sabato 20 gennaio 2024

Giornata della memoria, “Incontrare Anne Frank oggi” è il tema del confronto che il giornalista Davide Romano avrà con gli alunni dell’istituto Marcellino Corradini di Palermo



“Incontrare Anne Frank oggi” è il tema del confronto, organizzato in occasione della Giornata della Memoria, che il giornalista Davide Romano avrà con gli alunni dell’istituto Marcellino Corradini, gestito dalle suore Collegine della Sacra Famiglia, a Palermo.

 

“Una vita breve e preziosa quella di Anne Frank – spiega suor Anna Oliveri, vicaria generale della congregazione e dirigente scolastico dell’istituto – che vogliamo ricordare attualizzandola nel confronto con gli alunni della nostra scuola. Anche quest’anno, infatti, non sfugge alla scuola Marcellino Corradini l’appuntamento con la Shoah. È un evento troppo grande ed importante perché venga dimenticato o sottovalutato. Quest’anno anche la Shoah verrà illuminata dal tema progettuale: ‘La memoria di ciò che siamo libera melodie inaspettate’”.

 

E continua: “Il protagonista di the Giver, Jonas, trova, per certi versi, il suo alter ego femminile, da cui ovviamente differisce per una serie di ragioni. La storia di Anne Frank è realmente accaduta. Ella consegna a chi si avvicina con apertura e con stupore i ricordi di una vita che sogna un futuro migliore, ricco di valori: in primis il rispetto dell’altro e l'accoglienza della diversità. Il suo background è connotato dalla sopraffazione e dalla violenza. Tuttavia tra le mura del nascondiglio di famiglia si dispiega la sua crescita, la sua adolescenza”.

 

“Quest’anno – conclude la religiosa - il giornalista Davide Romano aiuterà i nostri alunni della secondaria di primo grado a cogliere come Anne Frank possa aiutarli a vivere la loro giovinezza trasformando ogni difficoltà in opportunità di crescita. Un grazie speciale a Romano per la sua disponibilità a condividere le sue riflessioni con i nostri ragazzi. È un tassello molto prezioso che si aggiunge alla formazione umana, culturale e spirituale dei nostri alunni”.


giovedì 11 gennaio 2024

Emarginazione. C’era una volta in America: «Così muore il sogno a stelle e strisce»

 



Il 12% degli abitanti degli Stati Uniti vive in stato di bisogno Il sociologo Desmond: «Per ogni dollaro speso nell’assistenza sociale, solo 22 centesimi vanno ai poveri»

Gli Stati Uniti sono la nazione più ricca al mondo. Gli Stati Uniti possono permettersi di eliminare la povertà dal suo territorio e sanno come farlo. Ma quasi il 12% della popolazione americana vive nel bisogno. Per 38 milioni di persone, cibo a sufficienza, acqua pulita, un’abitazione adeguata o vestiti puliti sono un lusso spesso inaccessibile.

Javier Marquez è uno di loro. Pulisce uffici in un grattacielo di San Diego nove ore al giorno, sei giorni alla settimana, e dorme in un furgone parcheggiato nella periferia della metropoli californiana. «Chi proviene da una famiglia privilegiata spesso non capisce che cosa vuol dire crescere in povertà — dice il 30enne —. È una battaglia che dura tutta la vita contro cattive condizioni di salute, poca istruzione, cibo scarso. È svegliarsi con una maglietta sporca e andare a letto affamati. Da quando avevo 14 anni lavoro sodo, ma per il 90% del tempo non sono stato in grado di soddisfare i miei bisogni».

Il paradosso tutto americano della lotta per la sopravvivenza in mezzo alla ricchezza non è radicato in misteriose alchimie economiche o incomprensibili cause sociali. Le sue ragioni sono state studiate e puntano tutte a una tesi tanto scomoda quanto evidente. Una larga fetta di americani vive nel bisogno perché al resto della popolazione conviene che sia così. L’ultimo a portarla a galla è Matthew Desmond, sociologo alla Princeton University e vincitore del Premio Pulitzer, che l’ha illustrata nel libro Poverty, by America, dove sottolinea non solo la responsabilità delle multinazionali e di Wall Street, ma anche di tutti gli americani che hanno raggiunto la sicurezza economica e, per mantenerla e goderne i benefici, approfittano dei connazionali che stentano a restare a galla.

