giovedì 26 ottobre 2023

Palermo 29-30 ottobre, Le Serve dei Poveri celebrano il 40° anniversario della beatificazione di Giacomo Cusmano.

 












Un programma ricco di appuntamenti quello organizzato dalla congregazione religiosa delle Serve dei Poveri, più note come suore Bocconiste, per celebrare il 40° anniversario della beatificazione del loro fondatore, padre Giacomo Cusmano, avvenuta il 30 ottobre del 1983 ad opera del pontefice Giovanni Paolo II.

Il primo appuntamento è per domenica 29, alle ore 18,00, presso la chiesa di San Marco, sita in piazzetta San Marco 8, al Capo, a Palermo, con l’adorazione eucaristica e la celebrazione dei primi vespri solenni.

Si prosegue lunedì, alle 8,00 del mattino, sempre presso la stessa chiesa per la celebrazione delle lodi e della messa sempre in forma solenne, quest’ultima sarà presieduta da monsignor Giuseppe Oliveri, vicario generale dell’arcidiocesi di Palermo. Seguirà un rinfresco.

Alle 16,00 ci si sposterà presso la chiesa di Sant’Ernesto, in via Giovanni Campolo 11, per una conferenza dal titolo “La carità a Palermo”, tenuta da don Giuseppe Di Giovanni, parroco di santa Maria della Pietà e rettore del santuario diocesano di Santa Teresa.

Seguirà alle 17,00 l’apposizione di un omaggio floreale presso il monumento raffigurante il beato Giacomo Cusmano in piazza Giovanni Campolo 23. Alle 18,00 messa solenne a sant’Ernesto presieduta dal parroco, monsignor Carmelo Vicari. Alle 19,00 rinfresco.

 

https://bocconedelpovero.blogspot.com/2023/10/palermo-29-30-ottobre-le-serve-dei.html

 

L’addetto Stampa

Davide Romano

domenica 1 ottobre 2023

Lettera di Papa Francesco a Davide Romano, fondatore della Compagnia del Vangelo

 

Una commovente lettera del Santo Padre rivela il suo apprezzamento per il lavoro del giornalista palermitano

Vaticano, 1 ottobre 2023 – (AGiCatt - Agenzia Cattolica di Stampa) Una luce di speranza e ispirazione si è diffusa all'interno della comunità ecumenica di volontariato "La Compagnia del Vangelo" e tra quanti seguono il prezioso lavoro di Davide Romano. Il fondatore di questa straordinaria iniziativa, che da anni si dedica con passione e dedizione al servizio dei più vulnerabili, ha ricevuto una commovente lettera da Papa Francesco, un messaggio di affetto e incoraggiamento che ha toccato il cuore di molti.

Nella sua missiva, il Santo Padre ha elogiato il percorso di fede personale di Davide Romano, un ministro di culto protestante che ha dedicato la sua vita a promuovere l'ecumenismo e il servizio disinteressato verso chi ha più bisogno. La lettera è stata inviata durante un momento particolarmente significativo, in cui il Papa ha voluto riconoscere l'impegno incessante di Romano nella creazione di una mensa per i poveri e altre attività caritative presso il convento di San Marco a Palermo, nel quartiere popolare del Capo.

A coadiuvare Davide Romano in questa nobile impresa, c'è suor Marie Jeanne Mulamba Meta, della congregazione delle Serve dei Poveri del beato Giacomo Cusmano. Insieme, hanno dimostrato un impegno straordinario nel portare il volto compassionevole di Gesù Cristo a coloro che spesso vengono dimenticati dalla società. La loro opera di amore e solidarietà ha ispirato Papa Francesco, che ha voluto esprimere la sua gratitudine in questa commovente lettera.

Nella missiva si legge che il Santo Padre "assicura il ricordo orante e, mentre ringrazia per il generoso servizio svolto a favore dei poveri e degli emarginati, manifestando loro il volto compassionevole di Gesù, invia volentieri il Suo benedicente saluto, che volentieri estende alle persone vicine e a quanti amorevolmente assiste."

Queste parole gentili e incoraggianti da parte di Papa Francesco hanno avuto un impatto profondo sulla comunità di "La Compagnia del Vangelo" e su tutti coloro che seguono il loro nobile lavoro. È un promemoria tangibile che il servizio disinteressato e la dedizione alla causa dei più bisognosi sono valori universali che uniscono le persone di fede in un impegno comune.

Nell'ambito di questa toccante lettera, un suggerimento prezioso è stato offerto da un collaboratore del vescovo di Roma: partecipare a un'udienza generale per incontrare di persona Papa Francesco. Questo incontro potrebbe rappresentare un momento significativo per condividere idee, ispirazioni e progetti futuri con il Santo Padre, consolidando ulteriormente il legame tra "La Compagnia del Vangelo" e la Chiesa Cattolica.

L'invito di Papa Francesco a Davide Romano e alla sua comunità è un riflesso del suo costante impegno a promuovere la fratellanza, l'unità e il servizio verso gli altri. È un richiamo a tutti noi a seguire l'esempio di questi straordinari volontari che lavorano instancabilmente per alleviare le sofferenze e diffondere l'amore nel mondo.

Questo commovente gesto del Papa ci ricorda che, anche nelle sfide del mondo moderno, l'amore e la solidarietà possono sempre trionfare. Insieme, possiamo costruire un mondo migliore per tutti, seguendo il messaggio di speranza e compassione del Santo Padre.

