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lunedì 8 aprile 2024

“Vivere filosoficamente” di Davide Romano, giornalista




Vivere filosoficamente significa adottare un approccio esistenziale alla vita basato sulla riflessione critica, la ricerca di significato e la pratica di virtù etiche. Piuttosto che limitarsi a esistere passivamente, vivere filosoficamente implica un impegno attivo nel comprendere se stessi, il mondo circostante e il significato dell'esistenza umana.

Chi vive filosoficamente tende a porre domande profonde su temi quali la natura della realtà, la conoscenza, l'etica, il senso della vita e il bene comune. Questa ricerca di conoscenza e saggezza non è solo un'esercitazione intellettuale, ma un percorso che guida le azioni quotidiane e le scelte morali.

Vivere filosoficamente richiede un costante esame di sé e del mondo, un'apertura alla diversità di pensiero e un impegno verso la coerenza tra le proprie convinzioni e il proprio comportamento. Implica anche un'attenzione particolare all'etica e alla giustizia sociale, poiché la filosofia non riguarda solo la ricerca della verità, ma anche il perseguimento del bene e della virtù.

Questo modo di vivere può manifestarsi in diverse forme, a seconda delle tradizioni filosofiche e delle convinzioni personali. Alcuni potrebbero trovare ispirazione nel pensiero di filosofi come Socrate, Epitteto o Kant, mentre altri potrebbero seguire tradizioni spirituali o etiche che incoraggiano una vita contemplativa e riflessiva.

In definitiva, vivere filosoficamente significa adottare un approccio consapevole e critico alla vita, cercando di vivere in armonia con i propri valori, di perseguire la saggezza e di contribuire al bene comune. È un impegno continuo verso la crescita personale e il miglioramento del mondo che ci circonda, attraverso la riflessione, l'azione e la compassione.


martedì 19 settembre 2023

Nuove inquisizioni, ma… politicamente corrette

La preparazione inadeguata con cui molti studenti si accostano agli studi umanistici, anche quando decidono di frequentare prestigiose istituzioni, ha condotto gradualmente le Università di Oxford e di Cambridge e alcune Università americane a reimpostare drasticamente i programmi, che prevedevano una conoscenza approfondita dei classici greci e latini. L’interesse crescente verso le culture extraeuropee e le minoranze in genere, considerate fortemente discriminate nella formazione scolastica e accademica, ha reso possibile, inoltre, l’attivazione di nuovi insegnamenti che hanno sostituito, in alcuni casi, corsi tradizionali.

A Yale, ad esempio, è stato interrotto il corso sull’arte rinascimentale, curato fino al 2017 dal grande storico dell’architettura Vincent Scully e successivamente dai suoi discepoli, perché reo di privilegiare autori bianchi e temi legati esclusivamente alla tradizione occidentale. Un simile destino, a Stanford, era già toccato a Platone, Aristotele, ma anche a Shakespeare e al nostro Dante, per non parlare di Omero, tutti accusati di razzismo e di sessismo, capi d’accusa sufficienti per escluderli dal nuovo Pantheon che gli ideologi del politicamente corretto stanno edificando. Alla Columbia, chi si accosti allo studio delle Metamorfosi di Ovidio dovrà prendere visione di un trigger warning, una sorta di avvertimento che mette in guardia nei confronti delle “insidie” presenti nel testo. La Paideia che ha formato intere generazioni risulterebbe, alla luce di queste considerazioni, profondamente segnata da un colonialismo culturale, da cui bisognerebbe prendere le distanze. Il giurista di Harvard Alan Dershowitz, inimicandosi l’Intellighenzia liberal da cui proviene, ha definito “Cultura della cancellazione” (Cancel Culture) questa tendenza a condannare senza appello opere come l’IliadeMoby Dick o Le avventure di Huckleberry Finn. Tutto ciò ha prodotto un nuovo codice (speech code), una sorta di neolingua orwelliana, in grado di riscrivere la storia in funzione dei paradigmi che il fondamentalismo del politicamente corretto pretende di imporre.

La tendenza a privilegiare il multiculturalismo sta in realtà tracciando dei confini entro cui gruppi di diversa natura rivendicano la difesa della propria identità, sottraendosi al confronto. In molte Università americane, infatti, vengono predisposte cerimonie di laurea ad hoc per le diverse comunità etniche, sociali, sessuali. Gli esiti divisivi di queste scelte sono evidenti, come è evidente che, in una società complessa e fortemente diversificata, creare ghetti significa alimentare conflitti.

