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domenica 1 ottobre 2023

“La Parola di Dio è giusta” di Greetje Van der Veer

“La parola del Signore è retta e tutta l’opera sua è fatta con fedeltà”. (Salmo 33, 4)

“Gesù dice: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. (Matteo 24, 35)

Siamo abituati a fare differenza fra ciò che diciamo e ciò che facciamo. Perché non è detto che ciò che diciamo è poi quello che facciamo, spesso c’è una bella differenza fra queste due realtà. Quante cose che diciamo si riducono poi a chiacchiere e basta. Presso Dio questa differenza non c’è. Quando Dio parla succede sempre qualcosa, basta pensare all’atto della creazione: «Dio disse: “Sia luce!”. E la luce fu!» (Gen. 1, 3).

Noi, esseri umani, possiamo fare a pezzi le cose con le nostre parole e le nostre azioni. Ma la parola di Dio è giusta, non ha un doppio senso, essa ci dà una direzione, è un sostegno. Le parole del Salmo 33 rinviano alla creazione sottolineando il modo in cui Dio parla e agisce.

Se consideriamo il creato (siamo nel periodo chiamato del “Tempo del Creato”), vediamo che ciò che ci circonda non funziona per niente, pare che Dio abbia compiuto un lavoro mal fatto. Quante cose non funzionano! Basta pensare alle mutazioni genetiche che causano malattie gravi, o ai terremoti, che in questo periodo, causano tanti, troppi morti.

Anche gli scrittori biblici descrivono quanto burrascosamente le cose possono svolgersi. Ma fondamentale è l’esperienza che la Creazione non è un caos, ma un cosmo, una terra per abitarci; Dio ha creato un mondo, una terra dove si può abitare bene, con giustizia ed equità proprio come canta questo salmo. A noi tutti e tutte il compito di inserirci in questo piano di Dio. Amen.

(Fonte: Riforma.it)

lunedì 25 settembre 2023

“Il Vangelo secondo Tolstoj” di Davide Romano


 

“Io credo in Dio, che è per me lo Spirito, l’Amore, il Principio di tutte le cose. Io credo che egli è in me come io sono in lui. Io credo che la volontà di Dio non sia mai stata espressa più chiaramente che nella dottrina di Cristo; ma non si può considerare Cristo come Dio e rivolgergli delle preghiere senza commettere il più grande dei sacrilegi. Io credo che la vera felicità dell’uomo consista nel compimento della volontà di Dio”. Scriveva così Lev Tolstoj, nell’aprile del 1901, in un’epistola in cui chiariva la propria concezione della dottrina cristiana e la natura della propria fede, alla luce delle idee maturate nella sua lunga indagine teologica sui dogmi e le prescrizioni della Chiesa. Appena un paio di mesi prima, durante il Sinodo tenutosi nel febbraio 1901, la Chiesa Ortodossa Russa aveva emesso nei suoi confronti solenne sentenza di scomunica. Il suo trentennale, appassionato studio delle Sacre Scritture – alla ricerca di un punto di vista univoco e autentico nella comprensione della parola evangelica – lo aveva condotto verso una posizione di critica perentoria nei confronti delle gerarchie religiose e delle pratiche liturgiche, e si concludeva con una altrettanto perentoria e irrevocabile sentenza di rottura da parte delle istituzioni ecclesiastiche.

Il tracciato umano, prima ancora che intellettuale, del glorioso scrittore russo è segnato, a un dato momento della sua vita, da un periodo di profondo smarrimento. Negli anni Settanta del suo secolo, intorno ai 45 anni, una lacerante crisi interiore lo coinvolse e sconvolse, come scintilla fece brillare una carica esplosiva che spazzò via il muro di nichilismo e di pessimismo - che l’appassionata lettura dell’opera di Schopenhauer aveva alimentato - che derivava dal frustrante tentativo di giungere a Dio attraverso la ragione, la filosofia, la teologia: “L’uomo impiega la sua ragione per chiedersi: a che scopo, perché? A proposito della sua propria vita e di quella dell’universo. E la ragione stessa gli dice che non c’è risposta. (...) Che significa tutto ciò? Significa che la ragione non è stata fornita all’uomo per rispondere a questa domanda”. Nasceva adesso in lui la consapevolezza che ogni uomo, l’umanità intera, potesse vivere solamente in virtù della fede, e che il tentativo di affidare la propria vita al solo lume della ragione conducesse inesorabilmente alla disperazione. Trentacinque anni vissuti da nichilista, come lui stesso scrive nelle sue memorie, sfociarono all’improvviso in una rinnovata fede in Cristo. 

