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venerdì 13 settembre 2024

“L’ultimo guardiano della verità (o quasi). Il giornalista tra vocazione e realtà” di Davide Romano

 


“Il giornalismo è stampa scritta in fretta, ma pensata per sempre”, diceva Arthur Miller. Mi piacerebbe davvero tanto che fosse così. La realtà però, caro Miller, oggi è che lo scriviamo in fretta, lo leggiamo ancora più in fretta e ci dimentichiamo di averlo letto prima di finire il caffè. Nel mare tumultuoso della società contemporanea, il giornalista dovrebbe essere l'ultimo baluardo della verità, ma ahimè, finisce più spesso come il primo a essere sbattuto fuori dalla porta della redazione quando arrivano gli sponsor.

Non è un mestiere per deboli di cuore, questo no. George Orwell lo aveva capito benissimo: “In un'epoca di inganni universali, dire la verità è un atto rivoluzionario”. E in effetti, dire la verità è quasi diventato uno sport estremo, con il giornalista che si trasforma in un moderno funambolo, camminando su una corda tesa fra l’idealismo e la bancarotta personale.

La stampa viene ancora definita il "quarto potere", ma a ben vedere, oggi pare più il "quarto debito". La crisi economica e la necessità di ingraziarsi questo o quel potente hanno trasformato molti giornalisti in autori di bollettini aziendali o, peggio, di manifesti elettorali camuffati. Ma Indro Montanelli ci aveva avvertiti: "Il giornalista non deve mai essere di sinistra, di destra o di centro. Deve solo essere dalla parte dei fatti". Parole dure e chiare come il suo sigaro. Eppure, oggi il giornalista sembra essere un povero cronista intrappolato in un castello di carte in rovina, costretto a servire troppe cause, tranne quella della verità.

Albert Camus, dal canto suo, vedeva nel giornalismo una missione etica: “Una stampa libera può, ovviamente, essere buona o cattiva, ma senza libertà, la stampa non sarà mai altro che cattiva”. Una verità scomoda, che però fa sbadigliare più di qualcuno, soprattutto nelle sale di redazione, dove le preoccupazioni ruotano più attorno ai click che ai contenuti. La libertà di stampa? Beh, quella la trovi ancora, ma nei vecchi archivi polverosi. O, se proprio va bene, nei libri di storia.

Nonostante tutto, qualcuno ancora resiste. Ci sono quelli come Anna Politkovskaja, che hanno pagato il prezzo più alto per difendere il diritto di raccontare la verità. Loro ci ricordano che il giornalista dovrebbe essere un eroe tragico, e invece spesso si ritrova a interpretare il ruolo dell'eroe comico, cercando di salvare il salvabile tra una telefonata del capo e l'ennesima richiesta del marketing.

Ah, la dignità del mestiere! Ciò che Hannah Arendt definiva come la "sfera pubblica", quel luogo sacro in cui l'informazione dovrebbe essere corretta, verificata, accessibile a tutti. Oggi, quella sfera è stata trasformata in un palloncino pubblicitario, gonfiato di falsità e pronto a scoppiare al primo contatto con la realtà. Ma il vero giornalista? Lui resiste. O almeno ci prova, finché qualcuno non gli fa notare che la verità non paga l'affitto.

Eppure, non dobbiamo cadere nel cinismo. Gabriel García Márquez amava dire che “il giornalismo è il miglior lavoro del mondo”. Certo, Gabriel, ma prova a dirlo a chi si ritrova a scrivere pezzi su come perdere peso in dieci giorni perché è il contenuto che "funziona meglio online". Il giornalista dovrebbe essere un costruttore di storie, un interprete di quel caos che chiamiamo realtà. Ma oggi, è più probabile che venga trasformato in un compilatore di liste o in un commentatore di meme.

Ryszard Kapuściński ammoniva: “Per essere un buon giornalista, devi essere una brava persona”. Verissimo, ma oggi la lista dei requisiti include anche: saper usare i social media, conoscere almeno un algoritmo, e soprattutto avere un contratto a tempo indeterminato. Cosa? Il contratto? Ah, scusate, quello era un sogno.

Il giornalismo dovrebbe essere una vocazione, come diceva Honoré de Balzac, una "grande catapulta preparata per andare più lontano". Eppure oggi sembra una fionda malandata, tesa tra la necessità di sopravvivere e la speranza di raccontare, ogni tanto, qualcosa che abbia un briciolo di verità.

E allora, come ci ricorda Joseph Pulitzer, “un giornalista è colui che può vedere nel buio”. Sì, certo, e con un po' di fortuna, potrà anche pagare la bolletta della luce.