Il concetto di cittadinanza universale costituisce, secondo Martha Nussbaum, il nucleo dell’educazione umanistica liberale, che il pensiero moderno, da Hume a Smith, da Kant a Paine, ha ereditato in modo critico dai classici. Vivere in una dimensione cosmopolitica significa, per la filosofa americana, accogliere questa eredità e “partecipare allo scambio aperto delle argomentazioni critiche relativamente alle scelte etiche e politiche, rispettando tutti i punti di vista”. Marco Aurelio, l’Imperatore filosofo, riteneva che, per diventare cittadini del mondo, non era necessario accumulare conoscenze, commenta Nussbaum, ma coltivare la capacità simpatetica, al fine di comprendere gli altri. Nussbaum sostiene che, quando ci accostiamo alle civiltà distanti dalla nostra, incorriamo spesso in «errori normativi», identificabili con lo sciovinismo, l’arcadianesimo e lo scetticismo. L’approccio sciovinista tende a prendere le distanze da ciò che si contrappone alla tradizione occidentale, l’arcadianesimo apprezza proprio ciò che da questa tradizione si allontana, lo scetticismo si limita a prendere atto delle differenze in modo avalutativo. Per Nussbaum il confronto non può limitarsi al piano cognitivo, ma deve essere finalizzato a definire criteri morali condivisi.

Tali riflessioni assumono particolare rilievo nella dimensione globale del mondo contemporaneo, in cui il cosmopolitismo stoico o la Phronesis aristotelica non possono essere sbrigativamente considerati formule eurocentriche. Nell’ambito del multiculturalismo la tendenza a enfatizzare i particolarismi etnici è decisamente più marcata rispetto alla volontà di definire principi generali, accusati spesso di essere insensibili alle differenze. Queste considerazioni chiamano in causa il rapporto fra tolleranza, pluralismo e multiculturalismo. Secondo Giovanni Sartori, il pluralismo interculturale, diversamente dal multiculturalismo, che radicalizza le differenze, afferma che “la diversità e il dissenso sono valori che arricchiscono l’individuo e anche la sua città politica”, stimolando il confronto.

Se il multiculturalismo difende sacri recinti, il modello interculturale favorisce lo scambio e considera le varie appartenenze una libera scelta, non una naturale declinazione comunitaria. All’interno di una società pluralista, con forti diseguaglianze, il conflitto politico può fare emergere identità collettive che rivendicano un riconoscimento, ma anche aspirazioni di singoli, che vogliono affrancarsi dal gruppo. Solo entro una dimensione dialogica il contrasto fra queste due esigenze può agevolare la crescita di una cittadinanza critica.

I fondamentalisti, come tutti i fanatici, pensano alla maniera degli agelasti di Rabelais, terrorizzati dall’ironia e soprattutto dal riso, che può far vacillare le loro granitiche certezze. In una sua celebre Lectio su Il Romanzo e l’Europa, in occasione dell’assegnazione del Premio Gerusalemme, nel 1985, Milan Kundera evidenziava la funzione sovranazionale dell’Europa, intesa “non come territorio, ma come cultura”. Dopo aver citato un proverbio ebraico che dice: “L’uomo pensa, Dio ride”,  il suo pensiero si rivolgeva all’autore di Gargantua e Pantagruel, che incarna, a suo avviso, lo spirito universalistico dell’umanesimo europeo. Rabelais, scrive, detestava gli agelasti (coloro che non ridono). Gli facevano paura, perché, non avendo mai udito la risata di Dio sulle “verità” umane, erano convinti che la verità fosse evidente, che tutti gli uomini dovessero pensare la stessa cosa e che loro stessi fossero esattamente ciò che pensavano di essere.

I sommi sacerdoti del politicamente corretto, dimenticano che, come scriveva Benedetto Croce, “La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice; e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita, e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento”. Certi, come gli agelasti di Rabelais, di possedere la verità, si rapportano così alla storia come censori, incapaci di elaborare i percorsi complessi, e talora tortuosi, attraverso cui la libertà si è affermata nel corso del tempo.

Estendere la prospettiva della Paideia verso orizzonti più ampi, al di là del mondo classico, che ha rappresentato per lungo tempo l’asse portante nei processi formativi, significa arricchire questi stessi processi, che risulterebbero però compromessi se la classicità venisse sottoposta a una giustizia sommaria. Le accuse che vengono rivolte agli antichi potrebbero riguardare la natura umana nel suo complesso, dal momento che la tendenza ad assolutizzare una posizione, che l’Umanesimo si propone di superare, si è manifestata negli individui, nelle civiltà e nelle diverse forme dell’ideologia, come dimostra ampiamente proprio il furore iconoclasta della Cancel Culture.