Nei suoi scritti autobiografici, Tolstoj racconta la sua evoluzione spirituale, il suo travagliato percorso di riavvicinamento alla religione, che lo portò a riguadagnare il valore positivo e profondo del messaggio cristiano, e trasformò profondamente la sua esistenza e la sua visione del mondo. Tutti i valori in cui credeva furono invertiti e sovvertiti, letteralmente scambiati di posto: “Cessai di volere quello che volevo prima e incominciai a volere quello che prima non volevo. Quello che prima mi sembrava buono mi apparve cattivo e quello che prima mi sembrava cattivo mi apparve buono”3. Nella fede bisognava cercare il senso vero dell’esistenza, il segreto di una felicità che appariva finalmente raggiungibile a chi avesse trovato il coraggio e la forza di liberarsi delle regole imposte dalla società e seguire con fiducia gli insegnamenti di Gesù. 

La società era quella ingloriosa della Russia ottocentesca, che innalzava l’intera struttura sociale sulla diseguaglianza e sull’ingiustizia, e in cui la ricchezza delle classi dirigenti gravava interamente sulle spalle degli umili lavoratori. In questa realtà, il conte Lev Nikolàevic Tolstoj, membro della privilegiata nobiltà, decise di rinunciare agli agi della propria condizione e iniziare a vivere come i contadini mujiks, indossando le loro stesse vesti, privandosi della servitù e liberandosi persino delle suppellettili che corredavano la sua abitazione. Stravaganze, forse, che testimoniano tuttavia la grandezza di un uomo di commovente e lungimirante sensibilità, che seppe rinunciare ai privilegi e denunciare un’ingiustizia sociale di cui non fu mai vittima. Stravaganze che furono forse alla base di quel filone di critica che vuol vedere in Tolstoj un anarchico o un sobillatore, o che finirà con l’individuare in lui il teorico ante litteram dell’ateismo sovietico. In realtà, quello che animava Tolstoj era un sentimento religioso che ebbe più che altro la natura di un assunto etico, che si fondava sul principio cristiano della rinuncia a sé e dell’amore verso gli altri; è dunque in tale ottica che bisogna leggere la sua bizzarra, commovente fuga dalla ricchezza e dalla gloria terrena. Il tormentato scrittore russo trovò nel messaggio cristiano una risposta, un sentiero tracciato, una via da seguire. 

La sua intima crisi spirituale finì con l’assumere il respiro dell’universalità, poiché diede vita a una riflessione filosofica di portata immensa che, lungi dall’aprirsi al misticismo, si caricò invece di una forza etica, pragmatica, antropologica, ponendo al centro dell’attenzione la questione esistenziale, la domanda eterna dell’uomo riguardo al senso della vita. L ’esegesi tolstojana dei Vangeli racchiudeva in sé un valore umanistico autentico, poiché fu condotta nel tentativo di individuare un significato, di fornire una risposta alla questione etico-pragmatica del “come vivere?”, indicando come unica via quella del compimento del bene, della rinuncia a se stessi e dell’amore incondizionato verso il prossimo. Le semplici parole di Cristo rappresentano per Tolstoj l’orizzonte luminoso, il messaggio liberatorio e universale che indica a tutti la strada da seguire per trovare il senso della vita e per raggiungere la felicità.

L’esigenza di superare la frammentarietà delle interpretazioni teologiche fu dunque all’origine dell’intenso lavoro di rilettura-riscrittura dei quattro Vangeli che Tolstoj iniziava e portava a termine nell’arco di due anni, fra il 1880 e il 1881, proprio allo scadere del decennio cruciale degli anni Settanta. Ne veniva fuori l’Unificazione e traduzione dei quattro Vangeli, cui seguiva alcuni anni dopo la pubblicazione di un compendio divulgativo, la Breve esposizione dell’Evangelo. L ’idea centrale dell’insegnamento evangelico è rappresentata, nella concezione tolstojana, dal Discorso della montagna, in cui Gesù pronuncia il grandioso messaggio delle beatitudini. Avviene così la genesi della Vita di Gesù proposta in questa pubblicazione. 

