lunedì 31 luglio 2023

"'Voi mi cercherete e mi troverete’. Storia breve di una conversione” di Davide Romano


 

"Voi mi cercherete e mi troverete perché mi cercherete con tutto il vostro cuore". (Geremia 29, 13)

Sono nato in una famiglia cattolica come tante altre. Quando ero piccolo, con mio padre e  mia sorella minore Laura arrivavamo sempre alla fine della messa, giusto in tempo per salutare il prete. Quasi un omaggio domenicale a quel presbitero. Non so perché.

Da bambino ho frequentato l’oratorio gestito dai buoni padri salesiani e poi, crescendo, gli scout. Il grande amore della mia vita.

Penso di essere stato sempre religioso e naturalmente cristiano. Dopo il liceo e appassionate letture dei padri della Chiesa, in particolare di Agostino d’Ippona, e di testi teologici e di storia delle religioni, sotto la guida amorevole del mio coltissimo e inquieto nonno materno, ho anche studiato teologia.

 Da giovane avevo fame di mondo e di vita. E di vita e di mondo ne ho divorati tanti da allora. Sono anche diventato giornalista, mi occupavo soprattutto di Vaticano e questioni attinenti alla religione. Poi di mafia e di politica. Ho viaggiato molto, ho attraversato mondi.

A un certo punto, dopo una lunga riflessione, sono uscito dalla Chiesa cattolica, la Chiesa che amavo, per aderire alla Chiesa valdese. La mia ricerca teologica, la mia fame di Verità mi aveva portato fin là. Cercavo di essere un buon cristiano, un cittadino responsabile e impegnato, e pensavo di cercare sinceramente il Signore. Ma, in verità, lo cercavo con paura e con rabbia. Forse dentro di me Dio era come mio padre, un uomo di formazione militare. A Dio, come a mio padre, bisognava solo ubbidire e l’obbedienza non era mai perfetta. Ubbidivo a Dio ma non lo amavo. La mia obbedienza era puramente mentale. Dentro di me lo detestavo e lo maledicevo. Mi aveva dato un’esistenza difficile e, a tratti, orribile.

Mio padre era un uomo violento. E per me Dio era come lui. Per quanto mi sforzassi, non avrei mai meritato il suo amore. Lui avrebbe sempre trovato un motivo per punirmi con la stessa ferocia che avevo sperimentato da parte di mio padre la cui ira scoppiava all’improvviso, come una tempesta, e si placava solo dopo essersi scaricata con tutta la sua forza su di me. La sua violenza era anche psicologica. Raramente mio padre era fiero di me, ricordo solo pochi apprezzamenti, quasi sulle dita di una sola mano. Per il resto, solo rimproveri, insulti. Mi sono sentito spesso come un cane randagio che nessuno vuole, scacciato da tutti, venuto al mondo quasi per caso, che non si rassegna a morire, costretto a mendicare carezze e cibo. Così ero io. Solo e non voluto, non amato.

Quindi, pur pensando di cercarlo, in verità, fuggivo da Dio così come avevo passato l’infanzia e l’adolescenza a fuggire dall’umore capriccioso e imprevedibile di mio padre.

Uno scrittore un giorno ha detto che l’inferno sono gli altri. Per me l’inferno in terra era mio padre.

E così, pensavo di conoscere Dio, in fondo avevo studiato teologia! Ma lo conoscevo “per sentito dire” (cfr. Giobbe 42, 5). Solo a livello mentale. In verità, ero morto dentro. Mi ero allontanato da Dio, come avevo passato la vita ad allontanarmi a fuggire da mio padre. Pur essendo formalmente un buon cristiano, vivevo una vita disordinata. Priva di amore, in continua e sorda ribellione.

Come il figliolo della parabola, anch’io mi sono perso. E, mentre giacevo a terra, reso quasi impotente e stremato per le percosse della vita, il Signore mi ha messo nel cuore una grande nostalgia e la forza di volgere i miei passi e la mia speranza verso di Lui e la sua casa.

Estate 2018. Corso di esercizi spirituali. Meditazione sulla parabola del figliol prodigo. Ero nella mia stanza, ma mi sentivo soffocare. Il cuore mi batteva forte. Sono uscito in giardino e gli ho urlato contro tutta la mia rabbia. Basta! Adesso schiantami, gli ho detto, distruggimi, riprenditi questa vita che non voglio più perché è solo dolore e solitudine, annientami, riducimi in cenere e che il vento disperda per sempre anche il ricordo di me. Maledico Te e la mia vita!

Il cielo era terso. La luce del sole dorava il paesaggio: il mare davanti a me e le colline intorno. Silenzio. Un silenzio assoluto, solido, palpabile. A tratti assordante. Mi sono accorto all’improvviso della bellezza che mi circondava. Un dono. E ho sentito forte, avvolgente il suo amore che mi abbracciava e mi sanava il cuore. L’amore che spezza ogni parola. Che brucia i sensi di colpa. E il cuore quasi mi scoppiava di gioia!

