lunedì 25 settembre 2023

Vaticano, Lettera di Papa Francesco al giornalista Davide Romano

 

Affettuosa e incoraggiante lettera di Papa Francesco al giornalista Davide Romano, fondatore della comunità ecumenica di volontariato “La Compagnia del Vangelo”, con l’invito a incontrarlo nel corso di una udienza generale.

“Il Santo Padre Francesco – scrive, tra le altre cose, uno stretto collaboratore del Pontefice –” loda “il suo percorso di fede personale e l’apprezzata attività di volontariato da Lei svolta”.

E aggiunge: “Sua Santità assicura il ricordo orante e, mentre ringrazia per il generoso servizio svolto a favore dei poveri e degli emarginati, manifestando loro il volto compassionevole di Gesù, invia volentieri il Suo benedicente saluto, che volentieri estende alle persone vicine e a quanti amorevolmente assiste”.

In merito poi all’incontro, il collaboratore del vescovo di Roma gli suggerisce, indicando la data, di partecipare a un udienza generale nel corso del quale poter incontrare Papa Francesco.

 


“Il Vangelo secondo Tolstoj” di Davide Romano


 

“Io credo in Dio, che è per me lo Spirito, l’Amore, il Principio di tutte le cose. Io credo che egli è in me come io sono in lui. Io credo che la volontà di Dio non sia mai stata espressa più chiaramente che nella dottrina di Cristo; ma non si può considerare Cristo come Dio e rivolgergli delle preghiere senza commettere il più grande dei sacrilegi. Io credo che la vera felicità dell’uomo consista nel compimento della volontà di Dio”. Scriveva così Lev Tolstoj, nell’aprile del 1901, in un’epistola in cui chiariva la propria concezione della dottrina cristiana e la natura della propria fede, alla luce delle idee maturate nella sua lunga indagine teologica sui dogmi e le prescrizioni della Chiesa. Appena un paio di mesi prima, durante il Sinodo tenutosi nel febbraio 1901, la Chiesa Ortodossa Russa aveva emesso nei suoi confronti solenne sentenza di scomunica. Il suo trentennale, appassionato studio delle Sacre Scritture – alla ricerca di un punto di vista univoco e autentico nella comprensione della parola evangelica – lo aveva condotto verso una posizione di critica perentoria nei confronti delle gerarchie religiose e delle pratiche liturgiche, e si concludeva con una altrettanto perentoria e irrevocabile sentenza di rottura da parte delle istituzioni ecclesiastiche.

Il tracciato umano, prima ancora che intellettuale, del glorioso scrittore russo è segnato, a un dato momento della sua vita, da un periodo di profondo smarrimento. Negli anni Settanta del suo secolo, intorno ai 45 anni, una lacerante crisi interiore lo coinvolse e sconvolse, come scintilla fece brillare una carica esplosiva che spazzò via il muro di nichilismo e di pessimismo - che l’appassionata lettura dell’opera di Schopenhauer aveva alimentato - che derivava dal frustrante tentativo di giungere a Dio attraverso la ragione, la filosofia, la teologia: “L’uomo impiega la sua ragione per chiedersi: a che scopo, perché? A proposito della sua propria vita e di quella dell’universo. E la ragione stessa gli dice che non c’è risposta. (...) Che significa tutto ciò? Significa che la ragione non è stata fornita all’uomo per rispondere a questa domanda”. Nasceva adesso in lui la consapevolezza che ogni uomo, l’umanità intera, potesse vivere solamente in virtù della fede, e che il tentativo di affidare la propria vita al solo lume della ragione conducesse inesorabilmente alla disperazione. Trentacinque anni vissuti da nichilista, come lui stesso scrive nelle sue memorie, sfociarono all’improvviso in una rinnovata fede in Cristo. 

Nei suoi scritti autobiografici, Tolstoj racconta la sua evoluzione spirituale, il suo travagliato percorso di riavvicinamento alla religione, che lo portò a riguadagnare il valore positivo e profondo del messaggio cristiano, e trasformò profondamente la sua esistenza e la sua visione del mondo. Tutti i valori in cui credeva furono invertiti e sovvertiti, letteralmente scambiati di posto: “Cessai di volere quello che volevo prima e incominciai a volere quello che prima non volevo. Quello che prima mi sembrava buono mi apparve cattivo e quello che prima mi sembrava cattivo mi apparve buono”3. Nella fede bisognava cercare il senso vero dell’esistenza, il segreto di una felicità che appariva finalmente raggiungibile a chi avesse trovato il coraggio e la forza di liberarsi delle regole imposte dalla società e seguire con fiducia gli insegnamenti di Gesù. 

La società era quella ingloriosa della Russia ottocentesca, che innalzava l’intera struttura sociale sulla diseguaglianza e sull’ingiustizia, e in cui la ricchezza delle classi dirigenti gravava interamente sulle spalle degli umili lavoratori. In questa realtà, il conte Lev Nikolàevic Tolstoj, membro della privilegiata nobiltà, decise di rinunciare agli agi della propria condizione e iniziare a vivere come i contadini mujiks, indossando le loro stesse vesti, privandosi della servitù e liberandosi persino delle suppellettili che corredavano la sua abitazione. Stravaganze, forse, che testimoniano tuttavia la grandezza di un uomo di commovente e lungimirante sensibilità, che seppe rinunciare ai privilegi e denunciare un’ingiustizia sociale di cui non fu mai vittima. Stravaganze che furono forse alla base di quel filone di critica che vuol vedere in Tolstoj un anarchico o un sobillatore, o che finirà con l’individuare in lui il teorico ante litteram dell’ateismo sovietico. In realtà, quello che animava Tolstoj era un sentimento religioso che ebbe più che altro la natura di un assunto etico, che si fondava sul principio cristiano della rinuncia a sé e dell’amore verso gli altri; è dunque in tale ottica che bisogna leggere la sua bizzarra, commovente fuga dalla ricchezza e dalla gloria terrena. Il tormentato scrittore russo trovò nel messaggio cristiano una risposta, un sentiero tracciato, una via da seguire. 

La sua intima crisi spirituale finì con l’assumere il respiro dell’universalità, poiché diede vita a una riflessione filosofica di portata immensa che, lungi dall’aprirsi al misticismo, si caricò invece di una forza etica, pragmatica, antropologica, ponendo al centro dell’attenzione la questione esistenziale, la domanda eterna dell’uomo riguardo al senso della vita. L ’esegesi tolstojana dei Vangeli racchiudeva in sé un valore umanistico autentico, poiché fu condotta nel tentativo di individuare un significato, di fornire una risposta alla questione etico-pragmatica del “come vivere?”, indicando come unica via quella del compimento del bene, della rinuncia a se stessi e dell’amore incondizionato verso il prossimo. Le semplici parole di Cristo rappresentano per Tolstoj l’orizzonte luminoso, il messaggio liberatorio e universale che indica a tutti la strada da seguire per trovare il senso della vita e per raggiungere la felicità.

L’esigenza di superare la frammentarietà delle interpretazioni teologiche fu dunque all’origine dell’intenso lavoro di rilettura-riscrittura dei quattro Vangeli che Tolstoj iniziava e portava a termine nell’arco di due anni, fra il 1880 e il 1881, proprio allo scadere del decennio cruciale degli anni Settanta. Ne veniva fuori l’Unificazione e traduzione dei quattro Vangeli, cui seguiva alcuni anni dopo la pubblicazione di un compendio divulgativo, la Breve esposizione dell’Evangelo. L ’idea centrale dell’insegnamento evangelico è rappresentata, nella concezione tolstojana, dal Discorso della montagna, in cui Gesù pronuncia il grandioso messaggio delle beatitudini. Avviene così la genesi della Vita di Gesù proposta in questa pubblicazione. 

La natura umana del Cristo tolstojano balza in primo piano; ma l’accento è posto sulla parola di Gesù, sulla semplicità del suo messaggio, sulla naturalezza con cui egli indica la via verso il bene, con cui cerca di orientare l’umanità, smarrita nella ricerca di un significato. Le parole di Cristo costituiscono la base anche del secondo scritto, La felicità, ma in una forma che è più quella di una piccola prosa filosofica, in cui la valenza etica dell’insegnamento cristiano viene esplicitata fino a diventare un modello comportamentale: in tal senso, forse, può apparire evidente la straordinaria attualità, o meglio, l’immortalità del messaggio religioso, così come ci viene consegnato dall’impareggiabile scrittore russo.