 

“La Parola di Dio è giusta” di Greetje Van der Veer

“La parola del Signore è retta e tutta l’opera sua è fatta con fedeltà”. (Salmo 33, 4)

“Gesù dice: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. (Matteo 24, 35)

Siamo abituati a fare differenza fra ciò che diciamo e ciò che facciamo. Perché non è detto che ciò che diciamo è poi quello che facciamo, spesso c’è una bella differenza fra queste due realtà. Quante cose che diciamo si riducono poi a chiacchiere e basta. Presso Dio questa differenza non c’è. Quando Dio parla succede sempre qualcosa, basta pensare all’atto della creazione: «Dio disse: “Sia luce!”. E la luce fu!» (Gen. 1, 3).

Noi, esseri umani, possiamo fare a pezzi le cose con le nostre parole e le nostre azioni. Ma la parola di Dio è giusta, non ha un doppio senso, essa ci dà una direzione, è un sostegno. Le parole del Salmo 33 rinviano alla creazione sottolineando il modo in cui Dio parla e agisce.

Se consideriamo il creato (siamo nel periodo chiamato del “Tempo del Creato”), vediamo che ciò che ci circonda non funziona per niente, pare che Dio abbia compiuto un lavoro mal fatto. Quante cose non funzionano! Basta pensare alle mutazioni genetiche che causano malattie gravi, o ai terremoti, che in questo periodo, causano tanti, troppi morti.

Anche gli scrittori biblici descrivono quanto burrascosamente le cose possono svolgersi. Ma fondamentale è l’esperienza che la Creazione non è un caos, ma un cosmo, una terra per abitarci; Dio ha creato un mondo, una terra dove si può abitare bene, con giustizia ed equità proprio come canta questo salmo. A noi tutti e tutte il compito di inserirci in questo piano di Dio. Amen.

(Fonte: Riforma.it)

"Annunciare al mondo colui che cambia la nostra vita" di Greetje Van der Veer

“Come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annuncia?” (Romani 10, 14)

Le Parole della lettera ai Romani suonano come un macigno. Erano dirette al popolo di Dio, Israele. Ma anche noi possiamo sentirci interrogati senza dubbio dalle parole dell’apostolo Paolo.

Leggiamo il versetto partendo dalla fine: se non c’è chi lo annuncia, come potranno sentirne parlare? Se non hanno sentito parlare di lui, come crederanno in lui? Se non hanno creduto, come lo invocheranno?

Parlare e fare, nel linguaggio biblico, sono parole complementari, due facce della stessa medaglia per così dire. Anche ascoltare e fare è una coppia simile. Ascoltare significa, fare proprio ciò che si sente, viverlo. Ma allora, se non lo si sente, come si può metterlo in pratica?

Dobbiamo annunciare colui che cambia la nostra vita, colui che chiamiamo il Salvatore, il Liberatore. Purtroppo, spesso siamo timidi, e tanto. Certo mettersi agli angoli delle strade e strillare il messaggio lieto, oggi non funziona. Però mettersi per strada con un banchetto con poco materiale, ma significativo, ed entrare in contatto con quelle poche persone che si avvicinano, può essere un primo passo per annunciare ciò che ci muove: l’evangelo. Un primo passo, bisogna uscire dal nostro guscio, dare una testimonianza esplicita, raccontare ciò che la Parola ha fatto nella nostra vita, dove ha fatto la differenza, e dove ci ha messo in discussione. Facciamoci coraggio!

È vero, la Parola fa il suo lavoro, ma per questo non viene meno il nostro compito di annunciarla, con parole e azioni.

Annunciamo, dunque la parola di Dio, dentro e fuori le nostre chiese. Amen.

 

(Fonte: Riforma.it)


lunedì 25 settembre 2023

Vaticano, Lettera di Papa Francesco al giornalista Davide Romano

 

Affettuosa e incoraggiante lettera di Papa Francesco al giornalista Davide Romano, fondatore della comunità ecumenica di volontariato “La Compagnia del Vangelo”, con l’invito a incontrarlo nel corso di una udienza generale.

“Il Santo Padre Francesco – scrive, tra le altre cose, uno stretto collaboratore del Pontefice –” loda “il suo percorso di fede personale e l’apprezzata attività di volontariato da Lei svolta”.

E aggiunge: “Sua Santità assicura il ricordo orante e, mentre ringrazia per il generoso servizio svolto a favore dei poveri e degli emarginati, manifestando loro il volto compassionevole di Gesù, invia volentieri il Suo benedicente saluto, che volentieri estende alle persone vicine e a quanti amorevolmente assiste”.

In merito poi all’incontro, il collaboratore del vescovo di Roma gli suggerisce, indicando la data, di partecipare a un udienza generale nel corso del quale poter incontrare Papa Francesco.

