Chi era veramente l’Aquinate? Il personaggio puro e casto gli fu cucito
addosso dagli agiografi per giustificarne la canonizzazione, che avveniva 700
anni fa. Ma la sua storia è ben più complessa
Ha fatto tanti miracoli quanti
articoli ha scritto!”: sembra abbia tuonato così papa Giovanni XXII al processo
di canonizzazione di Tommaso d’Aquino rivolgendosi all’avvocato, il cosiddetto
“avvocato del diavolo”, che si era permesso di fargli notare come fra’ Tommaso
di miracoli ne aveva fatti pochi: ogni articolo è un miracolo, aveva replicato
il papa, e quindi i miracoli erano migliaia. Strano. Perché i manoscritti di
Tommaso d’Aquino che ci sono pervenuti sono pieni di cancellature, correzioni e
la maggior parte degli articoli è stata chiaramente riscritta tre e spesso
quattro volte. Se furono miracoli, certo Dio onnipotente dovette fare non poca
fatica, visto che, stranamente, non gli riuscirono al primo tentativo. Eppure la
Chiesa mai ha avuto dubbi a proposito dell’ispirazione divina dell’opera
dell’Aquinate, tanto che, per citare solo un esempio, al Concilio di Trento
(XVI secolo) la sua Somma di Teologia fu esposta addirittura sull’altare
insieme alla Bibbia.
Quasi mai, a onor del vero. Perché
diversi degli articoli cosiddetti “ispirati” di Tommaso furono condannati nel
XIII come eretici dal vescovo di Parigi mentre Tommaso era ancora in vita e poi
ben altre tre volte a Parigi e a Canterbury pochi anni dopo la sua morte. E il
maestro domenicano Richard Knapwell, per essersi rifiutato di condannare
Tommaso d’Aquino – ripeto: rifiutato di condannare – fu dapprima scomunicato e
poi, per gentile concessione del papa che gli tolse la scomunica, condannato al
silenzio perpetuo (il poveretto a quel punto si ritirò a Bologna, morendovi
pazzo nel 1286 e, narrano le cronache, di una morte, per pudore non meglio
specificata, “orribile”). La questione è certo quella della coerenza della
Chiesa, che prima condanna e poi santifica o, come il Dio di Manzoni, “atterra
e suscita, affanna e consola” (sebbene nessuno santificò, suscitò o consolò il
povero Knapwell nemmeno dopo morto). Tuttavia, visto che l’incoerenza della
Chiesa non fa certo notizia, la vera questione qui è l’enorme discrepanza tra
il Tommaso raccontato dopo la santificazione e il Tommaso reale. Le origini di
questa discrepanza vanno ricercate concretamente in quei trentasette anni che
separano la morte di Richard Knapwell, nel 1286, dalla canonizzazione di
Tommaso d’Aquino, nel 1323, quando fra’ Tommaso da uomo in odore di eresia fu
trasformato in santo.
Che cosa accadde in quegli anni? Si
deve – finalmente – sapere come andarono effettivamente le cose. Un bel giorno
del 1316 fu (difficoltosamente) eletto papa con il nome di Giovanni XXII il
cardinale Jacques Duèze. Ora, il neo papa volle dimostrare la sua gratitudine
nei confronti dei domenicani che avevano ospitato generosamente il lungo
conclave nel loro convento di Lione, e fece sapere di essere disponibile a fare
santo uno di loro (così andava il mondo nel secolo decimo quarto). A quel punto
il re d’Aragona propose Raimondo di Peñafort. Il papa, tuttavia, non amava la
casa d’Aragona ed era molto legato invece alla casa d’Angiò, sicché scartò la
candidatura dello spagnolo e chiese alla regina Maria d’Angiò, vedova del re di
Napoli, di fargli un nome. La regina e i suoi figli fecero il nome del
napoletano fra’ Tommaso dei conti d’Aquino e il papa accettò. C’era però un
piccolo problema: molti nella Chiesa lo consideravano ancora vicino all’eresia
– e ci credo: i vescovi continuavano a condannarlo! – quindi bisognava creargli
intorno una buona reputazione e fugare ogni sospetto sulla sua dottrina.