 

Il libro: Lev Nikolàevi Tolstoj, “Vita di Gesù e altri scritti”, Prefazione e cura di Davide Romano, Edizioni EL, pp. 64, euro 12,00

 


giovedì 21 settembre 2023

“Il martire dell'eresia: Fra Dolcino, il predicatore millenarista” di Davide Romano

 

Prato Sesia, 1250 circa - Vercelli, 1º giugno 1307. Queste date segnano la vita di Fra Dolcino, noto anche come Dolcino da Novara, uno dei personaggi più enigmatici e controversi del Medioevo italiano. Fu il fondatore e il capo del movimento dei dolciniani, un gruppo di seguaci devoti attratti dalle sue prediche millenariste. La sua storia è avvolta da un alone di mistero, in quanto le fonti storiche disponibili sono scarse e spesso di parte avversa al suo movimento eretico.

Le origini di Dolcino sono oscure, ma si suppone che sia nato a Prato Sesia, nell'alto Novarese, intorno al 1250. Alcune fonti suggeriscono che il suo vero nome fosse Davide Tornielli e che potesse essere il figlio illegittimo di un prete, forse il parroco di Prato Sesia.

La sua carriera religiosa ebbe inizio quando si unì al movimento degli Apostoli, guidato da Gherardo Segarelli, intorno al 1291. Gli Apostoli erano noti per la loro vita ascetica, basata sulla povertà e l'obbedienza alle Scritture. Questo movimento era in contrasto con la Chiesa cattolica e venne condannato da papa Onorio IV nel 1286. Segarelli stesso fu giustiziato sul rogo nel 1300.

Dolcino abbracciò la dottrina degli Apostoli e iniziò a predicare, principalmente nella zona del lago di Garda e poi nei dintorni di Trento. Durante i suoi spostamenti, conobbe una giovane donna di nome Margherita Boninsegna, che divenne la sua compagna e lo aiutò nella predicazione.

La sua predicazione si distinse per il suo fervente millenarismo, la credenza che il mondo stesse per entrare in un'era di rinnovamento spirituale e che la Chiesa cattolica fosse corrotta e destinata a cadere. Dolcino profetizzava anche la fine imminente del papato di Bonifacio VIII.

Le sue prediche carismatiche attirarono molti seguaci, e sotto la sua guida, il movimento dei dolciniani cresceva rapidamente. Questo aumento di popolarità suscitò la preoccupazione della Chiesa cattolica, che vedeva in Dolcino una minaccia alla sua autorità.

Nel 1306, il vescovo di Vercelli, Raniero degli Avogadro, proclamò una crociata contro i dolciniani con il beneplacito del papa Clemente V. Le truppe cattoliche attaccarono il rifugio dei dolciniani, situato sul Monte Rubello sopra Trivero, nel Biellese. Dopo un lungo assedio, i dolciniani vennero sconfitti.

Dolcino fu catturato e processato a Vercelli. Durante il processo, rifiutò di pentirsi e proclamò che sarebbe risorto il terzo giorno se venisse ucciso. Fu condannato a morte e sottoposto a torture brutali prima di essere arso vivo di fronte alla Basilica di Sant'Andrea.

Margherita Boninsegna e Longino, un altro seguace di Dolcino, subirono la stessa sorte, venendo arsi vivi sulle rive del torrente Cervo, vicino a Biella. L'eroica resistenza di Dolcino di fronte alle torture e la sua proclamazione di resurrezione lo resero un'icona di resistenza per alcuni, mentre per altri fu un eretico pericoloso.

La figura di Dolcino ha lasciato un'impronta duratura nella storia dell'eresia e del pensiero religioso nel Medioevo. La sua predicazione millenarista anticipò alcune delle idee che sarebbero emerse durante la Riforma protestante, e la sua resistenza di fronte alla persecuzione lo rese un simbolo di opposizione alla Chiesa cattolica dell'epoca.

Ancora oggi, la sua storia è oggetto di studio e dibattito tra gli storici e rappresenta un capitolo affascinante e controverso nella storia del cristianesimo medievale.

“Giordano Bruno, il diritto di pensare (liberamente) in un’epoca di nuovi conformismi” di Davide Romano

“La libertà di pensiero è più forte della tracotanza del potere”. Ogni potere tende a difendere se stesso colpendo chiunque non si conformi ai dogmi del tempo. Dogmi che lo stesso potere continuamente crea e consacra. Giordano Bruno, filosofo e teologo eretico del XVI secolo, potrebbe sembrare un personaggio lontano nel tempo, ma la sua eredità come libero pensatore rimane sorprendentemente attuale e rilevante nel mondo moderno. La sua vita e le sue idee costituiscono un richiamo alla necessità di difendere la libertà di pensiero e l'apertura intellettuale anche oggi.

Bruno, nato a Nola nel 1548, è diventato noto per le sue opinioni eretiche che lo hanno portato al rogo il 17 febbraio del 1600. La sua eresia non era solo teologica, ma anche scientifica e filosofica. Ha sostenuto che l'universo fosse infinito, con molte stelle simili al nostro sole e, quindi, potenziali abitanti. Queste idee erano in netto contrasto con il dogma geocentrico accettato dalla Chiesa cattolica dell'epoca. Il suo coraggio nel sostenere queste opinioni è ben riflesso in una delle sue affermazioni più famose: "Nessun Dio che ama la verità può condannare una mente umana che cerca la verità".

La vicenda di Bruno mette in luce la lotta per la libertà di pensiero. Oggi, in un mondo in cui le informazioni sono facilmente accessibili, ma in cui si fa strada un nuovo conformismo sempre più intollerante, è fondamentale ricordare il valore di esprimere idee divergenti. Bruno ha pagato un prezzo terribile per le sue convinzioni, ma la sua determinazione nel difendere la sua visione del mondo è un monito per noi tutti. In merito a ciò, ha scritto: "Io non affatico il mio cervello per trovare risposte corrette, ma per liberare la mente dagli errori".

Le idee di Bruno anticiparono molte delle scoperte scientifiche successive. La sua teoria dell'universo infinito, ad esempio, prefigurò la moderna cosmologia e la scoperta di esopianeti. Questo ci ricorda l'importanza di non chiudere la porta a nuove idee, anche se sembrano eretiche in un primo momento. Bruno sosteneva: "Ogni scienza ha una filosofia e ogni filosofia una scienza". Questa connessione tra scienza e filosofia è ancora di grande rilevanza, poiché la riflessione filosofica continua a ispirare la ricerca scientifica e ad aiutarci a comprendere il significato delle scoperte.

In un'epoca in cui la libertà di pensiero e l'apertura intellettuale sono fondamentali per il progresso della società, Giordano Bruno rimane un maestro da riscoprire in continuazione. La sua eredità ci ricorda che il coraggio di andare controcorrente, la difesa della libertà di pensiero e la ricerca della verità sono valori che rimangono cruciali nella nostra società. Continuare a celebrare la vita e le idee di Giordano Bruno significa onorare la lotta per il libero pensiero e l'importanza di non accettare il pensiero convenzionale senza un esame critico. In conclusione, come affermò Bruno stesso: "Non c'è scienza che non abbia inizio dal sapere che c'è molta più verità da cercare, e che un solo sapere ci guida a cercarne altre".

 


martedì 19 settembre 2023

Nuove inquisizioni, ma… politicamente corrette

La preparazione inadeguata con cui molti studenti si accostano agli studi umanistici, anche quando decidono di frequentare prestigiose istituzioni, ha condotto gradualmente le Università di Oxford e di Cambridge e alcune Università americane a reimpostare drasticamente i programmi, che prevedevano una conoscenza approfondita dei classici greci e latini. L’interesse crescente verso le culture extraeuropee e le minoranze in genere, considerate fortemente discriminate nella formazione scolastica e accademica, ha reso possibile, inoltre, l’attivazione di nuovi insegnamenti che hanno sostituito, in alcuni casi, corsi tradizionali.

A Yale, ad esempio, è stato interrotto il corso sull’arte rinascimentale, curato fino al 2017 dal grande storico dell’architettura Vincent Scully e successivamente dai suoi discepoli, perché reo di privilegiare autori bianchi e temi legati esclusivamente alla tradizione occidentale. Un simile destino, a Stanford, era già toccato a Platone, Aristotele, ma anche a Shakespeare e al nostro Dante, per non parlare di Omero, tutti accusati di razzismo e di sessismo, capi d’accusa sufficienti per escluderli dal nuovo Pantheon che gli ideologi del politicamente corretto stanno edificando. Alla Columbia, chi si accosti allo studio delle Metamorfosi di Ovidio dovrà prendere visione di un trigger warning, una sorta di avvertimento che mette in guardia nei confronti delle “insidie” presenti nel testo. La Paideia che ha formato intere generazioni risulterebbe, alla luce di queste considerazioni, profondamente segnata da un colonialismo culturale, da cui bisognerebbe prendere le distanze. Il giurista di Harvard Alan Dershowitz, inimicandosi l’Intellighenzia liberal da cui proviene, ha definito “Cultura della cancellazione” (Cancel Culture) questa tendenza a condannare senza appello opere come l’IliadeMoby Dick o Le avventure di Huckleberry Finn. Tutto ciò ha prodotto un nuovo codice (speech code), una sorta di neolingua orwelliana, in grado di riscrivere la storia in funzione dei paradigmi che il fondamentalismo del politicamente corretto pretende di imporre.