 


“Il Vangelo secondo Tolstoj” di Davide Romano


 

“Io credo in Dio, che è per me lo Spirito, l’Amore, il Principio di tutte le cose. Io credo che egli è in me come io sono in lui. Io credo che la volontà di Dio non sia mai stata espressa più chiaramente che nella dottrina di Cristo; ma non si può considerare Cristo come Dio e rivolgergli delle preghiere senza commettere il più grande dei sacrilegi. Io credo che la vera felicità dell’uomo consista nel compimento della volontà di Dio”. Scriveva così Lev Tolstoj, nell’aprile del 1901, in un’epistola in cui chiariva la propria concezione della dottrina cristiana e la natura della propria fede, alla luce delle idee maturate nella sua lunga indagine teologica sui dogmi e le prescrizioni della Chiesa. Appena un paio di mesi prima, durante il Sinodo tenutosi nel febbraio 1901, la Chiesa Ortodossa Russa aveva emesso nei suoi confronti solenne sentenza di scomunica. Il suo trentennale, appassionato studio delle Sacre Scritture – alla ricerca di un punto di vista univoco e autentico nella comprensione della parola evangelica – lo aveva condotto verso una posizione di critica perentoria nei confronti delle gerarchie religiose e delle pratiche liturgiche, e si concludeva con una altrettanto perentoria e irrevocabile sentenza di rottura da parte delle istituzioni ecclesiastiche.

Il tracciato umano, prima ancora che intellettuale, del glorioso scrittore russo è segnato, a un dato momento della sua vita, da un periodo di profondo smarrimento. Negli anni Settanta del suo secolo, intorno ai 45 anni, una lacerante crisi interiore lo coinvolse e sconvolse, come scintilla fece brillare una carica esplosiva che spazzò via il muro di nichilismo e di pessimismo - che l’appassionata lettura dell’opera di Schopenhauer aveva alimentato - che derivava dal frustrante tentativo di giungere a Dio attraverso la ragione, la filosofia, la teologia: “L’uomo impiega la sua ragione per chiedersi: a che scopo, perché? A proposito della sua propria vita e di quella dell’universo. E la ragione stessa gli dice che non c’è risposta. (...) Che significa tutto ciò? Significa che la ragione non è stata fornita all’uomo per rispondere a questa domanda”. Nasceva adesso in lui la consapevolezza che ogni uomo, l’umanità intera, potesse vivere solamente in virtù della fede, e che il tentativo di affidare la propria vita al solo lume della ragione conducesse inesorabilmente alla disperazione. Trentacinque anni vissuti da nichilista, come lui stesso scrive nelle sue memorie, sfociarono all’improvviso in una rinnovata fede in Cristo. 

Nei suoi scritti autobiografici, Tolstoj racconta la sua evoluzione spirituale, il suo travagliato percorso di riavvicinamento alla religione, che lo portò a riguadagnare il valore positivo e profondo del messaggio cristiano, e trasformò profondamente la sua esistenza e la sua visione del mondo. Tutti i valori in cui credeva furono invertiti e sovvertiti, letteralmente scambiati di posto: “Cessai di volere quello che volevo prima e incominciai a volere quello che prima non volevo. Quello che prima mi sembrava buono mi apparve cattivo e quello che prima mi sembrava cattivo mi apparve buono”3. Nella fede bisognava cercare il senso vero dell’esistenza, il segreto di una felicità che appariva finalmente raggiungibile a chi avesse trovato il coraggio e la forza di liberarsi delle regole imposte dalla società e seguire con fiducia gli insegnamenti di Gesù. 

La società era quella ingloriosa della Russia ottocentesca, che innalzava l’intera struttura sociale sulla diseguaglianza e sull’ingiustizia, e in cui la ricchezza delle classi dirigenti gravava interamente sulle spalle degli umili lavoratori. In questa realtà, il conte Lev Nikolàevic Tolstoj, membro della privilegiata nobiltà, decise di rinunciare agli agi della propria condizione e iniziare a vivere come i contadini mujiks, indossando le loro stesse vesti, privandosi della servitù e liberandosi persino delle suppellettili che corredavano la sua abitazione. Stravaganze, forse, che testimoniano tuttavia la grandezza di un uomo di commovente e lungimirante sensibilità, che seppe rinunciare ai privilegi e denunciare un’ingiustizia sociale di cui non fu mai vittima. Stravaganze che furono forse alla base di quel filone di critica che vuol vedere in Tolstoj un anarchico o un sobillatore, o che finirà con l’individuare in lui il teorico ante litteram dell’ateismo sovietico. In realtà, quello che animava Tolstoj era un sentimento religioso che ebbe più che altro la natura di un assunto etico, che si fondava sul principio cristiano della rinuncia a sé e dell’amore verso gli altri; è dunque in tale ottica che bisogna leggere la sua bizzarra, commovente fuga dalla ricchezza e dalla gloria terrena. Il tormentato scrittore russo trovò nel messaggio cristiano una risposta, un sentiero tracciato, una via da seguire. 

La sua intima crisi spirituale finì con l’assumere il respiro dell’universalità, poiché diede vita a una riflessione filosofica di portata immensa che, lungi dall’aprirsi al misticismo, si caricò invece di una forza etica, pragmatica, antropologica, ponendo al centro dell’attenzione la questione esistenziale, la domanda eterna dell’uomo riguardo al senso della vita. L ’esegesi tolstojana dei Vangeli racchiudeva in sé un valore umanistico autentico, poiché fu condotta nel tentativo di individuare un significato, di fornire una risposta alla questione etico-pragmatica del “come vivere?”, indicando come unica via quella del compimento del bene, della rinuncia a se stessi e dell’amore incondizionato verso il prossimo. Le semplici parole di Cristo rappresentano per Tolstoj l’orizzonte luminoso, il messaggio liberatorio e universale che indica a tutti la strada da seguire per trovare il senso della vita e per raggiungere la felicità.