«Alcune vite sono ridotte in modo che altre possano crescere», spiega Desmond a L’economia civile, indicando una nuova prospettiva: concentrarsi meno sui poveri e più sui comportamenti che radicano la povertà e sull’imperativo morale di non tollerare le privazioni. Desmond non ha del tutto scelto di occuparsi di disagio. Si è aggrappato al tema per dare un senso alla sua storia personale. Cresciuto in una famiglia dove i soldi erano pochi, ha visto i genitori perdere la casa e finire in una roulotte quando era all’università. «È stato un periodo di grande tumulto. All’università ho visto così tanti soldi. Ho iniziato a passare del tempo con i senzatetto, facendo amicizia. Mi ha aiutato a dare un senso alla mia confusione».

Sulle strade di Tempe, in Arizona, Desmond ha visto una povertà «e crudele», fatta di anziani senza riscaldamento che passano l’inverno sotto le coperte e bambini che vivono sui marciapiedi. E ha scoperto che molti luoghi comuni sono falsi. Il primo è che la povertà sia la conseguenza di dipendenze da droga o alcool: «Ho incontrato molti senzatetto che sono caduti nella dipendenza da oppiacei per anestetizzare il trauma di non avere una casa. Molti usano le metanfetamine perché vivere per strada fa paura. Ma la maggior parte delle persone sotto la soglia di povertà non fanno uso di droghe e non bevono. I ricchi bevono molto di più dei poveri».

Un altro pregiudizio che sfata è che i poveri stiano molto meglio oggi rispetto a 30 anni fa, perché spesso hanno un cellulare o un televisore. «Non puoi mangiare un telefono, non puoi scambiare un televisore per un salario dignitoso. Il costo dei prodotti di massa è diminuito, mentre elettricità e cibo sono aumentati del 115% dal 2000. Il calo del prezzo dei tostapane non è un progresso nella lotta alla povertà».

Negli Stati Uniti esistono programmi governativi per i meno abbienti, ma sono diminuiti radicalmente rispetto agli anni ’60, quando il welfare di Lyndon Johnson ha dimezzato la povertà in 10 anni. «Erano programmi ambiziosi che non hanno ridotto la crescita economica americana, anzi. Gli Stati Uniti possono sradicare la povertà senza andare sul lastrico», assicura Desmond. L’ultimo esempio è la pandemia. Per due anni l’Amministrazione Biden ha versato a tutte le famiglie della classe lavoratrice assegni fra i 3.000 e 3.600 dollari per figlio all’anno, che sono bastati a dimezzare la povertà infantile. Una soluzione alla povertà in America secondo il sociologo sono dunque i programmi pubblici di facile accesso. «Per ogni dollaro che spendiamo per l’assistenza solo 22 centesimi finiscono nelle tasche di una famiglia povera. Perché gli Stati hanno molta discrezione e spesso tengono i soldi da parte per le emergenze. Inoltre solo un americano su cinque che ha diritto ai buoni pasto li riceve davvero e uno su sei non chiede crediti fiscali. Perché sono difficili da ottenere, nascosti sotto strati di burocrazia».

L’altra soluzione è un lavoro dignitoso. In America la maggior parte delle persone che vivono in povertà lavora moltissime ore. Ashley Jones, ad esempio, ha 18 anni e ogni giorno passa 8 ore da McDonald’s e 8 in un’azienda di latta per vivere in un piccolo appartamento in Arizona con la madre e il fratello di nove anni. Non è un’eccezione. Una ricerca del Mit calcola che il salario di sussistenza per una famiglia di quattro persone è di 24,16 dollari l’ora, mentre il salario minimo federale è fissato a 7,25 dollari. Con quello stipendio, due genitori con due figli devono lavorare 98 ore alla settimana ciascuno per sopravvivere.

Non è sempre stato così. Negli anni ’60, un lavoratore Usa su tre era sindacalizzato. Ma nel corso degli anni il potere dei dipendenti è diminuito. «Questo è sfruttamento — accusa Desmond — dobbiamo chiamarlo con il suo nome. Decine di milioni di americani non sono poveri per condotta personale. La povertà persiste perché molti lo vogliono».