La natura umana del Cristo tolstojano balza in primo piano; ma l’accento è posto sulla parola di Gesù, sulla semplicità del suo messaggio, sulla naturalezza con cui egli indica la via verso il bene, con cui cerca di orientare l’umanità, smarrita nella ricerca di un significato. Le parole di Cristo costituiscono la base anche del secondo scritto, La felicità, ma in una forma che è più quella di una piccola prosa filosofica, in cui la valenza etica dell’insegnamento cristiano viene esplicitata fino a diventare un modello comportamentale: in tal senso, forse, può apparire evidente la straordinaria attualità, o meglio, l’immortalità del messaggio religioso, così come ci viene consegnato dall’impareggiabile scrittore russo.

 

Il libro: Lev Nikolàevi Tolstoj, “Vita di Gesù e altri scritti”, Prefazione e cura di Davide Romano, Edizioni EL, pp. 64, euro 12,00

 


giovedì 31 agosto 2023

I Poveri, il cuore del Vangelo

“Egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: ‘Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati’”.  (Luca 6,20-21)

Nel cuore stesso del Vangelo risplende una verità innegabile: i poveri occupano una posizione centrale. È impossibile penetrare il significato del Vangelo senza considerare la condizione dei poveri. Essi divengono parte integrante della stessa natura di Gesù che, nonostante la sua divina ricchezza, ha volontariamente scelto di umiliarsi, di condividere la povertà umana, e persino di assumere il peso del peccato, la forma più cruda di povertà. In questa scelta, i poveri si fondono con la stessa personalità di Cristo. Paradossalmente, è proprio la loro povertà che ci assicura un patrimonio eterno, e già in questo momento ci permette di arricchirci attraverso l'amore. Questo perché la più grande povertà che dobbiamo combattere è la mancanza di amore.

Al termine del nostro pellegrinaggio terreno, la verità profonda della vita sarà rivelata con chiarezza: le finzioni del mondo, che attribuiscono senso all'esistenza mediante il successo, il potere e la ricchezza, si dissolveranno. Invece, l'amore che avremo donato e condiviso emergerà come l'unico vero tesoro. Le cose materiali svaniranno nell'oblio, ma l'amore resterà, risplendendo come un faro luminoso nella notte. Se vogliamo evitare di vivere una povertà spirituale, dobbiamo chiedere la grazia di riconoscere la presenza di Gesù nei volti dei poveri e di servirlo attraverso il nostro impegno verso di loro. Perché servire i poveri, diceva Giacomo Cusmano, è servire Gesù.

Noi siamo portatori di un tesoro di inestimabile valore, una ricchezza che non dipende dal numero di beni materiali accumulati, ma dalla nostra essenza. Questa ricchezza trae origine dalla vita che ci è stata donata, dalla virtù che risiede in noi e dalla bellezza indelebile con cui Dio ci ha dotati, essendo noi riflessi della sua immagine. Ciascuno di noi è un gioiello prezioso agli occhi di Dio, unico e irripetibile nella storia dell'umanità. Dio ci contempla con occhi di amore e ascolta i battiti dei nostri cuori con tenerezza. Spesso, però, ci lasciamo sopraffare dal senso di mancanza, concentrandoci su ciò che ci manca anziché rallegrarci per ciò che possediamo. Cadendo nella tentazione del "magari", finiamo per ignorare i doni e i talenti che ci sono stati affidati. Mentre c'è qualcosa che desidereremmo avere, c'è anche tanto che abbiamo già.

Dio ci ha arricchito con questi doni in base alla sua conoscenza profonda di ciascuno di noi e alla fiducia nella nostra capacità di farli fruttare, nonostante le nostre fragilità. Anche il servo timoroso, che ha nascosto il proprio talento per paura, riceve la fiducia di Dio. Dio si augura che, nonostante le sue paure, anche questo servo utilizzi bene ciò che gli è stato dato. In sintesi, il Signore ci esorta ad impegnarci attivamente nel tempo presente, abbandonando le nostalgie per il passato e ponendoci nell'attesa operosa del suo ritorno.