L’esigenza di superare la frammentarietà delle interpretazioni teologiche fu dunque all’origine dell’intenso lavoro di rilettura-riscrittura dei quattro Vangeli che Tolstoj iniziava e portava a termine nell’arco di due anni, fra il 1880 e il 1881, proprio allo scadere del decennio cruciale degli anni Settanta. Ne veniva fuori l’Unificazione e traduzione dei quattro Vangeli, cui seguiva alcuni anni dopo la pubblicazione di un compendio divulgativo, la Breve esposizione dell’Evangelo. L ’idea centrale dell’insegnamento evangelico è rappresentata, nella concezione tolstojana, dal Discorso della montagna, in cui Gesù pronuncia il grandioso messaggio delle beatitudini. Avviene così la genesi della Vita di Gesù proposta in questa pubblicazione. 

La natura umana del Cristo tolstojano balza in primo piano; ma l’accento è posto sulla parola di Gesù, sulla semplicità del suo messaggio, sulla naturalezza con cui egli indica la via verso il bene, con cui cerca di orientare l’umanità, smarrita nella ricerca di un significato. Le parole di Cristo costituiscono la base anche del secondo scritto, La felicità, ma in una forma che è più quella di una piccola prosa filosofica, in cui la valenza etica dell’insegnamento cristiano viene esplicitata fino a diventare un modello comportamentale: in tal senso, forse, può apparire evidente la straordinaria attualità, o meglio, l’immortalità del messaggio religioso, così come ci viene consegnato dall’impareggiabile scrittore russo.

 

Il libro: Lev Nikolàevi Tolstoj, “Vita di Gesù e altri scritti”, Prefazione e cura di Davide Romano, Edizioni EL, pp. 64, euro 12,00

 


giovedì 21 settembre 2023

“Il martire dell'eresia: Fra Dolcino, il predicatore millenarista” di Davide Romano

 

Prato Sesia, 1250 circa - Vercelli, 1º giugno 1307. Queste date segnano la vita di Fra Dolcino, noto anche come Dolcino da Novara, uno dei personaggi più enigmatici e controversi del Medioevo italiano. Fu il fondatore e il capo del movimento dei dolciniani, un gruppo di seguaci devoti attratti dalle sue prediche millenariste. La sua storia è avvolta da un alone di mistero, in quanto le fonti storiche disponibili sono scarse e spesso di parte avversa al suo movimento eretico.

Le origini di Dolcino sono oscure, ma si suppone che sia nato a Prato Sesia, nell'alto Novarese, intorno al 1250. Alcune fonti suggeriscono che il suo vero nome fosse Davide Tornielli e che potesse essere il figlio illegittimo di un prete, forse il parroco di Prato Sesia.

La sua carriera religiosa ebbe inizio quando si unì al movimento degli Apostoli, guidato da Gherardo Segarelli, intorno al 1291. Gli Apostoli erano noti per la loro vita ascetica, basata sulla povertà e l'obbedienza alle Scritture. Questo movimento era in contrasto con la Chiesa cattolica e venne condannato da papa Onorio IV nel 1286. Segarelli stesso fu giustiziato sul rogo nel 1300.

Dolcino abbracciò la dottrina degli Apostoli e iniziò a predicare, principalmente nella zona del lago di Garda e poi nei dintorni di Trento. Durante i suoi spostamenti, conobbe una giovane donna di nome Margherita Boninsegna, che divenne la sua compagna e lo aiutò nella predicazione.

La sua predicazione si distinse per il suo fervente millenarismo, la credenza che il mondo stesse per entrare in un'era di rinnovamento spirituale e che la Chiesa cattolica fosse corrotta e destinata a cadere. Dolcino profetizzava anche la fine imminente del papato di Bonifacio VIII.

Le sue prediche carismatiche attirarono molti seguaci, e sotto la sua guida, il movimento dei dolciniani cresceva rapidamente. Questo aumento di popolarità suscitò la preoccupazione della Chiesa cattolica, che vedeva in Dolcino una minaccia alla sua autorità.

Nel 1306, il vescovo di Vercelli, Raniero degli Avogadro, proclamò una crociata contro i dolciniani con il beneplacito del papa Clemente V. Le truppe cattoliche attaccarono il rifugio dei dolciniani, situato sul Monte Rubello sopra Trivero, nel Biellese. Dopo un lungo assedio, i dolciniani vennero sconfitti.

Dolcino fu catturato e processato a Vercelli. Durante il processo, rifiutò di pentirsi e proclamò che sarebbe risorto il terzo giorno se venisse ucciso. Fu condannato a morte e sottoposto a torture brutali prima di essere arso vivo di fronte alla Basilica di Sant'Andrea.

Margherita Boninsegna e Longino, un altro seguace di Dolcino, subirono la stessa sorte, venendo arsi vivi sulle rive del torrente Cervo, vicino a Biella. L'eroica resistenza di Dolcino di fronte alle torture e la sua proclamazione di resurrezione lo resero un'icona di resistenza per alcuni, mentre per altri fu un eretico pericoloso.

La figura di Dolcino ha lasciato un'impronta duratura nella storia dell'eresia e del pensiero religioso nel Medioevo. La sua predicazione millenarista anticipò alcune delle idee che sarebbero emerse durante la Riforma protestante, e la sua resistenza di fronte alla persecuzione lo rese un simbolo di opposizione alla Chiesa cattolica dell'epoca.