Fu così che Guglielmo da Tocco, non
prima e a prescindere ma durante la causa di canonizzazione, scrisse la prima
biografia di Tommaso, cucendola su misura sul candidato secondo i criteri della
Curia pontificia di allora per essere dichiarato santo. Ma il giudice, ossia il
papa, aveva già stabilito a tavolino, su richiesta della regina, l’esito della
causa, e al diavolo le perplessità dell’avvocato del diavolo sui suoi miracoli!
Bastava fargli avere un curriculum vitae scritto come Chiesa comanda, una
Ystoria sancti Thomae de Aquino, ossia una biografia, non dico inventata ma certamente
interpretata, abbellita, insomma “impupata”, come si suole dire nell’ex Regno
di Sicilia, e la cosa era fatta. E siccome i criteri per diventare santo
all’epoca escludevano i peccatori pentiti, come Sant’Agostino ad esempio, e,
invece, esigevano candidati letteralmente impeccabili, e in particolare
castissimi, ecco che, miracolosamente, la biografia risultò piena di prove di
impeccabilità e di castità.
Non fu un caso, dunque, che nella
Ystoria di Tocco venne messa ben in risalto la lotta vittoriosa del giovane
Tommaso contro le tentazioni di una giovane bellissima, una puella pulcherrima,
introdotta di nascosto dai fratelli nel castello di famiglia con l’intento di
farlo desistere dal proposito di farsi frate domenicano. Non fu un caso che vi
sia riportata la testimonianza del suo confessore a proposito dell’assoluta
castità di Tommaso, che mai conobbe i “moti della carne” (tranne nel caso della
puella pulcherrima, quando “vide e sentì risvegliarsi dentro di sé lo stimolo
carnale”). E infine non fu per caso che vi si trovi in primo piano il famoso
racconto degli angeli che, vinta la tentazione della puella pulcherrima,
regalarono a Tommaso una invisibile ma potentissima cintura di castità, onde
renderlo per sempre simile a loro, ossia angelico.
Restava però il problema del
sospetto di eresia. E lì Tocco ebbe un’idea geniale, di quelle che solo a un
napoletano potevano venire in mente: trasformare il motivo del sospetto, ossia
le novità da lui introdotte nella dottrina cristiana tradizionale, in prova di
santità: “Nel corso delle sue lezioni – scrisse – egli introduceva nuovi
articoli, risolveva questioni in un modo nuovo e più chiaro con nuovi
argomenti. Perciò, coloro che lo ascoltavano insegnare tesi nuove e trattate
secondo un metodo nuovo non potevano dubitare – e qui arriva il colpo da
maestro – che Dio non l’avesse illuminato con una nuova luce: infatti, si
possono insegnare o scrivere opinioni nuove, se non si è ricevuta da Dio
un’ispirazione nuova?”. Voilà: ecco trasformato un uomo in un santo senza
macchia né dottrinale – fu ispirato da Dio – né morale – fu castissimo: Dottore
Angelico. E la trasformazione da quel momento fu definitiva, perché la Ystoria
di Tocco servì da esempio e da base per tutte le altre successive biografie di
Tommaso nei secoli a venire.
Ma chi fu veramente Tommaso? Forse
è venuto il momento di chiederselo, di liberarlo dalle finte narrazioni
trionfalistiche da supereroe della castità e della dottrina, da supercampione
della teologia, per il cui merito, come scrisse Pio V, “le eresie, vinte e
confuse, si disperdono come nebbia” e “il mondo si salva ogni giorno dalla
peste degli errori”. Forse, a settecento anni dalla sua canonizzazione, è tempo
di rendere giustizia all’uomo che veramente fu. Il lavoro è stato già iniziato da
grandi studiosi (James Weisheipl, Jean-Pierre Torrell, Pierre-Marie Gils,
René-Antoine Gauthier, Ruedi Imbach, Adriano Oliva, Pasquale Porro e altri), ma
molto resta ancora da fare. Manca infatti un’opera come Le Confessioni di
sant’Agostino, che ci avrebbe permesso di conoscere Tommaso dal di dentro della
sua percezione di sé, sicché non resta che provare a ricostruire la sua vita a
partire da dati storicamente accertati: gli incontri umani che fece, i libri
che lesse, gli avvenimenti in cui fu coinvolto.