La nostalgia, tuttavia, può tramutarsi in un'oscura nuvola che avvolge l'anima. Questo senso di malinconia, come un'ombra giallastra o un'oscurità soffocante, ci fa rivolgere costantemente lo sguardo al passato o agli altri, impedendoci di concentrarci sulle nostre potenzialità e sulle opportunità di lavoro che Dio ci ha concesso. Nel Vangelo, i servi lodevoli sono coloro che osano sfidare la zona di comfort. Essi non sono prudenti e cauti, non si preoccupano di conservare gelosamente ciò che hanno ricevuto, ma hanno il coraggio di metterlo in gioco. Infatti, il bene che non viene investito si perde; così, la grandezza della vita non dipende da quanto si accumula, ma da quanto si condivide e si fa fruttare. In un mondo in cui molti sono preoccupati solo di accumulare, pensando a sé stessi più che agli altri, la vita diventa vuota e priva di significato. Una vita vera è quella che si nutre di doni, quella che vive per essere dono agli altri.

La fedeltà a Dio non si limita soltanto a rispettare regole e comandamenti, che spesso hanno poco a che fare con la volontà del Signore, ma implica anche il coraggio di spendere la propria vita in un servizio incrollabile. Anche se abbiamo piani ben delineati, quando il richiamo al servizio si fa presente, è importante lasciarli da parte e rispondere con generosità. Purtroppo, esistono cristiani che giocano in difensiva, aderendo rigorosamente alle regole per evitare rischi.

La vera fedeltà a Gesù, invece, richiede audacia e il coraggio di amare, superando la passività che potrebbe facilmente trasformarsi in complicità. In un mondo segnato dall'incertezza e dalla fragilità, dobbiamo evitare di sprecare la nostra preziosa vita concentrando l'attenzione egoisticamente su noi stessi, rinunciando all'indifferenza. Oggi dobbiamo rispondere con un coraggio intraprendente e un amore attivo, affrontando le sfide con rinnovata speranza e compassione verso gli altri.

Scriveva il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer: “Di tutto questo alla fine rimarrà soltanto una cosa, cioè l'amore che abbiamo avuto nei nostri pensieri, nelle nostre preoccupazioni, nei nostri desideri e speranze. Tutto il resto cessa, passa, tutto ciò che non abbiamo pensato e desiderato per amore, tutti i pensieri, tutta la conoscenza, tutti i discorsi senza amore finiscono: soltanto l'amore rimane in eterno”.

 (Davide Romano)

martedì 15 agosto 2023

“Dio ama chi ama rischiare per amore". Un commento a Matteo 25, 14-30 di Davide Romano

 


La parabola dei talenti

14 «Poiché avverrà come a un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni. 15 A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì. 16 Subito, colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque. 17 Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due. 18 Ma colui che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone. 19 Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro. 20 Colui che aveva ricevuto i cinque talenti venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: "Signore, tu mi affidasti cinque talenti: ecco, ne ho guadagnati altri cinque". 21 Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore". 22 Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: "Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". 23 Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore". 24 Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: "Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo". 26 Il suo padrone gli rispose: "Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l'interesse. 28 Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti. 29 Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 30 E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti". 


Siamo sulla strada verso Gerusalemme città nella quale Gesù sarà catturato e condannato a morte. Gesù sta dando ai discepoli le “istruzioni” per il tempo che verrà dopo la sua salita al cielo e prima del suo ritorno. All’inizio della parabola usa infatti la congiunzione “poiché” che la collega all’esortazione del versetto 13 dello stesso capitolo (“Vegliate perché non sapete né il giorno né l’ora”) inserita all’interno di quella sulle Dieci vergini.

I protagonisti della storia. C’è un Signore, che è chiaramente Gesù, che sta partendo per un lungo viaggio dal quale però tornerà. Anche se nessuno sa quando. E ci sono tre servi ai quali affida un consistente deposito. A ciascuno secondo le proprie capacità perché il padrone conosce bene i suoi servi. Insieme al deposito, affida ai servi anche la sua fiducia. Perché i servi avrebbero potuto anche scappare con la cassa! Del resto la somma era notevole. Pensate che un “talento” non era una moneta ma un valore che poteva essere quantificato sia in monete d’argento o d’oro e che equivaleva a circa 6mila denari e sappiamo (Mt. 20,2) che un denaro era una giornata di lavoro agricolo. Quindi un solo talento equivaleva a circa 16 anni di lavoro.

Dicevo che il Signore conosceva bene i suoi servi e, infatti, al suo ritorno i primi due gli restituiscono il capitale addirittura raddoppiato. E ricevono per questo una duplice ricompensa: la possibilità di dominare su un patrimonio sproporzionato rispetto a quello, al poco, che avevano ricevuto in amministrazione e soprattutto la “gioia” che è quella che il Signore concede a coloro che ama.