La tendenza a privilegiare il multiculturalismo sta in realtà tracciando dei confini entro cui gruppi di diversa natura rivendicano la difesa della propria identità, sottraendosi al confronto. In molte Università americane, infatti, vengono predisposte cerimonie di laurea ad hoc per le diverse comunità etniche, sociali, sessuali. Gli esiti divisivi di queste scelte sono evidenti, come è evidente che, in una società complessa e fortemente diversificata, creare ghetti significa alimentare conflitti.

Il concetto di cittadinanza universale costituisce, secondo Martha Nussbaum, il nucleo dell’educazione umanistica liberale, che il pensiero moderno, da Hume a Smith, da Kant a Paine, ha ereditato in modo critico dai classici. Vivere in una dimensione cosmopolitica significa, per la filosofa americana, accogliere questa eredità e “partecipare allo scambio aperto delle argomentazioni critiche relativamente alle scelte etiche e politiche, rispettando tutti i punti di vista”. Marco Aurelio, l’Imperatore filosofo, riteneva che, per diventare cittadini del mondo, non era necessario accumulare conoscenze, commenta Nussbaum, ma coltivare la capacità simpatetica, al fine di comprendere gli altri. Nussbaum sostiene che, quando ci accostiamo alle civiltà distanti dalla nostra, incorriamo spesso in «errori normativi», identificabili con lo sciovinismo, l’arcadianesimo e lo scetticismo. L’approccio sciovinista tende a prendere le distanze da ciò che si contrappone alla tradizione occidentale, l’arcadianesimo apprezza proprio ciò che da questa tradizione si allontana, lo scetticismo si limita a prendere atto delle differenze in modo avalutativo. Per Nussbaum il confronto non può limitarsi al piano cognitivo, ma deve essere finalizzato a definire criteri morali condivisi.

Tali riflessioni assumono particolare rilievo nella dimensione globale del mondo contemporaneo, in cui il cosmopolitismo stoico o la Phronesis aristotelica non possono essere sbrigativamente considerati formule eurocentriche. Nell’ambito del multiculturalismo la tendenza a enfatizzare i particolarismi etnici è decisamente più marcata rispetto alla volontà di definire principi generali, accusati spesso di essere insensibili alle differenze. Queste considerazioni chiamano in causa il rapporto fra tolleranza, pluralismo e multiculturalismo. Secondo Giovanni Sartori, il pluralismo interculturale, diversamente dal multiculturalismo, che radicalizza le differenze, afferma che “la diversità e il dissenso sono valori che arricchiscono l’individuo e anche la sua città politica”, stimolando il confronto.

Se il multiculturalismo difende sacri recinti, il modello interculturale favorisce lo scambio e considera le varie appartenenze una libera scelta, non una naturale declinazione comunitaria. All’interno di una società pluralista, con forti diseguaglianze, il conflitto politico può fare emergere identità collettive che rivendicano un riconoscimento, ma anche aspirazioni di singoli, che vogliono affrancarsi dal gruppo. Solo entro una dimensione dialogica il contrasto fra queste due esigenze può agevolare la crescita di una cittadinanza critica.

I fondamentalisti, come tutti i fanatici, pensano alla maniera degli agelasti di Rabelais, terrorizzati dall’ironia e soprattutto dal riso, che può far vacillare le loro granitiche certezze. In una sua celebre Lectio su Il Romanzo e l’Europa, in occasione dell’assegnazione del Premio Gerusalemme, nel 1985, Milan Kundera evidenziava la funzione sovranazionale dell’Europa, intesa “non come territorio, ma come cultura”. Dopo aver citato un proverbio ebraico che dice: “L’uomo pensa, Dio ride”,  il suo pensiero si rivolgeva all’autore di Gargantua e Pantagruel, che incarna, a suo avviso, lo spirito universalistico dell’umanesimo europeo. Rabelais, scrive, detestava gli agelasti (coloro che non ridono). Gli facevano paura, perché, non avendo mai udito la risata di Dio sulle “verità” umane, erano convinti che la verità fosse evidente, che tutti gli uomini dovessero pensare la stessa cosa e che loro stessi fossero esattamente ciò che pensavano di essere.

I sommi sacerdoti del politicamente corretto, dimenticano che, come scriveva Benedetto Croce, “La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice; e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita, e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento”. Certi, come gli agelasti di Rabelais, di possedere la verità, si rapportano così alla storia come censori, incapaci di elaborare i percorsi complessi, e talora tortuosi, attraverso cui la libertà si è affermata nel corso del tempo.

Estendere la prospettiva della Paideia verso orizzonti più ampi, al di là del mondo classico, che ha rappresentato per lungo tempo l’asse portante nei processi formativi, significa arricchire questi stessi processi, che risulterebbero però compromessi se la classicità venisse sottoposta a una giustizia sommaria. Le accuse che vengono rivolte agli antichi potrebbero riguardare la natura umana nel suo complesso, dal momento che la tendenza ad assolutizzare una posizione, che l’Umanesimo si propone di superare, si è manifestata negli individui, nelle civiltà e nelle diverse forme dell’ideologia, come dimostra ampiamente proprio il furore iconoclasta della Cancel Culture.

Alla condanna acritica e ideologica della classicità bisogna contrapporre la capacità di storicizzarne il messaggio, cogliendo quanto ha ancora da rivelarci. Una società globale non può archiviare, come eurocentrica, la concezione di Humanitas, che da Socrate a Marco Aurelio, da Menandro a Terenzio, ha segnato la nostra cultura, ma deve assumersi il compito di realizzare, nel presente, la sua dimensione universale, garantendo libertà di espressione a ogni voce che non pretenda di essere l’unica.

 

 

Testi citati

M.C.Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo e l’educazione contemporanea, trad. it., Carocci, Roma, 1999.

G.Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano, 2000.

M.Kundera, Il romanzo e l’Europa, trad. it. in L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988.

B.Croce,  Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1920.


(Elio Cappuccio, https://www.einaudiblog.it/nuove-inquisizioni-mapoliticamente-corrette/)

 

 

Storia. L’Inquisizione tra verità e ideologia: gli studi di Adriano Prosperi



Una istituzione da sempre al centro di grandi contestazioni e dibattiti, che spesso però sono stati alimentati da fuoco ideologico: lo dimostrano anche gli studi di Adriano Prosperi, ora in volume 

La storia del cristianesimo è anche la storia di un paradosso. Nato da un fondatore che, a leggere i Vangeli, era un sovversivo sistematico e intenzionale dell’ordine costituito, un contestatore di leggi religiose per fare entrare le persone in un “Regno” dove l’unica legge fosse la libertà dello Spirito, dopo qualche secolo si è trasformato in un sistema religioso che ha ricreato ortodossie, persecuzioni dei dissidenti, lacci e laccioli teologici più severi di quelli degli scribi e dei farisei contro i quali Gesù si scagliava con grande forza durante la sua vita. È forse l’inevitabile sorte dei carismi che si trasformano in istituzioni: all’inizio le prime strutture e regole nascono per servire il carisma, poi, nel tempo, ne prendono il posto fino a sostituirlo completamente se una continua ‘distruzione creatrice’ non fa rinascere il carisma sulla morte delle sue istituzioni. 

Ecco perché il modo più proficuo e corretto di leggere i rimproveri che Gesù rivolgeva alle autorità religiose del suo tempo è pensarli come rivolte oggi alle istituzioni che il cristianesimo ha generato e genera: e così che il vangelo continua a liberarci, ogni giorno. L’Inquisizione è una istituzione da sempre al centro di grandi contestazioni e dibattiti, spesso animati e alimentati da fuoco ideologico. Adriano Prosperi, Accademico dei Lincei, ha dedicato all’inquisizione, agli eretici moderni e alla confessione auricolare una buona parte della sua lunga ricerca, che ha avuto nel saggio I tribunali della coscienza (1996) una tappa fondamentale. 

Il libro fu accolto da vivaci reazioni, dentro e fuori l’ambito cattolico, ricevendo molti plausi insieme a qualche critica dei colleghi, inclusa quella di Giovanni Romeo del 1999 (“Quaderni storici”), che rilevava, tra l’altro, una insufficienza di analisi empirica dell’indagine. Prosperi si è occupato molto anche di Controriforma, perché sebbene la fondazione dell’Inquisizione sia faccenda medioevale - fondamentale per la sua nascita fu la bolla di Lucio III del 1184 ( Ad abolendam)-, l’istituzione del Sant’Uffizio (o Inquisizione romana) ad opera di Paolo III con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542 è direttamente legata alla reazione contro la Riforma protestante. Siamo alla vigilia del Concilio di Trento, venticinque anni dopo le 95 tesi di Lutero. 

