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venerdì 13 settembre 2024

“Da Washington a Biden, la fede dei presidenti Usa una bussola o un’arma politica?” di Davide Romano

 



L’America, che ha scritto il principio di separazione tra Stato e Chiesa nella sua Costituzione, non ha mai smesso di intrecciare la politica con la religione. Se ieri il giuramento dei presidenti avveniva con la mano su una Bibbia, la stessa scena si è ripetuta con Joe Biden, il secondo cattolico alla Casa Bianca, dopo John F. Kennedy. Ma cosa significa, oggi, parlare di fede in politica? E quanto è reale la devozione dei presidenti moderni?

 

Biden, cattolicesimo e compassione sociale

Partiamo dal presente. Joe Biden, presidente che non ha mai nascosto la sua profonda fede cattolica, si è trovato a guidare un’America più polarizzata che mai. La sua storia personale, segnata da lutti familiari e tragedie, lo ha avvicinato al lato umano e compassionevole del cattolicesimo. Non è raro vederlo partecipare alla messa o fare riferimento alla sua fede in discorsi pubblici. “La fede mi ha dato speranza e conforto quando ho perso mio figlio”, ha detto più volte.

Ma c’è chi accusa Biden di ipocrisia: mentre professa una fede profonda, il suo approccio politico su temi come l’aborto e i diritti LGBTQ è in conflitto con le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica. Qui emerge la tensione tra il cattolico Biden e il politico Biden, costretto a navigare tra le sue convinzioni personali e le richieste di un elettorato progressista.

 

Trump, l’evangelismo politico

Se Biden rappresenta il cattolicesimo compassionevole, Donald Trump è il campione del movimento evangelico conservatore, un gruppo che ha avuto un ruolo cruciale nel portarlo alla Casa Bianca. Eppure, la fede personale di Trump è sempre stata motivo di perplessità. Poche volte lo si è visto in chiesa, e raramente ha fatto riferimenti spirituali autentici.

Ma Trump ha saputo usare la religione come strumento politico. Con un linguaggio che mescolava patriottismo e fede, si è presentato come il difensore della “città sulla collina”, un riferimento biblico caro agli evangelici. “Nessuno ha fatto più di me per i cristiani in questo paese”, dichiarò una volta, enfatizzando le sue politiche anti-aborto e la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema. Se fosse autentica convinzione o pura strategia elettorale, è difficile dirlo. Di certo, la sua presidenza ha cementato l’alleanza tra la politica repubblicana e la destra religiosa.

 

Obama, fede personale, ma laica

Prima di Trump, Barack Obama, il primo presidente afroamericano, portò una visione più laica, ma comunque radicata nella fede. Anche se raramente si definiva un fervente praticante, Obama trovò nelle Scritture ispirazione per i suoi discorsi pubblici, spesso citando la Bibbia per parlare di giustizia sociale. “Sono il custode di mio fratello e di mia sorella ”, ripeteva, facendo eco al cristianesimo sociale che aveva appreso frequentando la chiesa di Chicago.

Ma la sua fede fu messa in dubbio sia da destra che da sinistra. La destra lo accusava di non essere abbastanza cristiano, insinuando addirittura che fosse segretamente musulmano, mentre la sinistra criticava il suo uso della religione per giustificare interventi sociali e militari. Obama camminava su un filo sottile: un presidente che parlava di fede, ma che cercava di tenere quella stessa fede fuori dalle sue decisioni politiche.

 

Bush e il ritorno della religione in politica

L’ascesa di George W. Bush segnò un punto di svolta nella storia recente della fede presidenziale. Bush, un convertito evangelico, un "nato di nuovo", fece della sua religione una parte integrante della sua politica. “Ho trovato Dio nei momenti di difficoltà”, dichiarò più volte, parlando della sua lotta con l’alcolismo e della sua rinascita spirituale.

Ma la sua fede non si fermava alla vita privata. Durante la presidenza, Bush invocò il nome di Dio per giustificare decisioni politiche cruciali, come la guerra in Iraq. “Il male deve essere sconfitto”, dichiarò, usando un linguaggio quasi biblico per definire la lotta al terrorismo. Tuttavia, la sua fusione tra religione e politica suscitò non poche critiche, anche tra i suoi stessi alleati, che temevano una deriva teocratica.

 

La fede dei presidenti

La fede dei presidenti americani, da Washington a Biden, passando per Trump e Obama, rimane una questione complessa e ambigua. È stata, per alcuni, una guida sincera nella vita e nella politica, per altri, uno strumento di potere. Sant’Agostino scriveva: “La fede è credere in ciò che non vedi; la ricompensa della fede è vedere ciò che credi”. Ma per i presidenti americani, quanta parte della loro fede è stata vera convinzione, e quanta semplice necessità elettorale?

Nell’America di oggi, sempre più divisa, la fede resta una bussola morale per alcuni e un’arma politica per altri.

“Il sogno di una nazione guidata dal dovere. Elogio dell’America puritana” di Davide Romano, giornalista

 


Parlare dell'America puritana, oggi, suona come un ossimoro in una nazione che ha fatto della libertà individuale, dell'edonismo e del consumo sfrenato i suoi pilastri. Eppure, alle radici di quel grande esperimento chiamato Stati Uniti d'America, c'è proprio l’etica puritana, la stessa che ha modellato il carattere di una nazione destinata a diventare una superpotenza. Un’etica che, seppur criticata e talvolta derisa, merita un elogio, non fosse altro che per aver forgiato lo spirito di sacrificio, disciplina e responsabilità collettiva che ha reso l’America ciò che è.