Ancora oggi, la sua storia è oggetto di studio e dibattito tra gli storici e rappresenta un capitolo affascinante e controverso nella storia del cristianesimo medievale.

“Giordano Bruno, il diritto di pensare (liberamente) in un’epoca di nuovi conformismi” di Davide Romano

“La libertà di pensiero è più forte della tracotanza del potere”. Ogni potere tende a difendere se stesso colpendo chiunque non si conformi ai dogmi del tempo. Dogmi che lo stesso potere continuamente crea e consacra. Giordano Bruno, filosofo e teologo eretico del XVI secolo, potrebbe sembrare un personaggio lontano nel tempo, ma la sua eredità come libero pensatore rimane sorprendentemente attuale e rilevante nel mondo moderno. La sua vita e le sue idee costituiscono un richiamo alla necessità di difendere la libertà di pensiero e l'apertura intellettuale anche oggi.

Bruno, nato a Nola nel 1548, è diventato noto per le sue opinioni eretiche che lo hanno portato al rogo il 17 febbraio del 1600. La sua eresia non era solo teologica, ma anche scientifica e filosofica. Ha sostenuto che l'universo fosse infinito, con molte stelle simili al nostro sole e, quindi, potenziali abitanti. Queste idee erano in netto contrasto con il dogma geocentrico accettato dalla Chiesa cattolica dell'epoca. Il suo coraggio nel sostenere queste opinioni è ben riflesso in una delle sue affermazioni più famose: "Nessun Dio che ama la verità può condannare una mente umana che cerca la verità".

La vicenda di Bruno mette in luce la lotta per la libertà di pensiero. Oggi, in un mondo in cui le informazioni sono facilmente accessibili, ma in cui si fa strada un nuovo conformismo sempre più intollerante, è fondamentale ricordare il valore di esprimere idee divergenti. Bruno ha pagato un prezzo terribile per le sue convinzioni, ma la sua determinazione nel difendere la sua visione del mondo è un monito per noi tutti. In merito a ciò, ha scritto: "Io non affatico il mio cervello per trovare risposte corrette, ma per liberare la mente dagli errori".

Le idee di Bruno anticiparono molte delle scoperte scientifiche successive. La sua teoria dell'universo infinito, ad esempio, prefigurò la moderna cosmologia e la scoperta di esopianeti. Questo ci ricorda l'importanza di non chiudere la porta a nuove idee, anche se sembrano eretiche in un primo momento. Bruno sosteneva: "Ogni scienza ha una filosofia e ogni filosofia una scienza". Questa connessione tra scienza e filosofia è ancora di grande rilevanza, poiché la riflessione filosofica continua a ispirare la ricerca scientifica e ad aiutarci a comprendere il significato delle scoperte.

In un'epoca in cui la libertà di pensiero e l'apertura intellettuale sono fondamentali per il progresso della società, Giordano Bruno rimane un maestro da riscoprire in continuazione. La sua eredità ci ricorda che il coraggio di andare controcorrente, la difesa della libertà di pensiero e la ricerca della verità sono valori che rimangono cruciali nella nostra società. Continuare a celebrare la vita e le idee di Giordano Bruno significa onorare la lotta per il libero pensiero e l'importanza di non accettare il pensiero convenzionale senza un esame critico. In conclusione, come affermò Bruno stesso: "Non c'è scienza che non abbia inizio dal sapere che c'è molta più verità da cercare, e che un solo sapere ci guida a cercarne altre".

 


martedì 19 settembre 2023

Nuove inquisizioni, ma… politicamente corrette

La preparazione inadeguata con cui molti studenti si accostano agli studi umanistici, anche quando decidono di frequentare prestigiose istituzioni, ha condotto gradualmente le Università di Oxford e di Cambridge e alcune Università americane a reimpostare drasticamente i programmi, che prevedevano una conoscenza approfondita dei classici greci e latini. L’interesse crescente verso le culture extraeuropee e le minoranze in genere, considerate fortemente discriminate nella formazione scolastica e accademica, ha reso possibile, inoltre, l’attivazione di nuovi insegnamenti che hanno sostituito, in alcuni casi, corsi tradizionali.

A Yale, ad esempio, è stato interrotto il corso sull’arte rinascimentale, curato fino al 2017 dal grande storico dell’architettura Vincent Scully e successivamente dai suoi discepoli, perché reo di privilegiare autori bianchi e temi legati esclusivamente alla tradizione occidentale. Un simile destino, a Stanford, era già toccato a Platone, Aristotele, ma anche a Shakespeare e al nostro Dante, per non parlare di Omero, tutti accusati di razzismo e di sessismo, capi d’accusa sufficienti per escluderli dal nuovo Pantheon che gli ideologi del politicamente corretto stanno edificando. Alla Columbia, chi si accosti allo studio delle Metamorfosi di Ovidio dovrà prendere visione di un trigger warning, una sorta di avvertimento che mette in guardia nei confronti delle “insidie” presenti nel testo. La Paideia che ha formato intere generazioni risulterebbe, alla luce di queste considerazioni, profondamente segnata da un colonialismo culturale, da cui bisognerebbe prendere le distanze. Il giurista di Harvard Alan Dershowitz, inimicandosi l’Intellighenzia liberal da cui proviene, ha definito “Cultura della cancellazione” (Cancel Culture) questa tendenza a condannare senza appello opere come l’IliadeMoby Dick o Le avventure di Huckleberry Finn. Tutto ciò ha prodotto un nuovo codice (speech code), una sorta di neolingua orwelliana, in grado di riscrivere la storia in funzione dei paradigmi che il fondamentalismo del politicamente corretto pretende di imporre.