I venti scismatici ed eretici soffiavano già da tempo anche sotto le Alpi, e la Chiesa cattolica mise in campo le sue migliori forze per evitare che il germe luterano contaminasse tutta l’Europa. Per Prosperi, i nuovi ordini religiosi (i Gesuiti su tutti, senza dimenticare Cappuccini, Teatini, Somaschi ed altri) e il Sant’Uffizio furono i principali strumenti per bloccare l’epidemia protestante. 

lI foro esterno era gestito dall’Inquisizione, il foro interno dai confessori, due fori complementari, dove il confessionale divenne il terminale finale dell’Inquisizione. Da qui «la creazione di guide specializzate, di direttori e di confessori, capaci di orientare l’individuo nel fantastico labirinto» (De Ruggero, Rinascimento, Riforma e Controriforma, Laterza 1947). Negli ultimi anni gli studi sulla Inquisizione e sulla Controriforma hanno conosciuto una nuova primavera: «Il “segreto del S. Uffizio” nel corso degli ultimi anni è stato sempre più limato e corroso dal permesso concesso a singoli studiosi di accedere alla documentazione romana… Anche lo scrivente è stato ammesso a consultare questi documenti: sono segni nuovi, che vanno al di là della ristretta economia di una specifica ricerca», scrive Prosperi nel suo nuovo libro Inquisizioni (Quodlibet, pagine 758, euro 32,00). 

La liberalizzazione dell’accesso alle carte dell’Archivio del Sant’Uffizio per gli studiosi era stata annunciata formalmente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 22 gennaio del 1998, quindi ormai più di un quarto di secolo fa. Una data che segna anche una svolta negli studi storici sull’Inquisizione, di cui Adriano Prosperi è tra i principali protagonisti internazionali. Il volume Inquisizioni è una raccolta di 29 articoli sul tema pubblicati dall’autore tra il 1983 e il 2022, aperto da un importante testo inedito “Alle origini della coscienza”, che traccia le coordinate scientifiche, storiche ed etiche dell’intero volume. 

Il tema della libertà di coscienza attraversa infatti tutti i capitoli del libro, poiché la grande fatica che la Chiesa cattolica fece a riconoscere questa specifica libertà della persona fu il centro dell’umanesimo (o del disumanesimo) della Controriforma. Il mancato riconoscimento iniziava dalla teologia e finiva nella prassi pastorale. Infatti, per il Bellarmino (1587), un teologo importante della Controriforma, «la libertà di coscienza predicata dagli eretici era una libertà degna dei figli del diavolo, peggiore di ogni schiavitù ( filiorum diaboli non filiorum dei) ». E il solo evocare la libertà di coscienza era già di per sé segnale eloquente di contagio luterano: « Non per niente Bellarmino dette di Lutero un giudizio feroce, dedicandogli termini tali da farlo apparire come un essere diabolico, mostruoso». 

Per Prosperi la paura per i frutti perversi che poteva portare la libertà di coscienza, ha prodotto i suoi effetti fino alla stesura della nostra Costituzione repubblicana. La prima versione dell’articolo 7, la cui redazione venne affidata all’on. Lelio Basso, «socialista, già partigiano e uomo di cultura sensibile alla tradizione evangelica», recitava: « Nessun limite può porsi alla libertà di coscienza». Questa versione dell’articolo 7 fu però sostituita nella versione finale «dai rapporti tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede con l’inserimento in Costituzione dei Patti Lateranensi e quindi anche del Concordato. Quei Patti erano stati un grande successo per il regime fascista, tanto che la data dell’11 febbraio era stata dichiarata giorno festivo con vacanza scolastica. Tale doveva restare fino al 1977». 

Ci si poteva aspettare, in questo contesto, un riferimento a Ernesto Buonaiuti, personaggio la cui storia è una sintesi della lotta per libertà di coscienza nella Chiesa cattolica nel primo Novecento, che invece non c’è né qui né in nessuna altra pagina del volume. Importante è il capitolo sulla santità dissimulata e “affettata”, dove, tra l’altro, è riportato il caso interessante del francescano portoghese Amadeo Ménes da Silva che in un suo libro aveva affermato che «le immagini della Madonna sono da considerare l’equivalente dell’eucarestia». A tale proposito Prosperi commenta: «La discussione lacerante sulla presenza reale che impegna le diverse tendenze teologiche dell’età della Riforma non è che la punta più elevata di un bisogno di presenza e di comunicazione col divino che attraversa tutte le manifestazioni del rapporto coi santi». 

Così, mentre i corpi dei santi e le loro reliquie erano presenti nel mondo e certificabili, quelle di Gesù e di Maria erano invece assenti dalla terra: ecco allora l’importanza dell’eucaristica e delle rappresentazioni artistiche mariane che fungevano da sostituti (si pensi alle icone), ma «la differenza di protezione che i fedeli avvertivano non era necessariamente a vantaggio del culto eucaristico », che restava realtà teologica (la “transustanziazione”) troppo distante dal popolo, che conosceva altri ‘accidenti’ diversi da quelli sacramentali e preferiva toccare e baciare santi e le loro reliquie. Molto spazio è dedicato al rapporto tra l’Inquisizione e gli ebrei, da cui emergono fatti nuovi e a volte sorprendenti. Nella Chiesa cattolica «rimase profondamente radicata una forte ostilità antiebraica», lo sappiamo, che portava ancora nell’Ottocento l’arcivescovo di Pisa «a rifiutare di sedersi a tavola con l’ebreo professor Alessandro D’Ancona», come ci testimonia una lettera di Domenico Comparetti (il bisnonno di Don Lorenzo Milani). La scelta ufficiale della Chiesa di Roma fu comunque quella di «mantenere la presenza ebraica, rinunciando a seguire il modello spagnolo dell’alternativa secca tra espulsione e conversione»; anche perché, dato il divieto di usura tra cristiani, gli Stati e i mercanti italiani avevano un bisogno vitale della finanza ebraica (che, per la loro religione, potevano prestare ai cristiani). 

Una buona notizia, infine, per gli economisti italiani: «Invece il ruolo degli ebrei nella nascita della società mercantile fu sottolineato da Antonio Genovesi». In effetti, scorrendo le Lezioni del Genovesi (del 1765-1767) i riferimenti agli ebrei sono in genere benevoli o neutrali, e in un passaggio vengono lodati per aver inventato la “lettera di cambio” strumento decisivo per la crescita dei commerci internazionali. E riguardo le dure persecuzioni agli ebrei perché accusati di usura, così Genovesi commenta: «Confessiamo nondimeno che… quasi tutte le leggi emanate contra gli ebrei sentono più d’invidia e d’odio pubblico che abbiano di sedata ragione. La legge non debbe incollerirsi; ella è ragione, non passione». Parole di una sorprendente attualità e bellezza.

(Fonte: Luigino Bruni, Avvenire, martedì 19 settembre 2023)

Vita, passioni, tormenti (e pure eresie) di Tommaso, sommo teologo



Chi era veramente l’Aquinate? Il personaggio puro e casto gli fu cucito addosso dagli agiografi per giustificarne la canonizzazione, che avveniva 700 anni fa. Ma la sua storia è ben più complessa

Ha fatto tanti miracoli quanti articoli ha scritto!”: sembra abbia tuonato così papa Giovanni XXII al processo di canonizzazione di Tommaso d’Aquino rivolgendosi all’avvocato, il cosiddetto “avvocato del diavolo”, che si era permesso di fargli notare come fra’ Tommaso di miracoli ne aveva fatti pochi: ogni articolo è un miracolo, aveva replicato il papa, e quindi i miracoli erano migliaia. Strano. Perché i manoscritti di Tommaso d’Aquino che ci sono pervenuti sono pieni di cancellature, correzioni e la maggior parte degli articoli è stata chiaramente riscritta tre e spesso quattro volte. Se furono miracoli, certo Dio onnipotente dovette fare non poca fatica, visto che, stranamente, non gli riuscirono al primo tentativo. Eppure la Chiesa mai ha avuto dubbi a proposito dell’ispirazione divina dell’opera dell’Aquinate, tanto che, per citare solo un esempio, al Concilio di Trento (XVI secolo) la sua Somma di Teologia fu esposta addirittura sull’altare insieme alla Bibbia.

