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giovedì 11 gennaio 2024

Emarginazione. C’era una volta in America: «Così muore il sogno a stelle e strisce»

 



Il 12% degli abitanti degli Stati Uniti vive in stato di bisogno Il sociologo Desmond: «Per ogni dollaro speso nell’assistenza sociale, solo 22 centesimi vanno ai poveri»

Gli Stati Uniti sono la nazione più ricca al mondo. Gli Stati Uniti possono permettersi di eliminare la povertà dal suo territorio e sanno come farlo. Ma quasi il 12% della popolazione americana vive nel bisogno. Per 38 milioni di persone, cibo a sufficienza, acqua pulita, un’abitazione adeguata o vestiti puliti sono un lusso spesso inaccessibile.

Javier Marquez è uno di loro. Pulisce uffici in un grattacielo di San Diego nove ore al giorno, sei giorni alla settimana, e dorme in un furgone parcheggiato nella periferia della metropoli californiana. «Chi proviene da una famiglia privilegiata spesso non capisce che cosa vuol dire crescere in povertà — dice il 30enne —. È una battaglia che dura tutta la vita contro cattive condizioni di salute, poca istruzione, cibo scarso. È svegliarsi con una maglietta sporca e andare a letto affamati. Da quando avevo 14 anni lavoro sodo, ma per il 90% del tempo non sono stato in grado di soddisfare i miei bisogni».

Il paradosso tutto americano della lotta per la sopravvivenza in mezzo alla ricchezza non è radicato in misteriose alchimie economiche o incomprensibili cause sociali. Le sue ragioni sono state studiate e puntano tutte a una tesi tanto scomoda quanto evidente. Una larga fetta di americani vive nel bisogno perché al resto della popolazione conviene che sia così. L’ultimo a portarla a galla è Matthew Desmond, sociologo alla Princeton University e vincitore del Premio Pulitzer, che l’ha illustrata nel libro Poverty, by America, dove sottolinea non solo la responsabilità delle multinazionali e di Wall Street, ma anche di tutti gli americani che hanno raggiunto la sicurezza economica e, per mantenerla e goderne i benefici, approfittano dei connazionali che stentano a restare a galla.

«Alcune vite sono ridotte in modo che altre possano crescere», spiega Desmond a L’economia civile, indicando una nuova prospettiva: concentrarsi meno sui poveri e più sui comportamenti che radicano la povertà e sull’imperativo morale di non tollerare le privazioni. Desmond non ha del tutto scelto di occuparsi di disagio. Si è aggrappato al tema per dare un senso alla sua storia personale. Cresciuto in una famiglia dove i soldi erano pochi, ha visto i genitori perdere la casa e finire in una roulotte quando era all’università. «È stato un periodo di grande tumulto. All’università ho visto così tanti soldi. Ho iniziato a passare del tempo con i senzatetto, facendo amicizia. Mi ha aiutato a dare un senso alla mia confusione».

Sulle strade di Tempe, in Arizona, Desmond ha visto una povertà «e crudele», fatta di anziani senza riscaldamento che passano l’inverno sotto le coperte e bambini che vivono sui marciapiedi. E ha scoperto che molti luoghi comuni sono falsi. Il primo è che la povertà sia la conseguenza di dipendenze da droga o alcool: «Ho incontrato molti senzatetto che sono caduti nella dipendenza da oppiacei per anestetizzare il trauma di non avere una casa. Molti usano le metanfetamine perché vivere per strada fa paura. Ma la maggior parte delle persone sotto la soglia di povertà non fanno uso di droghe e non bevono. I ricchi bevono molto di più dei poveri».

Un altro pregiudizio che sfata è che i poveri stiano molto meglio oggi rispetto a 30 anni fa, perché spesso hanno un cellulare o un televisore. «Non puoi mangiare un telefono, non puoi scambiare un televisore per un salario dignitoso. Il costo dei prodotti di massa è diminuito, mentre elettricità e cibo sono aumentati del 115% dal 2000. Il calo del prezzo dei tostapane non è un progresso nella lotta alla povertà».

Negli Stati Uniti esistono programmi governativi per i meno abbienti, ma sono diminuiti radicalmente rispetto agli anni ’60, quando il welfare di Lyndon Johnson ha dimezzato la povertà in 10 anni. «Erano programmi ambiziosi che non hanno ridotto la crescita economica americana, anzi. Gli Stati Uniti possono sradicare la povertà senza andare sul lastrico», assicura Desmond. L’ultimo esempio è la pandemia. Per due anni l’Amministrazione Biden ha versato a tutte le famiglie della classe lavoratrice assegni fra i 3.000 e 3.600 dollari per figlio all’anno, che sono bastati a dimezzare la povertà infantile. Una soluzione alla povertà in America secondo il sociologo sono dunque i programmi pubblici di facile accesso. «Per ogni dollaro che spendiamo per l’assistenza solo 22 centesimi finiscono nelle tasche di una famiglia povera. Perché gli Stati hanno molta discrezione e spesso tengono i soldi da parte per le emergenze. Inoltre solo un americano su cinque che ha diritto ai buoni pasto li riceve davvero e uno su sei non chiede crediti fiscali. Perché sono difficili da ottenere, nascosti sotto strati di burocrazia».

L’altra soluzione è un lavoro dignitoso. In America la maggior parte delle persone che vivono in povertà lavora moltissime ore. Ashley Jones, ad esempio, ha 18 anni e ogni giorno passa 8 ore da McDonald’s e 8 in un’azienda di latta per vivere in un piccolo appartamento in Arizona con la madre e il fratello di nove anni. Non è un’eccezione. Una ricerca del Mit calcola che il salario di sussistenza per una famiglia di quattro persone è di 24,16 dollari l’ora, mentre il salario minimo federale è fissato a 7,25 dollari. Con quello stipendio, due genitori con due figli devono lavorare 98 ore alla settimana ciascuno per sopravvivere.