La tendenza a privilegiare il multiculturalismo sta in realtà tracciando dei confini entro cui gruppi di diversa natura rivendicano la difesa della propria identità, sottraendosi al confronto. In molte Università americane, infatti, vengono predisposte cerimonie di laurea ad hoc per le diverse comunità etniche, sociali, sessuali. Gli esiti divisivi di queste scelte sono evidenti, come è evidente che, in una società complessa e fortemente diversificata, creare ghetti significa alimentare conflitti.

Il concetto di cittadinanza universale costituisce, secondo Martha Nussbaum, il nucleo dell’educazione umanistica liberale, che il pensiero moderno, da Hume a Smith, da Kant a Paine, ha ereditato in modo critico dai classici. Vivere in una dimensione cosmopolitica significa, per la filosofa americana, accogliere questa eredità e “partecipare allo scambio aperto delle argomentazioni critiche relativamente alle scelte etiche e politiche, rispettando tutti i punti di vista”. Marco Aurelio, l’Imperatore filosofo, riteneva che, per diventare cittadini del mondo, non era necessario accumulare conoscenze, commenta Nussbaum, ma coltivare la capacità simpatetica, al fine di comprendere gli altri. Nussbaum sostiene che, quando ci accostiamo alle civiltà distanti dalla nostra, incorriamo spesso in «errori normativi», identificabili con lo sciovinismo, l’arcadianesimo e lo scetticismo. L’approccio sciovinista tende a prendere le distanze da ciò che si contrappone alla tradizione occidentale, l’arcadianesimo apprezza proprio ciò che da questa tradizione si allontana, lo scetticismo si limita a prendere atto delle differenze in modo avalutativo. Per Nussbaum il confronto non può limitarsi al piano cognitivo, ma deve essere finalizzato a definire criteri morali condivisi.

Tali riflessioni assumono particolare rilievo nella dimensione globale del mondo contemporaneo, in cui il cosmopolitismo stoico o la Phronesis aristotelica non possono essere sbrigativamente considerati formule eurocentriche. Nell’ambito del multiculturalismo la tendenza a enfatizzare i particolarismi etnici è decisamente più marcata rispetto alla volontà di definire principi generali, accusati spesso di essere insensibili alle differenze. Queste considerazioni chiamano in causa il rapporto fra tolleranza, pluralismo e multiculturalismo. Secondo Giovanni Sartori, il pluralismo interculturale, diversamente dal multiculturalismo, che radicalizza le differenze, afferma che “la diversità e il dissenso sono valori che arricchiscono l’individuo e anche la sua città politica”, stimolando il confronto.

Se il multiculturalismo difende sacri recinti, il modello interculturale favorisce lo scambio e considera le varie appartenenze una libera scelta, non una naturale declinazione comunitaria. All’interno di una società pluralista, con forti diseguaglianze, il conflitto politico può fare emergere identità collettive che rivendicano un riconoscimento, ma anche aspirazioni di singoli, che vogliono affrancarsi dal gruppo. Solo entro una dimensione dialogica il contrasto fra queste due esigenze può agevolare la crescita di una cittadinanza critica.

I fondamentalisti, come tutti i fanatici, pensano alla maniera degli agelasti di Rabelais, terrorizzati dall’ironia e soprattutto dal riso, che può far vacillare le loro granitiche certezze. In una sua celebre Lectio su Il Romanzo e l’Europa, in occasione dell’assegnazione del Premio Gerusalemme, nel 1985, Milan Kundera evidenziava la funzione sovranazionale dell’Europa, intesa “non come territorio, ma come cultura”. Dopo aver citato un proverbio ebraico che dice: “L’uomo pensa, Dio ride”,  il suo pensiero si rivolgeva all’autore di Gargantua e Pantagruel, che incarna, a suo avviso, lo spirito universalistico dell’umanesimo europeo. Rabelais, scrive, detestava gli agelasti (coloro che non ridono). Gli facevano paura, perché, non avendo mai udito la risata di Dio sulle “verità” umane, erano convinti che la verità fosse evidente, che tutti gli uomini dovessero pensare la stessa cosa e che loro stessi fossero esattamente ciò che pensavano di essere.

I sommi sacerdoti del politicamente corretto, dimenticano che, come scriveva Benedetto Croce, “La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice; e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita, e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento”. Certi, come gli agelasti di Rabelais, di possedere la verità, si rapportano così alla storia come censori, incapaci di elaborare i percorsi complessi, e talora tortuosi, attraverso cui la libertà si è affermata nel corso del tempo.

Estendere la prospettiva della Paideia verso orizzonti più ampi, al di là del mondo classico, che ha rappresentato per lungo tempo l’asse portante nei processi formativi, significa arricchire questi stessi processi, che risulterebbero però compromessi se la classicità venisse sottoposta a una giustizia sommaria. Le accuse che vengono rivolte agli antichi potrebbero riguardare la natura umana nel suo complesso, dal momento che la tendenza ad assolutizzare una posizione, che l’Umanesimo si propone di superare, si è manifestata negli individui, nelle civiltà e nelle diverse forme dell’ideologia, come dimostra ampiamente proprio il furore iconoclasta della Cancel Culture.