A me sembra importante partire dai
suoi maestri allo Studium Generale di Napoli, dove studiò tra i sedici e i
diciotto anni, un’età decisiva per comprendere lo sviluppo culturale successivo
di una personalità. La biografia di Guglielmo da Tocco menziona un certo Pietro
l’Irlandese. Chi era costui? Nulla se ne è saputo per secoli, fino a quando nel
1920 furono scoperti per caso tre manoscritti delle sue opere, uno a Erfurt e
due alla Biblioteca Vaticana. Così, studiando questi antichi testi, saltò fuori
dall’oblio della storia la personalità culturale del maestro napoletano di
Tommaso. E se ne capì non solo la statura ma anche l’influsso che esercitò sul
giovane suo studente. Pietro l’Irlandese, a noi per secoli sconosciuto, era
invece molto noto ai suoi contemporanei, che lo consideravano “gioiello fra i
professori e alloro di buoni costumi”. Che cosa insegnava a Napoli il maestro
irlandese cristiano? Molto verosimilmente la Metafisica e la Fisica del greco
pagano Aristotele, corredate dal commento del filosofo arabo musulmano Averroè,
allora appena tradotte dall’arabo in latino a Toledo e a Palermo da un
intellettuale scozzese, Michele Scoto, sotto gli auspici e il finanziamento
dell’imperatore franco-tedesco Federico II di Svevia.
Queste circostanze, felicissime
allora e impensabili oggi, dicono molto. Anzitutto che i testi di Aristotele
erano letti e insegnati a Napoli senza divieti, come invece avveniva in quegli
stessi anni a Parigi – e d’altra parte chi avrebbe dovuto condannarli, Federico
II, noto scomunicato? Inoltre dicono che i maestri cristiani non insegnavano
solo i testi dei cristiani, come a Parigi, ma anche quelli dei pagani e dei
musulmani. Infine dicono che Aristotele non era letto con l’intento di
concordarlo con Platone e il platonismo ma con quello di distinguerlo da
Platone. Non per nulla Pietro l’Irlandese era considerato un aristotelico puro,
antiplatonico. Egli partecipava, poi, ai dibattiti animati dalla comunità
ebraica napoletana, seguace del filosofo ebreo Mosè Maimonide, che era molto
aperta a quei tempi al dialogo con i cristiani e i musulmani, a differenza, di
nuovo, della omologa comunità ebraica di Parigi dove il dialogo era invece
vietato. In quei dibattiti si parlava, tutti insieme, ebrei, cristiani e
musulmani, di Dio – era immutabile o mutevole, uno o trino? – e si leggevano i
testi sacri confrontando le varie interpretazioni con le teorie di Aristotele,
di Maimonide, di Averroè, di Agostino.
Tutto questo permette di
comprendere meglio alcuni tratti caratteristici della personalità culturale di
Tommaso, giovane allievo di Pietro l’Irlandese. Anzitutto, si capisce che
l’aria di novità tipica della sua opera non dipendeva da illuminazioni divine,
come abbiamo letto nella Ystoria di Tocco, bensì, più umanamente, dall’influenza
dei suoi maestri. Anche l’adagio da lui tanto amato appare come un riassunto
dell’esperienza dei suoi anni di scuola napoletani: “Ogni vero, da chiunque sia
detto, viene dallo Spirito Santo”. Infine, si comprende perfettamente la novità
principale del suo pensiero: l’introduzione nella teologia cristiana, a quel
tempo fortemente neoplatonica, della filosofia di Aristotele, ossia
precisamente di quel filosofo pagano che aveva studiato per la prima volta a
Napoli sui banchi di scuola. Come hanno notato Gauthier e Twentymiles, infatti,
tutta la sua missione culturale può essere riassunta così: usare Aristotele per
de-platonizzare la teologia.
In proposito cito solo due delle
sue tante soluzioni innovative: quella data al problema del numero nel Dio uno
e trino e quella data al problema del rapporto tra anima e corpo.