Quasi mai, a onor del vero. Perché diversi degli articoli cosiddetti “ispirati” di Tommaso furono condannati nel XIII come eretici dal vescovo di Parigi mentre Tommaso era ancora in vita e poi ben altre tre volte a Parigi e a Canterbury pochi anni dopo la sua morte. E il maestro domenicano Richard Knapwell, per essersi rifiutato di condannare Tommaso d’Aquino – ripeto: rifiutato di condannare – fu dapprima scomunicato e poi, per gentile concessione del papa che gli tolse la scomunica, condannato al silenzio perpetuo (il poveretto a quel punto si ritirò a Bologna, morendovi pazzo nel 1286 e, narrano le cronache, di una morte, per pudore non meglio specificata, “orribile”). La questione è certo quella della coerenza della Chiesa, che prima condanna e poi santifica o, come il Dio di Manzoni, “atterra e suscita, affanna e consola” (sebbene nessuno santificò, suscitò o consolò il povero Knapwell nemmeno dopo morto). Tuttavia, visto che l’incoerenza della Chiesa non fa certo notizia, la vera questione qui è l’enorme discrepanza tra il Tommaso raccontato dopo la santificazione e il Tommaso reale. Le origini di questa discrepanza vanno ricercate concretamente in quei trentasette anni che separano la morte di Richard Knapwell, nel 1286, dalla canonizzazione di Tommaso d’Aquino, nel 1323, quando fra’ Tommaso da uomo in odore di eresia fu trasformato in santo.

Che cosa accadde in quegli anni? Si deve – finalmente – sapere come andarono effettivamente le cose. Un bel giorno del 1316 fu (difficoltosamente) eletto papa con il nome di Giovanni XXII il cardinale Jacques Duèze. Ora, il neo papa volle dimostrare la sua gratitudine nei confronti dei domenicani che avevano ospitato generosamente il lungo conclave nel loro convento di Lione, e fece sapere di essere disponibile a fare santo uno di loro (così andava il mondo nel secolo decimo quarto). A quel punto il re d’Aragona propose Raimondo di Peñafort. Il papa, tuttavia, non amava la casa d’Aragona ed era molto legato invece alla casa d’Angiò, sicché scartò la candidatura dello spagnolo e chiese alla regina Maria d’Angiò, vedova del re di Napoli, di fargli un nome. La regina e i suoi figli fecero il nome del napoletano fra’ Tommaso dei conti d’Aquino e il papa accettò. C’era però un piccolo problema: molti nella Chiesa lo consideravano ancora vicino all’eresia – e ci credo: i vescovi continuavano a condannarlo! – quindi bisognava creargli intorno una buona reputazione e fugare ogni sospetto sulla sua dottrina.

Fu così che Guglielmo da Tocco, non prima e a prescindere ma durante la causa di canonizzazione, scrisse la prima biografia di Tommaso, cucendola su misura sul candidato secondo i criteri della Curia pontificia di allora per essere dichiarato santo. Ma il giudice, ossia il papa, aveva già stabilito a tavolino, su richiesta della regina, l’esito della causa, e al diavolo le perplessità dell’avvocato del diavolo sui suoi miracoli! Bastava fargli avere un curriculum vitae scritto come Chiesa comanda, una Ystoria sancti Thomae de Aquino, ossia una biografia, non dico inventata ma certamente interpretata, abbellita, insomma “impupata”, come si suole dire nell’ex Regno di Sicilia, e la cosa era fatta. E siccome i criteri per diventare santo all’epoca escludevano i peccatori pentiti, come Sant’Agostino ad esempio, e, invece, esigevano candidati letteralmente impeccabili, e in particolare castissimi, ecco che, miracolosamente, la biografia risultò piena di prove di impeccabilità e di castità.

Non fu un caso, dunque, che nella Ystoria di Tocco venne messa ben in risalto la lotta vittoriosa del giovane Tommaso contro le tentazioni di una giovane bellissima, una puella pulcherrima, introdotta di nascosto dai fratelli nel castello di famiglia con l’intento di farlo desistere dal proposito di farsi frate domenicano. Non fu un caso che vi sia riportata la testimonianza del suo confessore a proposito dell’assoluta castità di Tommaso, che mai conobbe i “moti della carne” (tranne nel caso della puella pulcherrima, quando “vide e sentì risvegliarsi dentro di sé lo stimolo carnale”). E infine non fu per caso che vi si trovi in primo piano il famoso racconto degli angeli che, vinta la tentazione della puella pulcherrima, regalarono a Tommaso una invisibile ma potentissima cintura di castità, onde renderlo per sempre simile a loro, ossia angelico.

Restava però il problema del sospetto di eresia. E lì Tocco ebbe un’idea geniale, di quelle che solo a un napoletano potevano venire in mente: trasformare il motivo del sospetto, ossia le novità da lui introdotte nella dottrina cristiana tradizionale, in prova di santità: “Nel corso delle sue lezioni – scrisse – egli introduceva nuovi articoli, risolveva questioni in un modo nuovo e più chiaro con nuovi argomenti. Perciò, coloro che lo ascoltavano insegnare tesi nuove e trattate secondo un metodo nuovo non potevano dubitare – e qui arriva il colpo da maestro – che Dio non l’avesse illuminato con una nuova luce: infatti, si possono insegnare o scrivere opinioni nuove, se non si è ricevuta da Dio un’ispirazione nuova?”. Voilà: ecco trasformato un uomo in un santo senza macchia né dottrinale – fu ispirato da Dio – né morale – fu castissimo: Dottore Angelico. E la trasformazione da quel momento fu definitiva, perché la Ystoria di Tocco servì da esempio e da base per tutte le altre successive biografie di Tommaso nei secoli a venire.

Ma chi fu veramente Tommaso? Forse è venuto il momento di chiederselo, di liberarlo dalle finte narrazioni trionfalistiche da supereroe della castità e della dottrina, da supercampione della teologia, per il cui merito, come scrisse Pio V, “le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia” e “il mondo si salva ogni giorno dalla peste degli errori”. Forse, a settecento anni dalla sua canonizzazione, è tempo di rendere giustizia all’uomo che veramente fu. Il lavoro è stato già iniziato da grandi studiosi (James Weisheipl, Jean-Pierre Torrell, Pierre-Marie Gils, René-Antoine Gauthier, Ruedi Imbach, Adriano Oliva, Pasquale Porro e altri), ma molto resta ancora da fare. Manca infatti un’opera come Le Confessioni di sant’Agostino, che ci avrebbe permesso di conoscere Tommaso dal di dentro della sua percezione di sé, sicché non resta che provare a ricostruire la sua vita a partire da dati storicamente accertati: gli incontri umani che fece, i libri che lesse, gli avvenimenti in cui fu coinvolto.

A me sembra importante partire dai suoi maestri allo Studium Generale di Napoli, dove studiò tra i sedici e i diciotto anni, un’età decisiva per comprendere lo sviluppo culturale successivo di una personalità. La biografia di Guglielmo da Tocco menziona un certo Pietro l’Irlandese. Chi era costui? Nulla se ne è saputo per secoli, fino a quando nel 1920 furono scoperti per caso tre manoscritti delle sue opere, uno a Erfurt e due alla Biblioteca Vaticana. Così, studiando questi antichi testi, saltò fuori dall’oblio della storia la personalità culturale del maestro napoletano di Tommaso. E se ne capì non solo la statura ma anche l’influsso che esercitò sul giovane suo studente. Pietro l’Irlandese, a noi per secoli sconosciuto, era invece molto noto ai suoi contemporanei, che lo consideravano “gioiello fra i professori e alloro di buoni costumi”. Che cosa insegnava a Napoli il maestro irlandese cristiano? Molto verosimilmente la Metafisica e la Fisica del greco pagano Aristotele, corredate dal commento del filosofo arabo musulmano Averroè, allora appena tradotte dall’arabo in latino a Toledo e a Palermo da un intellettuale scozzese, Michele Scoto, sotto gli auspici e il finanziamento dell’imperatore franco-tedesco Federico II di Svevia.

Queste circostanze, felicissime allora e impensabili oggi, dicono molto. Anzitutto che i testi di Aristotele erano letti e insegnati a Napoli senza divieti, come invece avveniva in quegli stessi anni a Parigi – e d’altra parte chi avrebbe dovuto condannarli, Federico II, noto scomunicato? Inoltre dicono che i maestri cristiani non insegnavano solo i testi dei cristiani, come a Parigi, ma anche quelli dei pagani e dei musulmani. Infine dicono che Aristotele non era letto con l’intento di concordarlo con Platone e il platonismo ma con quello di distinguerlo da Platone. Non per nulla Pietro l’Irlandese era considerato un aristotelico puro, antiplatonico. Egli partecipava, poi, ai dibattiti animati dalla comunità ebraica napoletana, seguace del filosofo ebreo Mosè Maimonide, che era molto aperta a quei tempi al dialogo con i cristiani e i musulmani, a differenza, di nuovo, della omologa comunità ebraica di Parigi dove il dialogo era invece vietato. In quei dibattiti si parlava, tutti insieme, ebrei, cristiani e musulmani, di Dio – era immutabile o mutevole, uno o trino? – e si leggevano i testi sacri confrontando le varie interpretazioni con le teorie di Aristotele, di Maimonide, di Averroè, di Agostino.