Alla condanna acritica e ideologica della classicità bisogna contrapporre la capacità di storicizzarne il messaggio, cogliendo quanto ha ancora da rivelarci. Una società globale non può archiviare, come eurocentrica, la concezione di Humanitas, che da Socrate a Marco Aurelio, da Menandro a Terenzio, ha segnato la nostra cultura, ma deve assumersi il compito di realizzare, nel presente, la sua dimensione universale, garantendo libertà di espressione a ogni voce che non pretenda di essere l’unica.

 

 

Testi citati

M.C.Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo e l’educazione contemporanea, trad. it., Carocci, Roma, 1999.

G.Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano, 2000.

M.Kundera, Il romanzo e l’Europa, trad. it. in L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988.

B.Croce,  Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1920.


(Elio Cappuccio, https://www.einaudiblog.it/nuove-inquisizioni-mapoliticamente-corrette/)

 

 

Storia. L’Inquisizione tra verità e ideologia: gli studi di Adriano Prosperi



Una istituzione da sempre al centro di grandi contestazioni e dibattiti, che spesso però sono stati alimentati da fuoco ideologico: lo dimostrano anche gli studi di Adriano Prosperi, ora in volume 

La storia del cristianesimo è anche la storia di un paradosso. Nato da un fondatore che, a leggere i Vangeli, era un sovversivo sistematico e intenzionale dell’ordine costituito, un contestatore di leggi religiose per fare entrare le persone in un “Regno” dove l’unica legge fosse la libertà dello Spirito, dopo qualche secolo si è trasformato in un sistema religioso che ha ricreato ortodossie, persecuzioni dei dissidenti, lacci e laccioli teologici più severi di quelli degli scribi e dei farisei contro i quali Gesù si scagliava con grande forza durante la sua vita. È forse l’inevitabile sorte dei carismi che si trasformano in istituzioni: all’inizio le prime strutture e regole nascono per servire il carisma, poi, nel tempo, ne prendono il posto fino a sostituirlo completamente se una continua ‘distruzione creatrice’ non fa rinascere il carisma sulla morte delle sue istituzioni. 

Ecco perché il modo più proficuo e corretto di leggere i rimproveri che Gesù rivolgeva alle autorità religiose del suo tempo è pensarli come rivolte oggi alle istituzioni che il cristianesimo ha generato e genera: e così che il vangelo continua a liberarci, ogni giorno. L’Inquisizione è una istituzione da sempre al centro di grandi contestazioni e dibattiti, spesso animati e alimentati da fuoco ideologico. Adriano Prosperi, Accademico dei Lincei, ha dedicato all’inquisizione, agli eretici moderni e alla confessione auricolare una buona parte della sua lunga ricerca, che ha avuto nel saggio I tribunali della coscienza (1996) una tappa fondamentale. 

Il libro fu accolto da vivaci reazioni, dentro e fuori l’ambito cattolico, ricevendo molti plausi insieme a qualche critica dei colleghi, inclusa quella di Giovanni Romeo del 1999 (“Quaderni storici”), che rilevava, tra l’altro, una insufficienza di analisi empirica dell’indagine. Prosperi si è occupato molto anche di Controriforma, perché sebbene la fondazione dell’Inquisizione sia faccenda medioevale - fondamentale per la sua nascita fu la bolla di Lucio III del 1184 ( Ad abolendam)-, l’istituzione del Sant’Uffizio (o Inquisizione romana) ad opera di Paolo III con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542 è direttamente legata alla reazione contro la Riforma protestante. Siamo alla vigilia del Concilio di Trento, venticinque anni dopo le 95 tesi di Lutero. 

I venti scismatici ed eretici soffiavano già da tempo anche sotto le Alpi, e la Chiesa cattolica mise in campo le sue migliori forze per evitare che il germe luterano contaminasse tutta l’Europa. Per Prosperi, i nuovi ordini religiosi (i Gesuiti su tutti, senza dimenticare Cappuccini, Teatini, Somaschi ed altri) e il Sant’Uffizio furono i principali strumenti per bloccare l’epidemia protestante. 

lI foro esterno era gestito dall’Inquisizione, il foro interno dai confessori, due fori complementari, dove il confessionale divenne il terminale finale dell’Inquisizione. Da qui «la creazione di guide specializzate, di direttori e di confessori, capaci di orientare l’individuo nel fantastico labirinto» (De Ruggero, Rinascimento, Riforma e Controriforma, Laterza 1947). Negli ultimi anni gli studi sulla Inquisizione e sulla Controriforma hanno conosciuto una nuova primavera: «Il “segreto del S. Uffizio” nel corso degli ultimi anni è stato sempre più limato e corroso dal permesso concesso a singoli studiosi di accedere alla documentazione romana… Anche lo scrivente è stato ammesso a consultare questi documenti: sono segni nuovi, che vanno al di là della ristretta economia di una specifica ricerca», scrive Prosperi nel suo nuovo libro Inquisizioni (Quodlibet, pagine 758, euro 32,00). 