 

L’etica del lavoro: “La vocazione come dovere”

Non si può parlare di puritanesimo senza menzionare Max Weber, il filosofo e sociologo tedesco che nella sua opera L'etica protestante e lo spirito del capitalismo scrisse: “La ricerca del successo economico non è immorale, anzi, per i puritani è il segno della grazia divina”. Per i primi coloni puritani sbarcati nel Nuovo Mondo, il lavoro non era semplicemente un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma un dovere sacro, un modo per dimostrare a Dio che la loro vita aveva senso.

La "vocazione", nel senso weberiano, diventa la lente attraverso cui leggere il dinamismo economico e sociale degli Stati Uniti. I puritani non lavoravano per accumulare ricchezza fine a sé stessa, ma per glorificare Dio attraverso il loro impegno quotidiano. E fu proprio questa dedizione assoluta al lavoro a gettare le basi per quella straordinaria cultura imprenditoriale americana che, nel bene e nel male, ha conquistato il mondo.

 

La città sulla collina: “Una missione divina”

Quando John Winthrop, uno dei padri fondatori della colonia della Baia del Massachusetts, pronunciò nel 1630 il celebre discorso "A Model of Christian Charity", delineò una visione che avrebbe segnato per sempre l’identità americana: "Saremo come una città sulla collina. Gli occhi di tutto il mondo saranno su di noi". Per i puritani, l’America non era solo una terra di opportunità materiali, ma una missione divina. Il Nuovo Mondo doveva diventare un esempio morale per l’umanità, un luogo dove si praticava la giustizia, la carità e il rispetto delle leggi di Dio.

Questa visione millenarista, quasi profetica, ha continuato a riecheggiare nei secoli successivi, influenzando figure politiche come John F. Kennedy e Ronald Reagan, che hanno ripreso la metafora della "città sulla collina" per sottolineare la missione morale degli Stati Uniti nel mondo. Dietro la facciata del pragmatismo e della realpolitik, l'America non ha mai abbandonato l’idea di essere una nazione eccezionale, destinata a guidare il mondo non solo con il potere economico e militare, ma anche con i suoi principi etici.

 

La moralità della libertà: “La legge di Dio e quella degli uomini”

Per i puritani, la libertà era qualcosa di profondamente diverso da quella intesa nelle moderne democrazie liberali. Non era la libertà di fare tutto ciò che si desiderava, ma la libertà di fare ciò che era giusto. Come notò Alexis de Tocqueville nel suo classico La democrazia in America, “i puritani unirono in maniera straordinaria lo spirito della libertà e quello della religione”, creando un sistema in cui la legge civile rifletteva, almeno in teoria, la legge divina. In altre parole, la libertà non era mai disgiunta dal dovere.

Tocqueville rimase affascinato dall'idea che la libertà, per essere sostenibile, dovesse essere ancorata a una solida base morale. Il rischio di una libertà senza freni, ammoniva, sarebbe stata la disintegrazione sociale, un rischio che i puritani avevano ben compreso. La loro severa disciplina morale e religiosa fu, in questo senso, una salvaguardia contro gli eccessi di una libertà mal gestita. E sebbene l'America moderna abbia in gran parte abbandonato questo rigore puritano, la sua influenza si avverte ancora in molte istituzioni, dall'impegno per la giustizia sociale alla devozione per l'ordine costituito.

 

L’ironia del puritanesimo: “Peccatori nella mani di un Dio arrabbiato”

Ma il puritanesimo non era tutto rose e fiori. La severità morale dei padri pellegrini, con il loro ossessivo bisogno di purificare la comunità dai peccati, diede luogo a episodi inquietanti, come i processi alle streghe di Salem del 1692. Nathaniel Hawthorne, discendente di uno dei giudici di Salem, esplorò il lato oscuro del puritanesimo nel suo romanzo La lettera scarlatta, dove la protagonista, Hester Prynne, viene marchiata a vita per un peccato di adulterio. Hawthorne, come molti scrittori americani successivi, fu critico della rigidità puritana, ma al tempo stesso riconosceva che quella stessa rigidità aveva contribuito a costruire una società ordinata e rispettosa delle leggi.

E come dimenticare Jonathan Edwards, uno dei più influenti predicatori puritani del XVIII secolo? Nel suo sermone Peccatori nelle mani di un Dio arrabbiato, Edwards descrisse l’umanità come appesa a un filo sopra le fiamme dell’inferno, trattenuta solo dalla misericordia di un Dio che, per la maggior parte del tempo, sembrava tutto tranne che benevolo. L'ironia del puritanesimo è che, pur predicando la salvezza attraverso la grazia, riusciva a far sentire i fedeli come dei condannati già in vita, costretti a un’esistenza di penitenza e autocontrollo.

 

Il lascito puritano: “Un’eredità complessa”

Eppure, nonostante queste ombre, il lascito del puritanesimo americano è innegabile. Come sottolineò lo storico Perry Miller, "il puritanesimo è stato il motore segreto della cultura americana, una forza che, per quanto criticata e spesso rimossa dalla memoria collettiva, continua a plasmare la coscienza nazionale". L’etica del lavoro, il senso del dovere verso la comunità e la convinzione che l'America abbia una missione morale nel mondo sono tutte radici puritane che affondano nella storia e che, volenti o nolenti, ci accompagnano ancora oggi.

La grandezza dell’America puritana, dunque, non sta solo nelle sue virtù o nei suoi successi economici, ma nella sua capacità di tenere insieme libertà e responsabilità, individualismo e senso del dovere. Un equilibrio che, sebbene fragile, ha permesso alla nazione di crescere e prosperare. Forse è proprio questo che dobbiamo ricordare: l’America puritana non è un ricordo nostalgico di tempi passati, ma una lezione vivente di cosa significa costruire una società dove la libertà si coniuga con il dovere e la religione con la legge.


“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...