Per far cogliere l’urgenza morale del problema, il sociologo spesso al posto della parola «povertà» — troppo teorica, troppo generica — parla dei suoi effetti: morte, violenza, paura, fame, freddo, insicurezza. E indica i comportamenti che tutti possono cambiare per sradicarla. Il primo è dire no alla segregazione, a vivere in comunità benestanti che concentrano i servizi e creano sacche di povertà. «Dobbiamo andare alla riunione di urbanistica della nostra città e dire di no a regole che impediscano ai più poveri o ai neri di abitare nel nostro quartiere, che desideriamo maggiore integrazione». Un altro muro da abbattere è quello dell’istruzione, dando ai genitori la scelta di mandare i loro figli alla scuola che vogliono, non solo a quella di quartiere. «I ragazzi che frequentano scuole integrate e con maggiore diversità economica e razziale se la cavano molto meglio, tutti», dice Desmond, che spiega come la discriminazione del mercato del lavoro nei confronti dei neri non è cambiata in 30 anni. «La fine della povertà è un traguardo assolutamente raggiungibile per gli Stati Uniti, senza aumentare le tasse — conclude —. Se il 10% che guadagna di più pagasse le tasse che deve, senza sconti, potremmo raccogliere 175 miliardi di dollari in più all’anno: abbastanza per tirare fuori tutti dal bisogno. Ma per farlo, dobbiamo riconoscere che la povertà è un abominio e che ci trascina tutti verso il basso».

(Fonte: Avvenire.it)

Roma 25-27 gennaio, la Chiesa Luterana Confessionale d’Italia organizza il convegno “Roma e la giustificazione”








Una tre giorni intensa di studio, riflessione e discussione, ma anche di preghiera, dal titolo “Roma e la giustificazione”, è quella che organizza la Chiesa Luterana Confessionale d’Italia, a Roma. Mentre i lavori del convegno si svolgeranno, a partire dal pomeriggio del 25 gennaio fino al pomeriggio del 27, presso i locali della Chiesa Evangelica Breccia di Roma, sita in via di sant’Eufemia 9, i culti si terranno, invece, presso il tempio della Chiesa Evangelica Battista di via Teatro valle 27.

“Questo convegno teologico – spiega il pastore luterano Tyler McMiller, organizzatore dell’evento – ha lo scopo di presentare compiutamente la dottrina luterana della giustificazione  biblicamente fondata nelle sue varie declinazioni. Le relazioni saranno o in italiano o in inglese con traduzione in italiano. Per collegarsi mediante ZOOM, si può scrivere un’e-mail a me (tyler.mcmiller@lcms.org). L’evento sarà anche trasmesso mediante la nostra pagina Facebook ‘Chiesa Luterana Confessionale d’Italia’ (https://www.facebook.com/luteranaConfessionale)  e  caricato sul nostro canale Youtube (https://www.youtube.com/@revtylermcmiller1614)”.

La Chiesa Luterana Confessionale d’Italia (CLCI) è una missione della Chiesa Luterana del Sinodo Missouri (LCMS) degli Stati Uniti che ha come scopo quello di diffondere il messaggio evangelico secondo la più autentica dottrina luterana. Pur essendo presente solo da pochi anni nel nostro Paese, sta già riscontrando un notevole interesse.

La missione è stata affidata al pastore Tyler McMiller che abita a Roma, con la sua famiglia, dove cura una parrocchia di lingua italiana nel centro storico della città (il culto è ogni sabato alle 17).

Pur essendovi soltanto un pastore per tutta la penisola, tre uomini (Joshua Salas, Lorenzo Murrone e Luiz Lange) stanno attualmente studiando per diventare ministri di culto (due a Roma, uno a Padova) attraverso un seminario online con base a Riga, in Lettonia, chiamato Luther Academy. Altri candidati al pastorato sono attualmente in una fase di discernimento vocazionale.

Per condividere il Vangelo con una comunità così diffusa sul territorio, il pastore McMiller, che ha alle spalle una lunga esperienza missionaria in America Latina, condivide ogni domenica mattina una trasmissione online di una funzione di preghiera e uno studio biblico.

Inoltre, viaggia per tutta la Penisola, con missioni a Padova, Piacenza, Firenze, Roma e Salerno, per amministrare l’eucaristia. Mediante il sito web, ancora non del tutto operativo, www.luteranaconfessionale.it  lavora per distribuire i testi classici del luteranesimo in Italiano.

Per info si può contattare il pastore Tyler McMiller: tyler.mcmiller@lcms.org; cell. +39 3463270882


L'addetto stampa, 

Davide Romano

venerdì 5 gennaio 2024

“La nobile arte e il sogno di una vita diversa” di Davide Romano

 


Gaetano ha solo otto anni, dei pantaloncini blu sdruciti, una canottierina a coste che un giorno, forse non lontano, fu bianca e indossa un paio di guantoni rossi, troppo grandi, che gli arrivano quasi ai gomiti, ma picchia duro contro il sacco di sabbia.