Tutto questo permette di comprendere meglio alcuni tratti caratteristici della personalità culturale di Tommaso, giovane allievo di Pietro l’Irlandese. Anzitutto, si capisce che l’aria di novità tipica della sua opera non dipendeva da illuminazioni divine, come abbiamo letto nella Ystoria di Tocco, bensì, più umanamente, dall’influenza dei suoi maestri. Anche l’adagio da lui tanto amato appare come un riassunto dell’esperienza dei suoi anni di scuola napoletani: “Ogni vero, da chiunque sia detto, viene dallo Spirito Santo”. Infine, si comprende perfettamente la novità principale del suo pensiero: l’introduzione nella teologia cristiana, a quel tempo fortemente neoplatonica, della filosofia di Aristotele, ossia precisamente di quel filosofo pagano che aveva studiato per la prima volta a Napoli sui banchi di scuola. Come hanno notato Gauthier e Twentymiles, infatti, tutta la sua missione culturale può essere riassunta così: usare Aristotele per de-platonizzare la teologia.

In proposito cito solo due delle sue tante soluzioni innovative: quella data al problema del numero nel Dio uno e trino e quella data al problema del rapporto tra anima e corpo.

La prima questione ricorda i dibattiti napoletani – Dio è solo uno o è anche trino? La Trinità rappresentava una grande difficoltà per i teologi cristiani neoplatonici. Uno degli adagi principali di ogni platonismo era in effetti questo: l’unità è perfezione, la molteplicità è imperfezione. Considerare, dunque, Dio, essere perfettissimo per eccellenza, trino, e quindi molteplice, era difficile da comprendere e accettare. Sicché, si preferiva sostenere che il numero “tre” attribuito a Dio fosse piuttosto un modo negativo di parlare, un po’ come dire “Dio non è solo uno”, ma nulla di più. Tommaso d’Aquino criticò espressamente su questo punto “tutti gli antichi dottori”. Aristotele alla mano, egli cominciò con il contestare l’assunto dei neoplatonici: chi l’ha detto che la molteplicità è segno di imperfezione? L’universo è originariamente molteplice, aveva argomentato Aristotele contro Platone e Parmenide, fanatici dell’unità. E Tommaso gli fece eco: la perfezione dell’universo e la sua bellezza implicano la molteplicità. Se non ci fosse, l’universo sarebbe semplicemente monotono e brutto. Non era difficile immaginarlo in un tempo in cui dal canto gregoriano monodico si passava a quello polifonico. E forse non era difficile immaginarlo per lui dopo l’esperienza felice della molteplicità culturale vissuta a Napoli. Dunque, concludeva il maestro: se la molteplicità è perfezione, di conseguenza non può mancare all’Essere perfettissimo. Voilà: come usare la filosofia del pagano Aristotele per meglio spiegare il mistero cristiano della Trinità e come fare della Trinità cristiana un’occasione per riscoprire i segreti nascosti nell’opera del grande filosofo greco: geniale!

La questione dell’anima fu impostata in modo analogo: prima di Tommaso pressoché tutti i teologi cristiani, sant’Agostino in testa, avevano sostenuto, platonicamente, che l’io è l’anima e non il corpo. Quindi, alla morte morirebbe solo il mio corpo, non io, che sono l’anima. Questo pensavano tutti, da Platone ad Agostino (e pensano ancora praticamente tutti i cristiani). Non così, però, Tommaso d’Aquino: “L’anima – scrisse chiaramente – non è tutto l’uomo, e la mia anima non è l’io. Quindi, anche se l’anima conseguisse la salvezza (salutem) in un’altra vita, tuttavia non la conseguirei io o qualunque altro uomo. Inoltre, poiché l’uomo desidera la salute (salutem) anche del corpo, il desiderio naturale verrebbe frustrato, se non ci fosse la risurrezione dei corpi” (In I Cor., c. 15, l. 2). Insomma: l’uomo non è solo la sua anima ma un corpo animato, insegnava Aristotele nel suo libro Sull’anima. Ora, un corpo animato desidera, istintivamente e per natura, semplicemente non soffrire e non morire; si chiama istinto di sopravvivenza. Quindi, il messaggio centrale del cristianesimo, argomentava Tommaso, non è l’immortalità dell’anima, arcinota già dai tempi di Platone, bensì la risurrezione di tutto l’uomo, anima e corpo, come aveva scritto san Paolo. Il cuore del cristianesimo, insomma, era la felicità di tutto l’uomo, anima e corpo, cioè niente altro che una vita bella finalmente senza sofferenze fisiche e psichiche. Di nuovo: Aristotele utile per comprendere meglio la rivelazione cristiana, e la rivelazione cristiana trasformata in un formidabile laboratorio di ricerca filosofica e teologica, dove meglio apprezzare le perle del filosofo greco.

Il tema appena accennato del desiderio naturale di felicità e l’impossibilità di soddisfarlo del tutto in questa vita è uno di quelli che attraversa tutta l’opera di Tommaso con insistenza ricorrente. Come mai? Forse che il Dottore Angelico non fu serafico? Qui bisognerebbe lasciare parlare gli avvenimenti in cui fu coinvolto, invece che sfogliare le agiografie imbellettate, ché certo fra’ Tommaso non fu circondato da cori angelici.

All’età di vent’anni, appena preso l’abito domenicano, fu vittima di un agguato: alcuni soldati di Federico II, tra cui suo stesso fratello Rinaldo, lo catturarono mentre era in viaggio verso Parigi, gli strapparono l’abito e lo condussero nel castello di Monte San Giovanni e poi in quello di Roccasecca, entrambi di famiglia: vi resterà rinchiuso o, diciamo, in soggiorno forzato per più di un anno. Come mai? Storie di ordinario misero snobismo. La famiglia dei conti d’Aquino, cui Tommaso apparteneva, non poteva sopportare l’onta di annoverare un familiare tra i mendicanti! A quel tempo, infatti, i frati domenicani, come i francescani, vivevano con estremo rigore la povertà evangelica, non possedevano nulla e vivevano facendo letteralmente l’elemosina. Non è difficile immaginare le reazioni per nulla angeliche dei suoi fratelli (suo padre era già morto), che frequentavano la corte dell’Imperatore: Tommaso, un Aquino, ridotto a fare l’accattone, che vergogna! E non è difficile immaginare la rabbia e la sofferenza di Tommaso di fronte alla nauseabonda ipocrisia dei suoi fratelli: gli era lecito entrare nei benedettini, ordine ricco e potente, ma non in quello dei domenicani, mendicanti, come se la fede cristiana fosse accettabile solo a patto di non mettere in discussione i veri valori della famiglia, ossia niente altro che ricchezza e potere.

Comunque, Tommaso non arretrò di un passo dalla sua intenzione di diventare mendicante, sicché la famiglia fu costretta a lasciarlo andare a Parigi a studiare, da domenicano. Giunto lì, però, le cose non andarono certo tanto meglio. I religiosi diocesani francesi, infatti, erano animati da uno zelantissimo odio per i religiosi mendicanti, per lo più stranieri e fedelissimi al papa di Roma, e li accusavano – niente di nuovo sotto il sole – di venire a rubare cattedre e stipendi (e stima da parte degli studenti) in casa loro. Aizzavano alcuni studenti e il popolo contro i religiosi stranieri, al punto che nell’inverno 1255-1256 i domenicani venivano assaliti per strada, sicché il re dovette mandare nientedimeno che gli arcieri a proteggerli. Si svolse in questo clima di violenza e di paura, in un’aula semivuota e con le guardie fuori dall’aula, la lezione inaugurale di Tommaso il primo giorno del suo insegnamento all’università di Parigi.

In un modo o in un altro, comunque, le sue lezioni iniziarono e a poco a poco Tommaso riuscì a conquistare la stima di studenti e colleghi. Ma le difficoltà erano per lui solo all’inizio. Con le prime pubblicazioni iniziarono i sospetti di eresia, le denunce e le condanne. Vennero attaccati dapprima alcuni suoi studenti che sostenevano le sue tesi, poi altri colleghi che condividevano con lui la stima per Aristotele. E arrivò infine anche una condanna del vescovo di Parigi, nel 1270, indiretta (lui non venne menzionato espressamente) ma chiarissima. E non c’era certo da stare sereni a quei tempi quando si trattava di condanne ecclesiastiche. Basterà ricordare che pochi anni prima, sempre a Parigi, Amalrico da Bene, anche lui filoaristotelico, fu condannato per eresia e ucciso, mentre nove suoi allievi furono bruciati vivi alle porte di Parigi, e qualche anno dopo, lo stesso vescovo di Parigi, non ancora pago, fece esumare le ossa di Amalrico – che, non essendo state bruciate, erano ancora lì – e le fece gettare in terra non consacrata. Ecco, questo era il clima, caldo nel vero senso della parola, in cui Tommaso insegnò e scrisse: un clima ecclesiastico infernale. No, la vita di Tommaso non fu sempre felice. Fu la vita di un uomo come tanti, come molti di noi: amato da alcuni, odiato da altri.