Non è sempre stato così. Negli anni ’60, un lavoratore Usa su tre era sindacalizzato. Ma nel corso degli anni il potere dei dipendenti è diminuito. «Questo è sfruttamento — accusa Desmond — dobbiamo chiamarlo con il suo nome. Decine di milioni di americani non sono poveri per condotta personale. La povertà persiste perché molti lo vogliono».

Per far cogliere l’urgenza morale del problema, il sociologo spesso al posto della parola «povertà» — troppo teorica, troppo generica — parla dei suoi effetti: morte, violenza, paura, fame, freddo, insicurezza. E indica i comportamenti che tutti possono cambiare per sradicarla. Il primo è dire no alla segregazione, a vivere in comunità benestanti che concentrano i servizi e creano sacche di povertà. «Dobbiamo andare alla riunione di urbanistica della nostra città e dire di no a regole che impediscano ai più poveri o ai neri di abitare nel nostro quartiere, che desideriamo maggiore integrazione». Un altro muro da abbattere è quello dell’istruzione, dando ai genitori la scelta di mandare i loro figli alla scuola che vogliono, non solo a quella di quartiere. «I ragazzi che frequentano scuole integrate e con maggiore diversità economica e razziale se la cavano molto meglio, tutti», dice Desmond, che spiega come la discriminazione del mercato del lavoro nei confronti dei neri non è cambiata in 30 anni. «La fine della povertà è un traguardo assolutamente raggiungibile per gli Stati Uniti, senza aumentare le tasse — conclude —. Se il 10% che guadagna di più pagasse le tasse che deve, senza sconti, potremmo raccogliere 175 miliardi di dollari in più all’anno: abbastanza per tirare fuori tutti dal bisogno. Ma per farlo, dobbiamo riconoscere che la povertà è un abominio e che ci trascina tutti verso il basso».

(Fonte: Avvenire.it)

sabato 9 settembre 2023

"Tassateci tutti! I super ricchi chiedono di pagare più tasse per salvare il pianeta" di Davide Romano


Gesù aveva proclamato: "Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione." Tuttavia, nel corso di questi circa duemila anni, sembra che questa ammonizione non abbia turbato più di tanto il sonno dei signori e padroni di questo mondo. Tuttavia, negli ultimi tempi, si è verificato un cambiamento sorprendente. I super ricchi che hanno chiesto di contribuire di più attraverso il pagamento di tasse per migliorare la qualità della vita globale e ridurre le disuguaglianze.

Nell'ultimo decennio, i miliardari del pianeta hanno assistito a un incredibile aumento dei loro patrimoni, passando da 5.600 a 11.800 miliardi di dollari. Tuttavia, a livello mondiale, solo una minima parte delle entrate fiscali proviene dalle imposte patrimoniali. Le regole attuali consentono addirittura a metà dei milionari del mondo di eludere l'imposta di successione, trasferendo una ricchezza di 5 mila miliardi di dollari ai propri eredi, esentasse.

Questa situazione di ingiustizia disarmante è ciò che ha ispirato un appello ai leader del G20, che si riuniranno in India in questi giorni. L'appello è stato sottoscritto da quasi 300 milionari, rinomati economisti e rappresentanti politici provenienti da quasi tutti i Paesi del G20 ed è stato promosso da organizzazioni come Oxfam, Patriotic Millionaires, Institute for Policy Studies, Earth 4 All e Millionaires for Humanity. Il nucleo centrale del messaggio è la richiesta urgente di raggiungere rapidamente un nuovo accordo internazionale sulla tassazione dei grandi patrimoni, con l'obiettivo di evitare che l'eccessiva concentrazione di ricchezza comprometta il nostro futuro comune.

Si afferma che tassando gli ultra-ricchi, si possono generare le risorse necessarie per affrontare le sfide globali. L'estrema concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi è vista come una minaccia economica per l'ambiente e i diritti umani, che può destabilizzare la stabilità politica a livello mondiale. Decenni di riduzione delle tasse per i più ricchi, basati sulla falsa promessa che il benessere di pochi si sarebbe diffuso a tutti, hanno contribuito ad aggravare le disuguaglianze, portandole a livelli allarmanti.

Si chiede quindi al G20 di agire immediatamente e di intervenire per aumentare le tasse sui ricchi, migliorando così l'equità dei sistemi fiscali e generando le risorse fondamentali per affrontare le enormi minacce globali che stiamo affrontando. Si evidenzia che, per la prima volta in decenni, la povertà estrema sta aumentando e che quasi due miliardi di persone vivono in Paesi in cui l'inflazione supera la crescita dei salari. Inoltre, il tempo per gli Stati di effettuare gli investimenti necessari per contenere l'aumento delle temperature entro 1,5 gradi Celsius, come previsto dall'Accordo di Parigi, si sta esaurendo rapidamente.

Gli appelli per l'azione sono supportati da proposte autorevoli e condivise, ma ora è richiesta la volontà politica per tradurle in azioni concrete. Un elenco impressionante di firmatari, tra cui anche alcuni ricchi italiani, sostiene questa causa e auspica che l'appello al G20 non cada nel vuoto. Si confida che questo possa stimolare azioni significative da parte dei governi per ridurre le disuguaglianze e generare risorse cruciali per affrontare sfide globali come la povertà crescente e il cambiamento climatico. I governi avranno questo coraggio? Lo vedremo fra poco.

“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

Nell'ampio spettro della convivenza umana, la diversità brilla come una gemma dai molteplici colori. Ogni individuo è unico nel suo insi...