Poco prima ero morto. E all’improvviso il Signore mi aveva riportato in vita. Mi aveva fatto sentire di essere figlio sempre amato, che Lui c’era sempre stato e che dovevo solo aprirgli la porta perché lui entrasse nella mia vita e prendesse tutto il mio dolore, la mia rabbia… il peso della mia intera esistenza.

Ero perduto e Lui mi aveva ritrovato. Pensiamo di cercare Dio e invece è Lui che non smette mai di cercare noi. Ognuno di noi.

“Gli sono venuto incontro da lontano e gli ho detto: ‘Ti ho sempre amato e per questo continuerò a mostrarti il mio amore incrollabile’” (Geremia 31,3).

Ho capito, ho sentito che Dio ama ognuno di noi di un amore speciale e unico. Per ognuno di noi, per la gioia dei nostri occhi, ricreerebbe ogni giorno il mondo con tutti i suoi profumi e colori e l’universo intero con tutte le sue galassie. Solo perché siamo figli amati e non servi chiamati a un’ubbidienza cieca. E, per quanto facciamo, nessuno di noi sarà mai lontano dal suo amore. Niente e nessuno potrà mai separarci dal suo amore. (Cfr. Rm 8, 35-39)

Da allora ho desiderato solo vivere e parlare di questo amore, servirlo con quello che rimane della mia vita. Non importa quanti giorni ancora il Signore mi concederà, desidero che ogni giorno che Lui mi donerà sia speso solo per la sua gloria e per servire i fratelli. Sia una piccola luce per chi ancora vive nelle tenebre della disperazione, un segno del suo amore.

Un giorno nei tuoi cortili val più che mille altrove. Io preferirei stare sulla soglia della casa del mio Dio, che abitare nelle tende degli empi”. (Salmo 84, 10)

 


martedì 18 luglio 2023

“La fede che Gesù vorrebbe, o che non vorrebbe, trovare. Un commento a Lc 18, 1-8” di Davide Romano

 


Luca 18, 1-8

La vedova e il giudice

1 Propose loro ancora questa parabola per mostrare che dovevano pregare sempre e non stancarsi: 2 «In una certa città vi era un giudice, che non temeva Dio e non aveva rispetto per nessuno; 3 e in quella città vi era una vedova, la quale andava da lui e diceva: "Rendimi giustizia sul mio avversario". 4 Egli per qualche tempo non volle farlo; ma poi disse fra sé: "Benché io non tema Dio e non abbia rispetto per nessuno, 5 pure, poiché questa vedova continua a importunarmi, le renderò giustizia, perché, venendo a insistere, non finisca per rompermi la testa"». 6 Il Signore disse: «Ascoltate quel che dice il giudice ingiusto. 7 Dio non renderà dunque giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui? Tarderà nei loro confronti? 8 Io vi dico che renderà giustizia con prontezza. Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»

 

Fateci caso. Questa è l’unica parabola di Gesù che termina con una domanda, piuttosto inquietante, rivolta a tutti noi, quasi un lascito e una sfida. Una domanda che riecheggia nelle nostre orecchie da più di duemila anni e che è preceduta da una raccomandazione: quella della preghiera. Ricordiamoci che Gesù ha già insegnato ai suoi discepoli il Padre Nostro quando gli hanno chiesto di insegnargli a pregare (Lc 11, 1-4) e che ha già parlato loro della necessità di insistere nella preghiera (Lc 11, 5-13) per ricevere lo Spirito Santo, la cosa più necessaria ai credenti.

In questa parabola Gesù ci racconta di una vedova (quella delle vedove è la categoria indifesa e oppressa per eccellenza nella Bibbia, insieme a quella dell’orfano e del povero) e di un giudice che non teme Dio e che non ha rispetto per nessuno. La vedova però, grazie alla sua insistenza, riesce ad avere giustizia. La conclusione di Gesù è lapidaria: “Ascoltate quel che dice il giudice ingiusto. Dio non renderà dunque giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui? Tarderà nei loro confronti? Io vi dico che renderà loro giustizia con prontezza” (Lc 18, 6-8). Il giudizio, quindi, avverrà in fretta e la Chiesa non dovrà aspettare molto anche se i tempi del Signore non sono i nostri tempi.

“Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia della notte” (Salmo 90, 4).

Gli fa quasi eco Lutero: Dio esaudirà le nostre preghiere, ne siamo certi, ma non sappiamo quando e in che modo.