La prima questione ricorda i
dibattiti napoletani – Dio è solo uno o è anche trino? La Trinità rappresentava
una grande difficoltà per i teologi cristiani neoplatonici. Uno degli adagi
principali di ogni platonismo era in effetti questo: l’unità è perfezione, la
molteplicità è imperfezione. Considerare, dunque, Dio, essere perfettissimo per
eccellenza, trino, e quindi molteplice, era difficile da comprendere e
accettare. Sicché, si preferiva sostenere che il numero “tre” attribuito a Dio
fosse piuttosto un modo negativo di parlare, un po’ come dire “Dio non è solo
uno”, ma nulla di più. Tommaso d’Aquino criticò espressamente su questo punto
“tutti gli antichi dottori”. Aristotele alla mano, egli cominciò con il
contestare l’assunto dei neoplatonici: chi l’ha detto che la molteplicità è
segno di imperfezione? L’universo è originariamente molteplice, aveva
argomentato Aristotele contro Platone e Parmenide, fanatici dell’unità. E
Tommaso gli fece eco: la perfezione dell’universo e la sua bellezza implicano
la molteplicità. Se non ci fosse, l’universo sarebbe semplicemente monotono e
brutto. Non era difficile immaginarlo in un tempo in cui dal canto gregoriano
monodico si passava a quello polifonico. E forse non era difficile immaginarlo
per lui dopo l’esperienza felice della molteplicità culturale vissuta a Napoli.
Dunque, concludeva il maestro: se la molteplicità è perfezione, di conseguenza
non può mancare all’Essere perfettissimo. Voilà: come usare la filosofia del
pagano Aristotele per meglio spiegare il mistero cristiano della Trinità e come
fare della Trinità cristiana un’occasione per riscoprire i segreti nascosti
nell’opera del grande filosofo greco: geniale!
La questione dell’anima fu
impostata in modo analogo: prima di Tommaso pressoché tutti i teologi
cristiani, sant’Agostino in testa, avevano sostenuto, platonicamente, che l’io
è l’anima e non il corpo. Quindi, alla morte morirebbe solo il mio corpo, non io,
che sono l’anima. Questo pensavano tutti, da Platone ad Agostino (e pensano
ancora praticamente tutti i cristiani). Non così, però, Tommaso d’Aquino:
“L’anima – scrisse chiaramente – non è tutto l’uomo, e la mia anima non è l’io.
Quindi, anche se l’anima conseguisse la salvezza (salutem) in un’altra vita,
tuttavia non la conseguirei io o qualunque altro uomo. Inoltre, poiché l’uomo
desidera la salute (salutem) anche del corpo, il desiderio naturale verrebbe
frustrato, se non ci fosse la risurrezione dei corpi” (In I Cor., c. 15, l. 2).
Insomma: l’uomo non è solo la sua anima ma un corpo animato, insegnava
Aristotele nel suo libro Sull’anima. Ora, un corpo animato desidera,
istintivamente e per natura, semplicemente non soffrire e non morire; si chiama
istinto di sopravvivenza. Quindi, il messaggio centrale del cristianesimo,
argomentava Tommaso, non è l’immortalità dell’anima, arcinota già dai tempi di
Platone, bensì la risurrezione di tutto l’uomo, anima e corpo, come aveva
scritto san Paolo. Il cuore del cristianesimo, insomma, era la felicità di
tutto l’uomo, anima e corpo, cioè niente altro che una vita bella finalmente
senza sofferenze fisiche e psichiche. Di nuovo: Aristotele utile per
comprendere meglio la rivelazione cristiana, e la rivelazione cristiana
trasformata in un formidabile laboratorio di ricerca filosofica e teologica,
dove meglio apprezzare le perle del filosofo greco.
Il tema appena accennato del
desiderio naturale di felicità e l’impossibilità di soddisfarlo del tutto in
questa vita è uno di quelli che attraversa tutta l’opera di Tommaso con
insistenza ricorrente. Come mai? Forse che il Dottore Angelico non fu serafico?
Qui bisognerebbe lasciare parlare gli avvenimenti in cui fu coinvolto, invece
che sfogliare le agiografie imbellettate, ché certo fra’ Tommaso non fu
circondato da cori angelici.