La liberalizzazione dell’accesso alle carte dell’Archivio del Sant’Uffizio per gli studiosi era stata annunciata formalmente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 22 gennaio del 1998, quindi ormai più di un quarto di secolo fa. Una data che segna anche una svolta negli studi storici sull’Inquisizione, di cui Adriano Prosperi è tra i principali protagonisti internazionali. Il volume Inquisizioni è una raccolta di 29 articoli sul tema pubblicati dall’autore tra il 1983 e il 2022, aperto da un importante testo inedito “Alle origini della coscienza”, che traccia le coordinate scientifiche, storiche ed etiche dell’intero volume. 

Il tema della libertà di coscienza attraversa infatti tutti i capitoli del libro, poiché la grande fatica che la Chiesa cattolica fece a riconoscere questa specifica libertà della persona fu il centro dell’umanesimo (o del disumanesimo) della Controriforma. Il mancato riconoscimento iniziava dalla teologia e finiva nella prassi pastorale. Infatti, per il Bellarmino (1587), un teologo importante della Controriforma, «la libertà di coscienza predicata dagli eretici era una libertà degna dei figli del diavolo, peggiore di ogni schiavitù ( filiorum diaboli non filiorum dei) ». E il solo evocare la libertà di coscienza era già di per sé segnale eloquente di contagio luterano: « Non per niente Bellarmino dette di Lutero un giudizio feroce, dedicandogli termini tali da farlo apparire come un essere diabolico, mostruoso». 

Per Prosperi la paura per i frutti perversi che poteva portare la libertà di coscienza, ha prodotto i suoi effetti fino alla stesura della nostra Costituzione repubblicana. La prima versione dell’articolo 7, la cui redazione venne affidata all’on. Lelio Basso, «socialista, già partigiano e uomo di cultura sensibile alla tradizione evangelica», recitava: « Nessun limite può porsi alla libertà di coscienza». Questa versione dell’articolo 7 fu però sostituita nella versione finale «dai rapporti tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede con l’inserimento in Costituzione dei Patti Lateranensi e quindi anche del Concordato. Quei Patti erano stati un grande successo per il regime fascista, tanto che la data dell’11 febbraio era stata dichiarata giorno festivo con vacanza scolastica. Tale doveva restare fino al 1977». 

Ci si poteva aspettare, in questo contesto, un riferimento a Ernesto Buonaiuti, personaggio la cui storia è una sintesi della lotta per libertà di coscienza nella Chiesa cattolica nel primo Novecento, che invece non c’è né qui né in nessuna altra pagina del volume. Importante è il capitolo sulla santità dissimulata e “affettata”, dove, tra l’altro, è riportato il caso interessante del francescano portoghese Amadeo Ménes da Silva che in un suo libro aveva affermato che «le immagini della Madonna sono da considerare l’equivalente dell’eucarestia». A tale proposito Prosperi commenta: «La discussione lacerante sulla presenza reale che impegna le diverse tendenze teologiche dell’età della Riforma non è che la punta più elevata di un bisogno di presenza e di comunicazione col divino che attraversa tutte le manifestazioni del rapporto coi santi». 

Così, mentre i corpi dei santi e le loro reliquie erano presenti nel mondo e certificabili, quelle di Gesù e di Maria erano invece assenti dalla terra: ecco allora l’importanza dell’eucaristica e delle rappresentazioni artistiche mariane che fungevano da sostituti (si pensi alle icone), ma «la differenza di protezione che i fedeli avvertivano non era necessariamente a vantaggio del culto eucaristico », che restava realtà teologica (la “transustanziazione”) troppo distante dal popolo, che conosceva altri ‘accidenti’ diversi da quelli sacramentali e preferiva toccare e baciare santi e le loro reliquie. Molto spazio è dedicato al rapporto tra l’Inquisizione e gli ebrei, da cui emergono fatti nuovi e a volte sorprendenti. Nella Chiesa cattolica «rimase profondamente radicata una forte ostilità antiebraica», lo sappiamo, che portava ancora nell’Ottocento l’arcivescovo di Pisa «a rifiutare di sedersi a tavola con l’ebreo professor Alessandro D’Ancona», come ci testimonia una lettera di Domenico Comparetti (il bisnonno di Don Lorenzo Milani). La scelta ufficiale della Chiesa di Roma fu comunque quella di «mantenere la presenza ebraica, rinunciando a seguire il modello spagnolo dell’alternativa secca tra espulsione e conversione»; anche perché, dato il divieto di usura tra cristiani, gli Stati e i mercanti italiani avevano un bisogno vitale della finanza ebraica (che, per la loro religione, potevano prestare ai cristiani). 

Una buona notizia, infine, per gli economisti italiani: «Invece il ruolo degli ebrei nella nascita della società mercantile fu sottolineato da Antonio Genovesi». In effetti, scorrendo le Lezioni del Genovesi (del 1765-1767) i riferimenti agli ebrei sono in genere benevoli o neutrali, e in un passaggio vengono lodati per aver inventato la “lettera di cambio” strumento decisivo per la crescita dei commerci internazionali. E riguardo le dure persecuzioni agli ebrei perché accusati di usura, così Genovesi commenta: «Confessiamo nondimeno che… quasi tutte le leggi emanate contra gli ebrei sentono più d’invidia e d’odio pubblico che abbiano di sedata ragione. La legge non debbe incollerirsi; ella è ragione, non passione». Parole di una sorprendente attualità e bellezza.

(Fonte: Luigino Bruni, Avvenire, martedì 19 settembre 2023)

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