E questo giorno, il giorno del suo ritorno e del giudizio, va aspettato in perseverante preghiera. Una preghiera nutrita dal desiderio del Signore. “Se continuo è il tuo desiderio, continua e la tua preghiera” dice Agostino commentando il salmo 37.

L’invito alla preghiera continua e insistente, del resto, ci è più volte ripetuto anche dall’apostolo Paolo: “Non cessate mai di pregare” (1 Tessalonicesi 5, 17) o Romani 12, 12 (“Siate allegri nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera”) o Colossesi 4, 2 (“Perseverate nella preghiera”). Solo per fare alcuni esempi.

Pregare per vivere continuamente in amoroso dialogo con il nostro Signore, compiendo tutto alla sua costante presenza, cercandolo in ogni cosa, ascoltando la sua voce e aprendo quindi le orecchie e il cuore alla Sua Parola. “Parla, Signore, poiché il tuo servo ascolta” (1 Sam 3, 9).

Pregare per perseverare nell’attesa senza lasciarsi vincere da un mondo in cui ormai vige la convinzione che ogni cosa è nelle nostre mani, che l’uomo è artefice di se stesso e che non vi è più posto per Dio nel mondo nuovo che ci siamo costruiti. Un mondo perfetto governato da algoritmi.

Ma torniamo alla domanda iniziale. Sappiamo che la seconda venuta del Signore sarà preceduta da un tempo di persecuzione, apostasia e incredulità. (Mt 24, 9-13; 24).

E, se facciamo bene attenzione, il Signore non ci chiede se al suo ritorno troverà l’amore, anche se sappiamo che “l’amore di molti si raffredderà” (Mt 24, 12) e che un amore freddo è un amore ormai morto. Ma il Signore ci chiede se troverà la fede, la cosa che gli sta più a cuore, la radice della vita, la sorgente di ogni autentico amore, quasi la madre di ogni cosa. Quante volte ha detto “La tua fede ti ha salvato”?

“Se non avrete fede, certo non potrete sussistere”, aveva detto Isaia (7, 9).

Sappiamo anche però che Gesù è già venuto una volta. E che tipo di fede ha trovato allora? Fra i suoi contemporanei? Nel suo popolo? Ha trovato la fede di Caiafa, che è fede nella Legge, una Legge che lo ha condannato a morte. Ma ha trovato anche la fede di Roma che credeva nella sua missione civilizzatrice portata avanti a colpi di spada per le strade del mondo allora conosciuto e fino ai suoi estremi confini. Una fede che Gesù contesta, come prima aveva contestato anche quella di Caiafa. Cosa dice Gesù a Pilato? “Tu non avresti potestà alcuna contro di me se ciò non ti fosse dato dall’alto” (Gv 19, 10-11)..

La fede che cercava Gesù non l’ha trovata neppure fra i suoi. Ricordate l’episodio di Nazareth? “E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6, 6).

Non l’ha trovata né in Galilea, né in Giudea e soprattutto a Gerusalemme, la città santa, sulla cui sorte piangerà. Ma non l’ha trovata neppure fra i suoi stessi discepoli. “Gente di poca fede” (Mt 6, 30; 8, 26; 16, 8).

Ma l’ha trovata in un pagano, un centurione di Capernaum. “Io vi dico, in verità, che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande” (Mt 8, 10).

E oggi che fede troverebbe il Signore?  Troverebbe di sicuro molte credenze, anche le più fantasiose, ma troverebbe anche numerose fedi, che magari si richiamano al suo insegnamento o che lo venerano come profeta ma che nel contempo incendiano e devastano il mondo. Di sicuro troverà altre Roma che usano la religione, la piegano ai propri fini. Nazioni benedette dal Signore e i cui leader giurano sulla Bibbia per poi mandare i propri concittadini a morire per guerre insensate in terra straniera. Di quante insanguinate bandiere fiorisce ormai la terra!

O magari troverebbe credenti, seppure formalmente cristiani, che non lo attendono più. Chiese senza annuncio della grazia. Chiese che non hanno più bisogno di Dio, che ne posso fare benissimo a meno. Anzi, che ne hanno fatto già a meno. Chiese che godono del favore del mondo e che si sono trasformate in ong. Che non usano più le parole dure del Vangelo ma il linguaggio politicamente corretto dei piazzisti.

Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi, perché i padri loro facevano lo stesso con i falsi profeti” (Lc 6, 26).

“Il pericolo principale del XX secolo sarà la religione senza Spirito Santo, il  cristianesimo senza Cristo, il perdono senza ravvedimento, la salvezza senza rigenerazione, la politica senza Dio e il paradiso senza inferno” ha scritto William Booth, il fondatore dell’Esercito della Salvezza.

Il pericolo, lo sappiamo bene, è anche del XXI secolo. Lo vediamo tutti i giorni.