 


venerdì 6 settembre 2024

“Era la stampa, bellezza! Il giornalismo di un tempo fra nostalgia e rimpianti” di Davide Romano, giornalista

 



C’è una nostalgia che mi perseguita, come una vecchia canzone che non riesco a togliere dalla testa. È la nostalgia per il giornalismo di una volta, quello che oggi sembra diventato un’arte perduta, come la lavorazione del legno a mano o la calligrafia. Parlo di un giornalismo fatto di fatica, di nottate passate alla macchina da scrivere, di articoli battuti con dita consumate e di sigari toscani ridotti in cenere accanto alla Olivetti Lettera 32. Un giornalismo in cui, come diceva Enzo Biagi, "le parole erano pietre," e dietro ogni articolo c’era una vita spesa a cercare la verità, o perlomeno una sua versione accettabile.

Non mi fraintendete, non voglio fare il vecchio nostalgico che rimpiange i bei tempi andati solo perché erano i suoi. Ma c’è una differenza sostanziale tra il giornalismo di oggi e quello di ieri, e non è solo una questione di tecnologia. È una questione di spirito, di approccio al mestiere, di rispetto per le parole e per chi quelle parole le avrebbe lette.

Ricordo i tempi in cui un giornalista si guadagnava il pane con le scarpe consumate, non con i tweet. Bisognava andare, vedere, ascoltare, prendere appunti su un taccuino stropicciato, e poi passare ore a scegliere le parole giuste, quelle che avrebbero reso giustizia ai fatti e alle persone coinvolte. Non c’erano scorciatoie. Se volevi raccontare una storia, dovevi conoscerla fino in fondo, dovevi viverla quasi sulla tua pelle. Come scriveva Oriana Fallaci, "il giornalismo è una missione. È un mestiere che ti fa bruciare, che ti fa soffrire, ma che non ti lascia mai".

E poi c’era la responsabilità. Già, perché un giornalista sapeva che le sue parole avevano un peso. Potevano fare male, scatenare reazioni, cambiare le sorti di una carriera, di una vita, persino di un Paese. Come ammoniva Luigi Barzini: "La penna è più forte della spada, ma richiede un polso fermo e una mente chiara". Ogni parola veniva soppesata come si fa con l’oro, mentre oggi le parole volano leggere, spesso senza alcun riguardo per la verità o per le conseguenze che potrebbero avere.

Non c’è più quella cura maniacale per la verifica dei fatti, per il controllo delle fonti. Nel giornalismo di una volta, la notizia non era solo una merce da vendere al miglior offerente. Era un impegno morale, un patto con i lettori. Come diceva Indro Montanelli, "il giornalismo è fare domande. È cercare la verità, e dirla, anche quando fa male". E se si sbagliava, si pagava caro l’errore, perché la credibilità era tutto. Oggi, al contrario, l’errore sembra essere diventato la norma, e se si scopre di aver sbagliato, poco importa: domani ci sarà un’altra notizia a coprire tutto.

Ecco, questo è ciò che mi manca del giornalismo di una volta: il rispetto per la verità, per i fatti, per le persone. C’era una sorta di nobiltà in quel lavoro, un senso di missione che andava al di là del semplice mestiere. Oggi, invece, vedo troppi giornalisti che sembrano più preoccupati di ottenere clic che di raccontare il mondo per quello che è. Si corre dietro all’ultima moda, all’ultimo trend, inseguendo le storie più facili, quelle che fanno rumore senza fare domande scomode. Ma il vero giornalismo non è fatto di rumore, è fatto di silenzio, di riflessione, di domande e di dubbi.

E poi c’era quella cosa chiamata stile. Oggi, leggendo certi articoli, ho l’impressione che il mestiere del giornalista si sia ridotto a una sterile elencazione di fatti e opinioni, senza quel tocco personale che faceva la differenza. Un tempo, ogni giornalista aveva la sua voce, il suo modo di raccontare le cose. Come diceva Eugenio Scalfari, "lo stile è l’uomo" e in quelle righe c’era un’anima. Oggi, invece, troppo spesso le notizie sembrano uscite da un algoritmo, tutte uguali, tutte piatte, tutte senza vita.

Non voglio dire che tutto il giornalismo di oggi sia da buttare. Ci sono ancora, per fortuna, giornalisti che sanno fare il loro mestiere, che sanno raccontare le storie come si deve. Ma sono sempre più rari, sempre più isolati in un mare di superficialità e approssimazione.

E allora, forse, è giusto ricordare quei tempi andati non per mera nostalgia, ma per ritrovare quello spirito, quella passione, quella dedizione che facevano del giornalismo un mestiere nobile. Perché, come diceva Montanelli, "il giornalismo è il diario della storia" e di quel giornalismo, oggi più che mai, abbiamo bisogno come dell’aria.

 

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...