La sua grafia, studiata mirabilmente da Gils, e poi molti suoi scritti, rivelano i tratti di un uomo tutt’altro che serafico, ma, al contrario, irascibile, nervoso, stanco, dubbioso, di fretta, meticoloso, chiaro ma anche sbadato, geniale ma mai testardo, anzi spesso onestamente capace di cambiare opinione.

Dei molti suoi ripensamenti – il campione mondiale della filosofia perenne non considerava perenne la sua stessa opera – uno, avvenuto verso la fine della sua vita, mi sembra particolarmente significativo, perché riguarda il senso della frase più centrale di tutta la teologia, ossia “Dio esiste”. Dopo anni faticosi di insegnamento, infatti, tra Roma, Orvieto e Parigi, Tommaso fece ritorno nella sua Napoli. Era stanco. Stanco delle tensioni, delle incomprensioni, delle lotte infinite, delle denunce, delle condanne. Sembra che a Napoli Tommaso ebbe l’occasione di rileggere il filosofo ebreo Mosè Maimonide, di cui gli aveva parlato proprio lì il suo antico maestro Pietro l’Irlandese. Così, affascinato dall’ebraismo dove il nome di Dio è impronunciabile, Tommaso si convinse che “Dio esiste” non è una frase molto sensata, perché “Dio” non è il nome proprio di Dio, come lo sono ad esempio Pietro o Paolo o Sara. Dio infatti non ha nome proprio e non ha nome alcuno: è innominabile. Sicché, a rigore, non può essere il soggetto di alcuna proposizione, nemmeno della proposizione “Dio esiste”. Di lì a poco, dopo una Messa vissuta in lacrime con una intensità tutta speciale, confidò al suo segretario: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia”. E da quel momento non scrisse più nulla, lasciando incompiute diverse opere importanti. Guglielmo da Tocco, manco a dirlo, si premurò di abbellire quella famosa frase con un’aggiunta adatta a un candidato santo, allungandola un poco: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quello che mi è stato rivelato”, come se Dio gli avesse parlato per l’ennesima volta.

A me sembra, invece, che la frase anche senza la precisazione soprannaturalistica, anzi proprio senza di essa, sia da sola bellissima: cosa c’è di più drammatico ma anche di più grande, di più umano, di più autenticamente religioso, di veramente mistico, che comprendere, dopo anni passati a scrivere milioni di parole su Dio, che Dio non si può scrivere, non si può dire, non si può comprendere? Anzi, non solo Dio ma proprio tutto: omnia. Tutto è alla fin fine indicibile e incomprensibile. Un grande, immenso, mistero. So di non sapere nulla di nulla. Qui il mistico e l’agnostico si incontrano. E qui san Tommaso d’Aquino, come ognuno di noi, trova finalmente pace. Tutto è paglia.

 (Fonte: Giovanni Ventimiglia, Il Foglio, 18 settembre 2023)


domenica 17 settembre 2023

"Il cristiano non può essere mafioso. Dal pastore valdese Pietro Valdo Panascia a don Pino Puglisi il lungo cammino delle Chiese” di Davide Romano

 


“Il cristiano non può essere mafioso”. Con queste parole, pronunciate quale anno fa da papa Francesco a Palermo, nel contesto del ricordo di Padre Puglisi, la Chiesa cattolica romana ha segnato una nuova consapevolezza nella sua lotta contro la mafia. Questa affermazione, semplice ed immediata nella sua ovvietà, è stata accolta da molte parti come un segno di cambiamento all'interno della Chiesa di fronte al fenomeno mafioso. Questo cambiamento è il risultato di un percorso discontinuo e complesso, iniziato in territori periferici e con esperienze pastorali di minoranza all'interno della cristianità.

Già nel lontano 1963, dopo la strage mafiosa di Ciaculli, il pastore valdese Pietro Valdo Panascia lanciò un appello “a quanti hanno la responsabilità civile e religiosa del nostro popolo” per “la formazione di una più elevata coscienza morale cristiana”. In quel momento, la Chiesa cattolica reagì in modo più lento attraverso la lettera pastorale dell'Arcivescovo di Palermo, il cardinale Ernesto Ruffini, intitolata "Il vero volto della Sicilia". Questa risposta fu giudicata da molti insoddisfacente e fu ritardata dalla divergenza di vedute tra il Papa Paolo VI e lo stesso Ruffini, che respingeva l'idea che la mentalità mafiosa potesse avere alcuna connessione con quella religiosa.

Per assistere a una nuova presa di posizione della Chiesa cattolica siciliana contro la mafia, dobbiamo aspettare il periodo dei grandi delitti eclatanti, che ebbe luogo tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta del secolo scorso. Il cardinale Salvatore Pappalardo, con le sue celebri omelie, rappresentò la disponibilità della Chiesa siciliana postconciliare a collaborare con lo Stato per promuovere una coscienza comune, sia civica che legale, basata sulla legalità. Questa fase fu descritta da alcuni come "la rivoluzione degli onesti", un tentativo di opporre la "propria giustizia personale" all'ingiustizia perpetrata da molti.

Tuttavia, questa stagione di impegno ebbe una durata relativamente breve. Quando divenne evidente che la lotta della Chiesa contro la mafia richiedeva una riformulazione politica del sostegno dell'episcopato nazionale al partito cattolico unico e la rimozione delle connivenze tra mafia e poteri dello Stato, spesso protette da figure nominalmente cattoliche, si tornò a una difesa apologetica basata sull'identità culturale cristiana astratta del popolo siciliano, ignorando le radici del problema mafioso.

L'assassinio di Padre Puglisi, il 15 settembre del 1993, avvenne in un periodo in cui il tema della lotta alla mafia era in gran parte assopito nel dibattito interno della Chiesa. La morte del prete che aveva promosso pratiche pastorali innovative e una visione rinnovata dell'evangelizzazione popolare del territorio rappresentò un momento significativo. Tuttavia, questo avvenimento fu preceduto dal famoso "grido" contro la mafia di Papa Giovanni Paolo II, che, utilizzando un linguaggio apocalittico, spostò la sfida dalla sfera dell'analisi socio-politica e culturale a quella espressamente escatologica.

Oggi è evidente che il fenomeno mafioso, considerato come un'espressione di un'antropologia distorta, ha anche rilevanza morale e teologica. Tuttavia, è difficile non notare che questa nuova consapevolezza collettiva arriva più di cinquant'anni dopo, alla fine di un percorso non lineare di auto-riflessione della comunità ecclesiale di fronte all'ostinata contraddizione tra la mafia e il Vangelo.

Anche se, davanti al riemergere sulla scena politica locale e nazionale di alcuni personaggi, in precedenza condannati per gravi reati inerenti ai loro rapporti con le mafie, e che si richiamano direttamente al magistero cattolico, ci si chiede se la riflessione della comunità ecclesiale sia davvero giunta a una qualche maturazione. Altrimenti, non si spiega il consenso politico e di opinione di cui ancora godono. 


sabato 16 settembre 2023

Libri: “Quando la Chiesa scomunicò il Risorgimento”

 


“L’esempio più notevole che si trovi nella nostra storia del tentativo di far prevalere la concezione della sovranità dello Stato laico contro la ben radicata tradizione confessionale italiana”. Così Vittorio Gorresio sintetizza dalle pagine del suo libro, Risorgimento scomunicato (La Zisa, pp. 200, euro 16,90), l’azione portata avanti dai politici del Risorgimento, che, in un’Italia in odor di unità, promossero in maniera risoluta una legislazione d’impronta laica e liberale, in grado di togliere privilegi a una Chiesa fino ad allora intoccabile e lasciata libera di spadroneggiare indisturbata. Un’azione lenta ma coraggiosa, che ebbe il merito di modernizzare una nazione prigioniera di un clero reazionario e dalla vita facile, portandola in tal modo sullo stesso livello di altri stati europei senza per questo scristianizzarla. Il modenese Gorresio, preziosa penna di molte testate, tra cui Il MessaggeroRisorgimento liberale e La Stampa, annota i fatti analizzandoli da diverse prospettive e corredandoli d’innumerevoli aneddoti, documenti e carteggi, che conferiscono allo scritto una vivacità e un gusto del tutto godibili. Il volume, pubblicato per la prima volta nel 1958 dall’editore fiorentino Parenti, viene riproposto proprio mentre ricorrono i 150 anni dell’Unità d’Italia, impreziosito dalla puntuale prefazione di Gianni Vattimo.

