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lunedì 9 settembre 2024

"Elogio del raccomandato. L'Italiano modello" di Davide Romano, giornalista




C'è una figura, sovente ignorata ma onnipresente, che incarna meglio di qualunque altra l’essenza dell’italiano medio. Un personaggio che non conosce crisi, che si muove con destrezza nel mare torbido della burocrazia, sfuggendo alle secche del merito come un abile navigante. È il raccomandato, l’italiano modello. Colui che è sempre al posto giusto, anche quando non lo merita. Anzi, soprattutto quando non lo merita.

Si potrebbe dire che il raccomandato sia l’incarnazione perfetta di una certa filosofia tutta nostrana, che Aristotele avrebbe chiamato “ars opportunitatis”, l’arte dell’opportunismo. Un'arte che, a dispetto di ogni crisi economica o morale, sembra prosperare senza soluzione di continuità. “La felicità è l’essenza stessa dell’opportunità colta al volo”, avrebbe potuto dire qualcuno come Diogene, se fosse vissuto in un'Italia moderna, tra concorsi pubblici truccati e posti in prima fila per gli amici degli amici.

E non illudiamoci: la storia del raccomandato non è recente. Già nell’Italia medievale, con le sue fazioni e i suoi feudi, il raccomandato trovava il proprio posto grazie al signore di turno, colui che “poteva”. Da allora, la raccomandazione ha solo cambiato abito, indossando ora la veste della “segnalazione” – termine elegante e neutro, quasi tecnico. Ma la sostanza rimane: “Non conta cosa sai, conta chi conosci”.

Nel giornalismo italiano, la figura del raccomandato è altrettanto evidente. Basti pensare a certi conduttori e opinionisti televisivi, arrivati in prima serata non tanto per le proprie capacità, quanto per i legami con potenti cordate politiche o economiche. Prendiamo, ad esempio, figure che, magicamente, passano dalle retrovie delle redazioni alle poltrone di direttori, grazie a una telefonata giusta al momento giusto. Senza fare nomi, ma con un pizzico di malizia, ci si potrebbe interrogare su quanti abbiano scalato i vertici di Rai, Mediaset o i principali quotidiani senza mai scrivere un articolo di rilievo o senza aver mai dimostrato vera competenza sul campo.

In fondo, come diceva Ennio Flaiano, “in Italia i raccomandati non hanno bisogno di essere intelligenti, devono solo essere amici di chi conta”. E questa regola vale tanto nelle redazioni quanto nelle università, nelle grandi aziende, persino nelle istituzioni culturali. Non si spiegherebbe altrimenti la longevità di certi giornalisti, che, pur essendo privi di idee nuove, rimangono saldamente ancorati alle proprie poltrone.

Giuseppe Prezzolini, nel suo acuto “Codice della vita italiana”, scriveva: “In Italia il merito non ha merito”. E come dargli torto? Il merito è un’utopia per romantici e illusi. Il raccomandato, invece, è un realista. Lui sa come funziona il mondo, sa che il talento, l’intelligenza e la preparazione sono ornamenti superflui in un sistema che premia la fedeltà a un patrono, piuttosto che l’intraprendenza individuale.

Il peccato della raccomandazione è uno di quelli che nessuno confessa, ma che tutti conoscono. “Nessuno vuole ammettere di essere un raccomandato, ma tutti lo sono stati almeno una volta”, osservava con cinismo Umberto Eco. La raccomandazione è come il peccato originale: invisibile, ma sempre presente, pronta a emergere nei momenti cruciali della vita professionale. Il giornalismo non è esente da questo peccato, e forse è proprio qui che il meccanismo appare più evidente. La segnalazione di un amico influente, una raccomandazione sussurrata in un orecchio durante una cena mondana, e il gioco è fatto. Si apre una porta che per altri rimarrà chiusa a doppia mandata.

San Tommaso d'Aquino, parlando dei peccati, affermava che “ci sono colpe che vengono esposte, altre che rimangono nell’ombra e divorano l’anima”. E la raccomandazione appartiene alla seconda categoria. Non si vede, non si discute, ma lentamente corrode l’essenza stessa della meritocrazia. Perché il problema non è solo che il raccomandato occupi una posizione che non gli spetta, ma che lo faccia a discapito di chi quella posizione avrebbe potuto davvero meritarsela.

Tommaso d’Aquino, forse il più grande dei teologi, ci insegna che “la Grazia eleva la natura”. Ma per il raccomandato italiano, è la raccomandazione a elevare l’individuo. La Grazia divina ha ceduto il posto alla grazia del potente, e ogni ufficio pubblico diventa una sorta di cattedrale dove il beneplacito di un assessore vale più di ogni laurea o esperienza sul campo.

Per Indro Montanelli, il raccomandato era “l’italiano che non cambia mai, l’uomo che sa aspettare che il vento giri a suo favore senza muovere un dito.” Un uomo, insomma, che incarna quella “furbizia” che abbiamo imparato a considerare una dote, piuttosto che un vizio. E come ogni furbizia, porta con sé la sua giustificazione morale: perché faticare, quando c’è un percorso più semplice? Perché cercare l’approvazione del mondo, quando basta un cenno del capocordata?

Papa Francesco ha parlato più volte del “peccato della raccomandazione”, definendola “una forma di corruzione che svilisce la dignità del lavoro e avvelena il tessuto sociale”. In uno dei suoi discorsi più diretti, ha affermato che “la raccomandazione è una forma subdola di ingiustizia, perché tradisce la fiducia di chi si affida al merito e alla giustizia”. Il pontefice, come altri leader morali, ha cercato di scuotere le coscienze, ma la realtà è che la raccomandazione continua a prosperare, immune alle denunce, perché si muove nell'ombra.

E allora, a che serve continuare a lamentarsi? Forse dobbiamo accettare che il raccomandato sia semplicemente il vincitore in questo gioco crudele chiamato Italia. “Non è l’uomo che deve cambiare il sistema, ma il sistema che cambia l’uomo”, direbbe Simone Weil, ricordandoci quanto sia sottile il confine tra sopravvivenza e servilismo.

In fondo, il raccomandato ci insegna qualcosa di molto semplice: l'Italia non è un paese per i migliori, ma per i più furbi.

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