E veniamo all’altro personaggio della storia: il terzo servo il quale gli restituisce il talento ricevuto accompagnando il gesto con parole assai poco rispettose (“Tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”). Gli dice, insomma, che si arricchisce sul lavoro degli altri perché è vero che il capitale è il suo ma non la fatica per farlo fruttare. “Ho avuto paura” gli dice. Magari di perdere il talento e di doverlo rifondere di tasca sua! Certo, potrebbe essere anche una scusa per giustificare la sua svogliatezza e anche il suo risentimento – in fondo lui ha ricevuto meno degli altri - perché il padrone pretende di “mietere” il frutto del suo lavoro. Insomma, un opportunista spietato che campa sul lavoro altrui!

In punta di diritto alachico, come sostiene uno studioso, il terzo servitore ha osservato una norma rabbinica secondo la quale seppellendo il denaro e poi restituendolo lui con la legge era a posto, come si suol dire. ! “Questo è il tuo talento, amici come prima!”.

Ma dal punto di vista morale, le cose stanno ben diversamente. Il padrone gli ha affidato non solo il denaro ma anche la sua fiducia, dicevamo. Se avesse voluto seppellirlo, lo avrebbe potuto fare lui stesso. E così il Signore gli rigetta in faccia le sue stesse parole e l’immagine che gli ha dato di lui, come in uno specchio. Forse il servo è davvero prigioniero di questa terribile immagine del suo Signore. È un prigioniero, un cattivo da captivus diaboli, prigioniero del diavolo. Forse lo siamo anche noi. Che immagine abbiamo di Dio in noi? Non è forse questa immagine distorta che ci blocca e che ci dà in fondo anche un alibi?

Tutto chiaro? Cominciamo dal significato che tutti noi diamo alla parola talento. Lei ha talento per la musica, lui per la cucina…Talento è ormai per noi una dote naturale che il brano ci invita a mettere a frutto per il bene di tutti. Per alcuni esegeti non è solo questo. Secondo loro la colpa sarebbe di Giovanni Calvino, povero Calvino!

Per alcuni, infatti, la parabola è in verità un invito alla conversione rivolto a quel cristiano che sovente è ben contento del suo rassicurante “minimo”, della sua confortevole tiepidezza, che fa le cose come si sono sempre fatte perché non ha alcuna vera passione per il Regno e che anzi si affaccia alle nuove sfide e ai nuovi impegni che l’annuncio pone con “paura”. Un cristiano che non guarda con audacia, creatività e generosità a compiti che il Signore continuamente pone in un mondo in veloce e perenne mutazione. Un mondo in cui la messe sterminata di coloro che “vogliono vedere Gesù” (Gv 12,21) leva al cielo la sua voce. Perché l’attesa del Signore deve essere vigilante, operosa, creativa. Non pigra.

Lui non è più con noi, è partito per un lungo viaggio e non sappiamo quando tornerà. Ma sappiamo che ha affidato a ognuno di noi un compito: moltiplicare i doni che ciascuno ha ricevuto. Perché, come abbiamo visto, il dono è anche un compito: custodire e far fruttificare. Ma allora che cosa è questo dono?

Secondo Ireneo di Lione è la vita che Dio ha donato a ciascuno di noi. La vita è un dono che non va sprecato in inutili passatempi, occupazioni, in strade che non arrivano da nessuna parte. Secondo altri, invece, i talenti sono le Parole che il Signore ha affidato ai suoi discepoli per custodirle e farle fruttare nel mondo. E, in questo compito, c’è anche una componente di rischio… ma il Signore ama chi rischia per lui. Ed è infatti proprio il rischio che il terzo servo non ha voluto accettare. Più che il male, ha fatto di peggio: non ha fatto nulla!

