardie fuori dall’aula, la lezione inaugurale di Tommaso il primo giorno del suo insegnamento all’università di Parigi.

In un modo o in un altro, comunque, le sue lezioni iniziarono e a poco a poco Tommaso riuscì a conquistare la stima di studenti e colleghi. Ma le difficoltà erano per lui solo all’inizio. Con le prime pubblicazioni iniziarono i sospetti di eresia, le denunce e le condanne. Vennero attaccati dapprima alcuni suoi studenti che sostenevano le sue tesi, poi altri colleghi che condividevano con lui la stima per Aristotele. E arrivò infine anche una condanna del vescovo di Parigi, nel 1270, indiretta (lui non venne menzionato espressamente) ma chiarissima. E non c’era certo da stare sereni a quei tempi quando si trattava di condanne ecclesiastiche. Basterà ricordare che pochi anni prima, sempre a Parigi, Amalrico da Bene, anche lui filoaristotelico, fu condannato per eresia e ucciso, mentre nove suoi allievi furono bruciati vivi alle porte di Parigi, e qualche anno dopo, lo stesso vescovo di Parigi, non ancora pago, fece esumare le ossa di Amalrico – che, non essendo state bruciate, erano ancora lì – e le fece gettare in terra non consacrata. Ecco, questo era il clima, caldo nel vero senso della parola, in cui Tommaso insegnò e scrisse: un clima ecclesiastico infernale. No, la vita di Tommaso non fu sempre felice. Fu la vita di un uomo come tanti, come molti di noi: amato da alcuni, odiato da altri.

La sua grafia, studiata mirabilmente da Gils, e poi molti suoi scritti, rivelano i tratti di un uomo tutt’altro che serafico, ma, al contrario, irascibile, nervoso, stanco, dubbioso, di fretta, meticoloso, chiaro ma anche sbadato, geniale ma mai testardo, anzi spesso onestamente capace di cambiare opinione.

Dei molti suoi ripensamenti – il campione mondiale della filosofia perenne non considerava perenne la sua stessa opera – uno, avvenuto verso la fine della sua vita, mi sembra particolarmente significativo, perché riguarda il senso della frase più centrale di tutta la teologia, ossia “Dio esiste”. Dopo anni faticosi di insegnamento, infatti, tra Roma, Orvieto e Parigi, Tommaso fece ritorno nella sua Napoli. Era stanco. Stanco delle tensioni, delle incomprensioni, delle lotte infinite, delle denunce, delle condanne. Sembra che a Napoli Tommaso ebbe l’occasione di rileggere il filosofo ebreo Mosè Maimonide, di cui gli aveva parlato proprio lì il suo antico maestro Pietro l’Irlandese. Così, affascinato dall’ebraismo dove il nome di Dio è impronunciabile, Tommaso si convinse che “Dio esiste” non è una frase molto sensata, perché “Dio” non è il nome proprio di Dio, come lo sono ad esempio Pietro o Paolo o Sara. Dio infatti non ha nome proprio e non ha nome alcuno: è innominabile. Sicché, a rigore, non può essere il soggetto di alcuna proposizione, nemmeno della proposizione “Dio esiste”. Di lì a poco, dopo una Messa vissuta in lacrime con una intensità tutta speciale, confidò al suo segretario: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia”. E da quel momento non scrisse più nulla, lasciando incompiute diverse opere importanti. Guglielmo da Tocco, manco a dirlo, si premurò di abbellire quella famosa frase con un’aggiunta adatta a un candidato santo, allungandola un poco: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quello che mi è stato rivelato”, come se Dio gli avesse parlato per l’ennesima volta.

A me sembra, invece, che la frase anche senza la precisazione soprannaturalistica, anzi proprio senza di essa, sia da sola bellissima: cosa c’è di più drammatico ma anche di più grande, di più umano, di più autenticamente religioso, di veramente mistico, che comprendere, dopo anni passati a scrivere milioni di parole su Dio, che Dio non si può scrivere, non si può dire, non si può comprendere? Anzi, non solo Dio ma proprio tutto: omnia. Tutto è alla fin fine indicibile e incomprensibile. Un grande, immenso, mistero. So di non sapere nulla di nulla. Qui il mistico e l’agnostico si incontrano. E qui san Tommaso d’Aquino, come ognuno di noi, trova finalmente pace. Tutto è paglia.

 (Fonte: Giovanni Ventimiglia, Il Foglio, 18 settembre 2023)


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