Alla condanna acritica e ideologica della classicità bisogna contrapporre la capacità di storicizzarne il messaggio, cogliendo quanto ha ancora da rivelarci. Una società globale non può archiviare, come eurocentrica, la concezione di Humanitas, che da Socrate a Marco Aurelio, da Menandro a Terenzio, ha segnato la nostra cultura, ma deve assumersi il compito di realizzare, nel presente, la sua dimensione universale, garantendo libertà di espressione a ogni voce che non pretenda di essere l’unica.

 

 

Testi citati

M.C.Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo e l’educazione contemporanea, trad. it., Carocci, Roma, 1999.

G.Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano, 2000.

M.Kundera, Il romanzo e l’Europa, trad. it. in L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988.

B.Croce,  Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1920.


(Elio Cappuccio, https://www.einaudiblog.it/nuove-inquisizioni-mapoliticamente-corrette/)

 

 

giovedì 14 settembre 2023

“Querere Deum. Come lo studio della filosofia può contribuire alla ricerca di Dio e della verità” di Davide Romano

Nella ricerca di Dio e della verità, lo studio della filosofia può emergere come un alleato prezioso. La filosofia, pur non essendo una disciplina religiosa, offre uno spazio di riflessione profonda che può arricchire la nostra spiritualità e guidarci nella ricerca di Dio.

Un ambito in cui la filosofia si dimostra particolarmente influente è la riflessione sulla natura stessa di Dio. In questo contesto, filosofi come San Tommaso d'Aquino hanno elaborato argomenti razionali per dimostrare l'esistenza di Dio. Attraverso la logica e l'analisi critica, cercano di gettare luce sulla natura di un essere supremo. Anche se queste argomentazioni possono non essere definitive, forniscono una base razionale su cui costruire una fede solida.

Ma la filosofia non si limita all'argomentazione per l'esistenza di Dio. Esplora anche le implicazioni etiche della religione. Gli studiosi filosofi si sono concentrati sulla costruzione di un quadro etico coerente con le credenze religiose. Questo processo può aiutare i credenti a rispondere a domande morali complesse e ad affrontare situazioni etiche sfidanti alla luce delle loro fedi.

La relazione tra fede e ragione è un'altra area in cui la filosofia offre un contributo significativo. Molti credenti cercano di trovare un equilibrio tra la loro fede religiosa e il pensiero razionale. La filosofia può aiutare a esplorare questa connessione, affrontando questioni come la teodicea, cioè il problema del male e della sofferenza nel mondo. Questi interrogativi spinosi richiedono un approccio critico e la filosofia offre gli strumenti per farlo.

Un aspetto importante dello studio filosofico è l'analisi dei concetti religiosi. La filosofia analitica, in particolare, mira a chiarire i concetti e a stabilire definizioni precise. Questo può essere estremamente utile nel contesto religioso, dove termini come "Dio", "fede" e "verità" possono essere soggetti a interpretazioni diverse. Una comprensione chiara dei concetti può aiutare i credenti a esprimere e comprendere meglio le proprie convinzioni.

Tuttavia, la filosofia non è solo un esercizio intellettuale. Promuove anche un approccio critico alla vita e alle credenze. Questo è prezioso nella ricerca di Dio e della verità poiché incoraggia le persone a esaminare attentamente le proprie convinzioni, a porre domande difficili e a cercare risposte fondate su basi solide. La capacità di pensare criticamente è essenziale per affrontare le sfide spirituali e filosofiche che la ricerca della verità può presentare.

Inoltre, lo studio della filosofia favorisce il dialogo interreligioso e interculturale. Aiuta a comprendere le diverse prospettive religiose e filosofiche e a stabilire un terreno comune per il dialogo e la cooperazione tra individui di diverse fedi e tradizioni culturali.

Infine, la filosofia sviluppa la mente critica e il pensiero analitico, competenze che possono essere applicate in molti aspetti della vita. Queste abilità contribuiscono alla crescita personale e possono essere preziose nella ricerca di Dio e della verità.

Lo studio della filosofia, insomma, offre una prospettiva unica e preziosa nella ricerca di Dio e della verità. Fornisce strumenti concettuali, un approccio critico e una base razionale su cui costruire una fede solida e una comprensione più profonda della spiritualità. La filosofia invita i credenti a esplorare le domande più profonde della vita con mente aperta e cuore sincero.


“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

Nell'ampio spettro della convivenza umana, la diversità brilla come una gemma dai molteplici colori. Ogni individuo è unico nel suo insi...