E noi? Come stiamo mettendo a frutto il dono che il Signore ci ha affidato? Come lo stanno mettendo a frutto le nostre chiese spesso contente del loro “poco”, anche lei loro pochi fedeli, che non vogliono accettare il rischio, che magari hanno seppellito il talento sotto coltri di rituali sempre più vuoti e burocratiche discipline, e che non hanno il coraggio di obbedire fino in fondo il Signore che ci ha comandato di annunciare il Vangelo fino ai confini del mondo? A ogni costo e correndo ogni rischio?

lunedì 7 agosto 2023

“Prigionieri in casa nostra. Commento a Luca 10, 38-42” di Davide Romano

 

A chi piace il cinema? Sono sicuro a tutti. Che bello stare sul divano di casa o nel buio di una sala e lasciarsi trascinare in un altro tempo o in una struggente storia d’amore o magari farsi commuovere ed edificare da un film cristiano. Che bella magia il cinema. Io ne sono schiavo, fin da piccolo. Così ho questo problema: ogni volta che apro la Bibbia, per me comincia un film. Alle volte c’è anche la colonna sonora! Precipito nella pagina che sto leggendo.

A Cana penso di essermi sentito quasi ubriaco. E poi le cene e i pranzi. S’inizia con Cana, come sappiamo, e si finisce con l’Ultima Cena. Nel mezzo, ho mangiato a casa di Pietro, Levi, Simone, Zaccheo… Forse è anche per questo che ho preso qualche chilo. “È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”. (Matteo 11,19)

Oggi voglio invitarvi a vivere con me questa pagina del Vangelo di Luca in modo diverso. Proviamo a immaginarla tutti insieme. La scena è quella assai nota del pasto a casa di Marta e Maria a Betania. Facciamo apparire nella nostra mente,  quasi magicamente, la piccola città di Betania, da non confondersi con quella oltre il Giordano dove operava Giovanni il battezzatore, è una cittadina a pochi chilometri da Gerusalemme. Oggi ha cambiato nome ma esiste ancora. Nella Bibbia leggiamo di Betania anche nel Vangelo di Giovanni (11, 1-45), a proposito della resurrezione di Lazzaro, dell’unzione di Gesù ad opera di Maria (Giovanni 12, 1-11), ma anche in Matteo e, infine, sempre in Luca (24, 50) in occasione della sua ascensione al cielo.

La vedete con le sue case imbiancate dal sole sotto un cielo di cobalto? Vedete anche gli ulivi, che punteggiano il paesaggio, quasi carezzati e accompagnati dal vento nelle loro danze lente? In quella cittadina, quasi uguale a tante altre, vivevano tre amici di Gesù: Lazzaro, l’energica Marta (purtroppo spesso citata a sproposito in troppe predicazioni) e la mite Maria, probabilmente più giovane di lei.

Il Vangelo di Luca (10, 38), che è l’unico a riferire questo episodio, dice: “Mentre erano in cammino, Gesù entro in un villaggio e una donna, di nome Marta lo ricevette in casa sua”. Quindi le fece un’improvvisata. E possiamo supporre che non vi andò da solo ma insieme ai discepoli. Vi sono mai arrivati in casa all’improvviso degli ospiti? Povera Marta a correre da una stanza all’altra mentre sua sorella, Maria, rimaneva immobile ai piedi di Gesù ad ascoltarlo. Fra l’altro, anche nell’episodio della risurrezione di Lazzaro, narrato da Giovanni (11,20), Marta va incontro a Gesù mentre Maria rimane seduta in casa. Stava sempre seduta la ragazza. Scherzo!

A un certo punto sareste sbottati anche voi. Immaginatevi Marta con le braccia a teiera o con una zuppiera in una mano e un mestolo nell’altra che con la testa indica a Gesù sua sorella e gli urla: “Ma non le dici nulla? Non vedi che corro da una stanza all’altra e che lei mi ha lasciata sola?”. Il tutto in mezzo agli odori del cibo, al via vai dei servi, al brusio delle conversazioni, il vento che entra dalle finestre muovendo le tende e che porta in casa il profumo degli ulivi… Fermatevi un attimo a vedere la scena. Osservate tutti i personaggi. Ci sarà stato dell’imbarazzo, magari si saranno di colpo fermati per osservare Marta. Qualcuno avrà pure commentato l’accaduto a bassa voce coi suoi vicini. Riuscite a vedere Gesù che fissa Marta e le risponde? La risposta del Signore è nota, edificante. Discorso chiuso o forse no.

Quando ero bambino, mi piaceva costruirmi, con alcune sedie e con tutto quello che trovavo, scatole di cartone, piccoli mobili, uno spazio immaginario che rappresentava di volta in volta la mia casa, una fortezza o un castello. Uno spazio dentro il quale sentirmi protetto, sicuro. Uno spazio in cui inventare la mia vita di allora. Il problema è che spesso non sapevo poi come uscirne, allora chiamavo in soccorso mia madre. Lei arrivava, mi sorrideva e mi tirava fuori dal mio rifugio sicuro.