Diceva Lutero che credere è essere assolutamente decentrati in Cristo per la fede e nel prossimo per amore. Una fede obbediente a Dio e al servizio di ogni uomo.

Ecco forse è proprio questa la fede che Gesù vorrebbe trovare oggi sulla terra. Una fede che si faccia concreta ospitalità per Dio. “Ecco io sto alla porta e picchio: se uno ode la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3, 20)

Ancora oggi Dio cerca una dimora sulla terra. La cerca anche adesso e quella dimora possiamo essere noi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui” leggiamo in Giovanni 14, 23.

Perciò credere, avere fede, affidare la propria vita completamente a Dio può essere semplicemente questo: aprire la porta della nostra esistenza a Dio in totale ubbidienza alla Sua Parola e lasciarlo entrare per dimorare in noi. Prepariamo, pertanto, la nostra casa in desiderante e orante attesa del nostro Signore. Finché egli venga. In modo da potergli dire con tutta la nostra esistenza ogni giorno, ogni istante: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22, 20).

Vieni, Signore Gesù, vieni nelle terre desolate delle nostre vite. Vieni ad abitare in noi e perdonaci per i troppi compromessi che abbiamo accettato, perdonaci se ci siamo accomodati in questo mondo come se fossimo di questo mondo. Oggi tu bussi di nuovo alla nostra porta. Oggi tu ci dici, come a Zaccheo, “debbo fermarmi a casa tua” (Mt 19, 5). Che la salvezza oggi entri anche nella nostra casa, nella nostra vita!

Amen!

“Totò Munnizza e i suoi sogni nel cassonetto” di Davide Romano

 



Non si ricorda più nemmeno quando ha iniziato. Gli sembra di averlo sempre fatto. Di essere sempre andato per la strada, la notte, a cercare negli scrigni che si aprono col pedale ciò che gli altri di giorno buttano via. Non ricorda nemmeno il suo nome.

Non ricorda di avere mai avuto una famiglia, un lavoro, una casa. Neanche le persone, che la sera lo incontrano ogni volta carico di sacchetti, ricordano il momento in cui e comparso per la prima volta al loro cospetto a cercare fra i resti dell’esistenza di ognuno.

Un giorno un signore distinto di un quartiere distinto gli ha urlato da lontano qualcosa. Era il suo nome: Totò Munnizza, si chiamava.

Totò ha una barba bianca, lunga e incolta, striata di nero.

L’alito gli puzza sempre d’alcol, ma ha lo sguardo sveglio del sobrio. Cammina curvo, trascinando i piedi nelle scarpe rotte e le buste coi suoi poveri averi. Ha un impermeabile come quello del tenente Colombo, sempre stretto con una corda alla vita. Nessuno ricorda di averlo mai visto aperto. E sempre lo stesso, d’inverno e d’estate, ma sempre più scuro.

Totò parla poco e lancia lunghe occhiate di sbieco a chi gli si avvicina. Una volta le suore vestite da indiane lo hanno portato nel loro convento per ripulirlo.

La sera però lo hanno ritrovato con le mani tuffate in un bidone nero ricolmo degli scarti della cucina a cercare la cena, così diceva. Chi gli voleva dare qualcosa doveva prima metterlo in una busta e poi chiuderla con un nodo.

Passava le giornate sprofondato in una poltrona in un angolo. Adesso è normale, pensavano le sorelle e gli altri volontari di buon cuore.

Ma una sera, quando sembrava ormai rimesso, caricato di spazzatura che sosteneva di voler gettare fuori nei cassonetti, è fuggito, raccontano, con la sua refurtiva.

Qualcuno dice di averlo visto aggirarsi in un quartiere dormitorio della periferia perché, ha spiegato con gesti e mezze parole, la gente povera mangia di più e lascia più roba.

Totò sostiene che non gli manca nulla. La notte, dopo la “caccia” serale, dorme con una buona bottiglia per tenersi compagnia nei cartoni che gli fanno di volta in volta da letto, da ombrello e da tutto quello che serve. E va in posti sempre diversi della citta. Perché non vuole farsi prendere dai teppisti e dalle persone che dichiarano di volergli bene.

E quando parla di morte, lo fa toccandosi sempre prima nei “posti giusti”. Dice che vuole adagiarsi in una bara d’argento. Una qualunque, una di quelle disseminate per la strada. Allora capisci che pensa ad un cassonetto d’alluminio.

Se gli chiedi il motivo, risponde che il coperchio lo vuole abbassare lui come fa la gente quando butta qualcosa. Perché, in fondo, anche Totò si considera un rifiuto.

 

Ps: munnizza in siciliano significa spazzatura


(da “Il Grido di Guerra”, giugno 2023)

“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

Nell'ampio spettro della convivenza umana, la diversità brilla come una gemma dai molteplici colori. Ogni individuo è unico nel suo insi...