Sogna di diventare un pugile famoso, uno di quelli che guadagnano «un mare di soldi», che hanno le foto sui giornali e abitano in grandi case colorate con il prato intorno. Così potrebbe aiutare sua madre che fatica tutto il giorno per una paga da fame. Gaetano si allena ogni giorno per un'ora, dopo aver finito i compiti, in una piccola palestra in quartiere popolare, come tanti, in una città del Sud, ma non è il solo. Con lui altri venti ragazzi, fra i dieci e i diciotto anni, ogni pomeriggio s'incontrano per boxare, imparare quella che una volta si chiamava «la nobile arte» e sognare una vita diversa in un quartiere in cui la povertà più che essere una condizione è spesso una malattia ereditaria, che si tramanda di generazione in generazione.

Ad allenarli c'è Salvatore, capelli brizzolati, un po' stempiato, una passione forte per il pugilato e la sua gente, che lo ha spinto a mettere da parte per anni i soldi degli straordinari e a tirar su dal nulla, qualche anno fa, una palestra, nella canonica di una delle infinite chiese abbandonate che affollano il centro storico della sua città, con ring regolamentare, pesi e sacchi di sabbia.

«La boxe è come le donne – dice Salvatore –, o ci s'innamora a prima vista o niente, non ci sono vie di mezzo. Sono entrato per la prima volta in una palestra a tredici anni per accompagnare un amico più grande – racconta – e da allora non ne sono più uscito. A quattordici anni e mezzo ho fatto il primo incontro e non mi ricordo più neanche se l'ho vinto o perso, quanto tempo e passato, – sorride – erano gli anni Settanta del secolo scorso e c'era la fame. Io lavoravo di giorno e la sera mi allenavo, quando dovevo combattere mi davo malato, per questo motivo sono stato anche licenziato due volte. Talvolta – continua – tornavo al lavoro ammaccato e dovevo inventare un sacco di scuse per giustificare i lividi».

Poi son venuti il matrimonio, i figli e la necessità di non rischiare il posto di lavoro. Salvatore è costretto ad appendere i guantoni al chiodo, ma continua ad allenarsi ogni sera, organizzare piccoli tornei e frequentare l'ambiente.

Un giorno un amico, che gestisce una palestra in un piccolo centro della provincia, gli chiede se gli va di dargli una mano ad allenare qualche ragazzo che promette bene, accetta. Comincia quella che lui stesso chiama la «fase due» della sua vita sportiva. «Ho scoperto – dice – che questo modo di vivere la boxe mi piaceva di più. Allenare un adolescente, infatti, e anche in un certo senso educarlo, accompagnarlo in un tratto di strada che è o è stato, in fondo, il più difficile per tutti. E in questo senso – continua –, la boxe e una scuola straordinaria perché t'insegna ad autodisciplinarti, a controllare la tua aggressività, ad imparare a studiare chi hai di fronte per indovinare le sue mosse. Insomma, ti sveglia».

Un pomeriggio, poi, mentre torna a casa dal lavoro, si ferma ad osservare due ragazzini che mimavano a fare i pugili, non si scambiano pugni, stanno immobili l'uno di fronte all'altro e cercano di anticipare, parandosi con le braccia, i colpi del compagno.

«Una tecnica quasi perfetta – ricorda –, quei due erano dei veri boxeurs. Il campione, infatti, non mira a far male all'avversario, ma a dimostrargli con l'agilità dei movimenti la sua superiorità. Ho pensato: peccato che nessuno si accorgerà mai di questi due, magari potrebbero anche sfondare. Non ci ho dormito la notte. La mattina dopo – conclude –, avevo già deciso, cercai un locale e misi su una vera palestra tutta per loro, per levarli dalla strada, per non fargli venire strane tentazioni e per invogliarli e, per favorire le famiglie, non ho mai chiesto un euro. Qualche volta mi chiedono se sono credente, per me credere significa semplicemente questo: insegnare a questi ragazzi quello che possono diventare, persone migliori».

Adesso Salvatore ogni pomeriggio, alle cinque, scende da casa e va ad aprire il locale della vecchia canonica dove s'insegna la «nobile arte», dietro di lui una torma di ragazzini spinge e si precipita dentro a sognare di essere Rocky Balboa che non ha paura di nessuno, neppure dei mafiosi, sconfigge i malvagi e abita in una grande casa colorata con il prato intorno. E chissà che un giorno la favola per qualcuno non si avveri.


“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

Nell'ampio spettro della convivenza umana, la diversità brilla come una gemma dai molteplici colori. Ogni individuo è unico nel suo insi...