Ecco io penso che la pagina del Vangelo di oggi ci parli proprio di questo: dello spazio vitale che ci siamo costruiti nel tempo e dentro il quale rischiamo di rimanere intrappolati. Noi non possiamo più uscirne e nessuno riesce più a entravi.

Marta è imbrigliata dentro i suoi rituali, in se stessi buoni, ma che la distraggono rispetto a ciò che avviene persino nella sua casa o vita. E sembra che Gesù qui si faccia ospite per tirare fuori Marta dal disordine delle sue tante preoccupazioni che la portano lontana da se stessa e dalla sua interiorità, ma soprattutto dal Signore che, secondo lei, sta servendo.

La Bibbia ci dice una speranza di liberazione per tutti che, però, non può arrivare da noi stessi ma da un Altro che viene a visitarci in maniera inaspettata. L’ospite non atteso. Sorprendente.

Dio si fa ospite per portare una Parola. E questo brano evangelico ci mostra come Maria si ponga prontamente all’ascolto di questa parola che libera da seduta, in una posizione di accoglienza e quasi di resa, di obbedienza. Si mette in basso, ai piedi di Gesù. È pronta a ricevere la sua parola. Perché la parola di senso e di verità che Dio pronuncia nelle nostre vite, nelle forme più imprevedibili, chiede di essere ascoltata e pienamente accolta. Il più delle volte, invece, neppure ci accorgiamo di questa parola e forse neppure di questa presenza nelle nostre esistenze. 

Gesù è lì ma noi siamo impegnati a fare altro. Siamo troppo distratti, presi in cose che, come nel caso di Marta, sono senza dubbio buone. Marta sta servendo il Signore e anche noi talvolta nascondiamo la nostra chiusura alla sua parola dietro i nostri impegni spirituali. Forse, come Marta, c’è qualcosa che intuiamo ma che non vogliamo ascoltare. “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” ma non adesso. “Si faccia la tua volontà”, ma io ho un’idea migliore, Signore. Facciamo a modo mio! Ne parliamo un’altra volta.

E, per convincerci e convincere gli altri che siamo sulla giusta strada, la retta via, cerchiamo di far ricadere la colpa sugli altri: Marta vuole distrarsi servendo, ma non vuole prendersi questa responsabilità delle proprie scelte. E noi non agiamo nello stesso modo? Nervosi e insofferenti servitori del Signore.

Da Gesù ospite, giunto magari senza neppure avvertire, Marta si sarebbe aspettata parole diverse, parole di conferma, di riconoscimento per il suo impegno, di gratitudine. E, invece, il suo ospite improvviso e imprevedibile non sta al gioco. L’ospite è venuto a liberare Marta dai suoi rituali, dai suoi convincimenti, persino buoni, nei quali è rimasta imprigionata. Gesù risveglia Marta dalla sua incapacità ad accogliere la novità che è entrata nella sua casa e di cui lei non è più capace di accorgersi.

Possiamo fare tanto bene, come Marta, essere operosi e lodevoli servitori del Signore, ma diventare pure prigionieri del bene che facciamo. Dell’immagine inossidabile di noi stessi che ci costruiamo negli anni.

Marta è intrappolata dentro il labirinto del suo dovere e ciò l’ha resa inaccessibile, persino a Dio. Marta non lo ascolta più, non lo accoglie più davvero. S’illude di farlo ma in cuor suo sa che non è così.

Anche la vita di servizio più ammirevole può divenire una fortezza nella quale Dio e il nostro prossimo non possono più entrare. Un po’ come le fortezze che mi costruivo da piccolo dalle quali chiamavo mia madre a liberarmi.

John Lennon cantava: “La vita è quello che ti accade | mentre sei occupato a fare altri progetti”. Che oggi la Vita ci accada davvero! Che il Signore ci liberi dalle dorate prigioni che ci siamo costruiti, che inaspettato finalmente arrivi e che ci trovi pronti ad accoglierlo con le orecchie e il cuore aperti!

Amen!

 

“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

Nell'ampio spettro della convivenza umana, la diversità brilla come una gemma dai molteplici colori. Ogni individuo è unico nel suo insi...