L’analisi assume come punto di partenza il 1850, data in cui si dà inizio alla discussione della legge Siccardi nel quadro legislativo del Parlamento subalpino, in seguito esteso al Regno d’Italia. I legislatori proponenti miravano ad abolire il foro ecclesiastico, la manomorta, il diritto d’asilo e la possibilità per la Chiesa e gli enti ecclesiastici di acquisire la proprietà di beni immobili senza l’autorizzazione del governo. Inoltre, sempre in quel frangente, si avviava una discussione sulla necessità di regolare il contratto di matrimonio nelle sue relazioni con la legge civile. Fin qui i fatti, seguiti dai pareri, favorevoli o contrari, delle più autorevoli voci della politica dell’epoca: Vittorio Emanuele II in primis, Cavour, D’Azeglio, Balbo, Revel e così via. Immediata esordisce l’attività sovversiva e demonizzatrice che la Chiesa conduce contro la determinazione emancipatrice dello Stato. I documenti riportati da Gorresio testimoniano la presenza di un clero agguerrito, pronto a qualsiasi tipo di gesto eversivo e dinamitardo pur di difendere i privilegi e il potere che lo Stato s’era deciso a sottrargli. La rivalsa si serviva di tutti gli strumenti spirituali che il clero aveva a disposizione e il cui uso distorto e ricattatorio veniva promosso dall’alto, dallo scranno di San Pietro. Da un lato il clero si rifiutava di celebrare messe e festività arrivando a scomunicare a divinis e a sospendere quei preti che, invece, si dimostravano concilianti, dall’altro il governo processava, arrestava e confinava vescovi e cardinali. Ogni tentativo di trattativa era inconciliabile con le intenzioni delle due parti, cosicché il braccio di ferro divenne sempre più aspro.

Sebbene il clima fosse ogni giorno più acceso e ingestibile, il governo fronteggiò la Santa Sede con rigore e intransigenza, come afferma l’autore:

Appare perciò chiaro pur tra la serie degli errori e delle intemperanze, che una sola restava la strada da seguire da parte dei governi liberali: coraggio e audacia, spregiudicatezza portata fino al segno da poter essere confusa con la mancanza di scrupoli. In mancanza di simili espedienti l’unificazione dell’Italia, da compiersi a dispetto della Santa Sede e di un clero che si manifestò quasi sempre retrivo, non sarebbe mai stata realizzata. Fortuna che quel coraggio e quell’audacia non mancarono.

Uno degli aspetti più curiosi e interessanti dell’opera di Gorresio è proprio il racconto dettagliatamente documentato di tutte le azioni eversive portate avanti da un clero ribelle, che, malgrado numerosi tentativi di rappel à l’ordre da parte delle istituzioni, si dimostrò “di gran lunga più temibile che un esercito austriaco”. E così veniamo a sapere che l’arcivescovo Fransoni, ad esempio, si rifiutò di somministrare i sacramenti al morente ministro Pietro Derossi di Santarosa, uno dei fautori della legge per l’abolizione del foro ecclesiastico, poiché questi, in punto di morte, non aveva ritrattato il proprio operato e non s’era dimostrato pentito. Fransoni fu così denunciato per abusi e arrestato. Sempre a proposito di morti celebri, ecco i toni con cui il giornale Civiltà Cattolica riporta la notizia del decesso di Cavour, il 6 giugno del 1861: “Il Conte di Cavour è ora giudicato da Dio. Gli auguriamo di cuore che negli ultimi istanti di sua vita egli abbia impetrato da Dio nell’altro mondo un giudizio più degno di quello che in questo di lui darà la storia”. Non son certo parole che trasudano perdono o misericordia. La confisca dei beni toccò invece al clero napoletano, quando, compatto, si rifiutò di intervenire alla cerimonia in onore di re Vittorio Emanuele II che si recava a venerare S. Gennaro.

L’arma più grottesca che il clero decise di impugnare per aizzare lo scontro fu quello della “sacra jettatura”. A questo argomento Gorresio dedica un’ampia sezione, certamente la più pittoresca del testo. Si tratta di una pratica mediante la quale gli ecclesiastici dell’epoca interpretavano le punizioni divine contro i patrioti del Risorgimento. Accantonata la suggestione dei “miracoli provati” (ad esempio quello della Madonna che muove gli occhi), infatti, la Chiesa optò per uno strumento psicologicamente più sottile e dal grande potenziale terrorizzante, che seguiva il principio sibillino per cui “chi attacca la Chiesa finisce male”. Uno dei più noti profeti di sventure fu Don Bosco, proclamato beato nel 2002. Nel 1854, nei giorni in cui in Parlamento si presentava il disegno di legge per la soppressione dei conventi, Don Bosco scriveva al re raccontandogli dei brutti sogni che aveva fatto e che coinvolgevano la corte. Dopo qualche giorno morirono la regina madre e Maria Adelaide, moglie di Vittorio Emanuele, sicché la discussione venne interrotta per lutto. E per paura, probabilmente. Gli avvertimenti di malaugurio e l’interpretazione distorta non tardavano ad arrivare in nessuna occasione, si trattasse di guerre, malattie o catastrofi naturali. Persino il papa non disdegnava la pratica, tanto che arrivò a dichiarare preferibile la morte dei bambini piuttosto che la loro crescita in seno a un’educazione liberale.

È chiaro che questa corrosiva gara di maledizioni avesse un forte impatto sulla popolazione e sull’intellighenzia dell’epoca, come accortamente registra Gorresio: si costituì la “Società dei liberi pensatori” e, dopo poco, la “Società primaria per gli interessi cattolici”, preti e frati venivano insultati e percossi per le strade, ogni giorno in tutta Italia si mettevano in scena rappresentazioni teatrali che raccontavano vizi e nefandezze del clero. Lo stesso Garibaldi fu autore di alcune opere letterarie antiecclesiastiche e denigratorie del Papato: pensava, in questo modo, di contribuire alla causa della patria, come sostenne Carducci, “Garibaldi ha fatto tutto per l’Italia, anche i versi”.

L’attualità dell’opera di Gorresio risiede nell’aver risalito la corrente e aver analizzato a fondo le dinamiche di un periodo storico estremamente complesso, che ha prodotto, come scrive l’autore a inizio saggio, intere generazioni dannate e scomunicate. Una frase della prefazione di Vattimo basti a farci contestualizzare e capire la modernità di Risorgimento scomunicato: “Se la Chiesa si riduce, oggi, a una multinazionale di cui si può parlare esaurientemente in termini di potere, ciò è anche il risultato dell’uso – simoniaco, possiamo dire – che essa stessa ha fatto dei suoi strumenti spirituali.”

Il libro: Vittorio Gorresio, RISORGIMENTO SCOMUNICATO, Prefazione di Gianni Vattimo, pp. 200, euro 16,90 (ISBN 9788895709895)

Pubblicato la prima volta nel 1958 dall’editore fiorentino Parenti, Risorgimento scomunicato raccoglie gli scritti di Vittorio Gorresio per Il Mondo, una serie storica di articoli dal titolo Processo al clero dopoil ‘60. Storico appassionato, intransigente documentatore, Gorresio traccia una puntuale e puntigliosa ricostruzione delle origini dei contrastati rapporti tra Stato e Chiesa che resero tanto drammatico il Risorgimento. La descrizione dell’intransigentismo clericale rispetto alla progressiva laicizzazione dello Stato italiano ci è fornita dall’autore attraverso la meticolosa raccolta di missive tra membri del governo ed esponenti del clero, cui si aggiungono le dettagliate ricostruzioni degli episodi salienti e del profilo dei personaggi che di questo travagliato periodo storico si resero protagonisti. Vengono descritte, in sequenza, le vicende di una Chiesa, scomunicante e punitiva, addirittura iettatoria, di là dalla trasformazione che, negli anni a seguire, la renderà refrattaria, incapace di stare al passo con la storia, cioè con l’evoluzione della coscienza morale e politica dei cittadini laici.

Vittorio Gorresio, giornalista, scrittore e saggista nacque a Modena da famiglia piemontese il 18 luglio 1910. Inviato speciale e corrispondente di guerra per Il Messaggero di Roma, fu tra i più efficaci espositori del dramma del dopoguerra sulle colonne della testata Risorgimento Liberale, quotidiano diretto da Mario Pannunzio col quale collaborò anche per il settimanale politico Il Mondo. Firma prestigiosa anche de L’Europeo di Arrigo Benedetti, Gorresio scrisse una decina di saggi storici ottenendo importanti riconoscimenti giornalistici e premi. Nel 1980 l’autobiografia La vita ingenua gli valse il Premio Strega. Lavorò fino a poco prima della sua morte, nel 1982, curando la rubrica “Taccuino” per il quotidiano La Stampa.

 


“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

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