All’età di vent’anni, appena preso
l’abito domenicano, fu vittima di un agguato: alcuni soldati di Federico II,
tra cui suo stesso fratello Rinaldo, lo catturarono mentre era in viaggio verso
Parigi, gli strapparono l’abito e lo condussero nel castello di Monte San
Giovanni e poi in quello di Roccasecca, entrambi di famiglia: vi resterà
rinchiuso o, diciamo, in soggiorno forzato per più di un anno. Come mai? Storie
di ordinario misero snobismo. La famiglia dei conti d’Aquino, cui Tommaso
apparteneva, non poteva sopportare l’onta di annoverare un familiare tra i
mendicanti! A quel tempo, infatti, i frati domenicani, come i francescani,
vivevano con estremo rigore la povertà evangelica, non possedevano nulla e
vivevano facendo letteralmente l’elemosina. Non è difficile immaginare le
reazioni per nulla angeliche dei suoi fratelli (suo padre era già morto), che
frequentavano la corte dell’Imperatore: Tommaso, un Aquino, ridotto a fare
l’accattone, che vergogna! E non è difficile immaginare la rabbia e la
sofferenza di Tommaso di fronte alla nauseabonda ipocrisia dei suoi fratelli:
gli era lecito entrare nei benedettini, ordine ricco e potente, ma non in
quello dei domenicani, mendicanti, come se la fede cristiana fosse accettabile
solo a patto di non mettere in discussione i veri valori della famiglia, ossia
niente altro che ricchezza e potere.
Comunque, Tommaso non arretrò di un
passo dalla sua intenzione di diventare mendicante, sicché la famiglia fu
costretta a lasciarlo andare a Parigi a studiare, da domenicano. Giunto lì,
però, le cose non andarono certo tanto meglio. I religiosi diocesani francesi,
infatti, erano animati da uno zelantissimo odio per i religiosi mendicanti, per
lo più stranieri e fedelissimi al papa di Roma, e li accusavano – niente di
nuovo sotto il sole – di venire a rubare cattedre e stipendi (e stima da parte
degli studenti) in casa loro. Aizzavano alcuni studenti e il popolo contro i
religiosi stranieri, al punto che nell’inverno 1255-1256 i domenicani venivano
assaliti per strada, sicché il re dovette mandare nientedimeno che gli arcieri
a proteggerli. Si svolse in questo clima di violenza e di paura, in un’aula
semivuota e con le guardie fuori dall’aula, la lezione inaugurale di Tommaso il
primo giorno del suo insegnamento all’università di Parigi.
In un modo o in un altro, comunque,
le sue lezioni iniziarono e a poco a poco Tommaso riuscì a conquistare la stima
di studenti e colleghi. Ma le difficoltà erano per lui solo all’inizio. Con le
prime pubblicazioni iniziarono i sospetti di eresia, le denunce e le condanne.
Vennero attaccati dapprima alcuni suoi studenti che sostenevano le sue tesi,
poi altri colleghi che condividevano con lui la stima per Aristotele. E arrivò
infine anche una condanna del vescovo di Parigi, nel 1270, indiretta (lui non
venne menzionato espressamente) ma chiarissima. E non c’era certo da stare
sereni a quei tempi quando si trattava di condanne ecclesiastiche. Basterà
ricordare che pochi anni prima, sempre a Parigi, Amalrico da Bene, anche lui
filoaristotelico, fu condannato per eresia e ucciso, mentre nove suoi allievi
furono bruciati vivi alle porte di Parigi, e qualche anno dopo, lo stesso
vescovo di Parigi, non ancora pago, fece esumare le ossa di Amalrico – che, non
essendo state bruciate, erano ancora lì – e le fece gettare in terra non
consacrata. Ecco, questo era il clima, caldo nel vero senso della parola, in
cui Tommaso insegnò e scrisse: un clima ecclesiastico infernale. No, la vita di
Tommaso non fu sempre felice. Fu la vita di un uomo come tanti, come molti di
noi: amato da alcuni, odiato da altri.
La sua grafia, studiata
mirabilmente da Gils, e poi molti suoi scritti, rivelano i tratti di un uomo
tutt’altro che serafico, ma, al contrario, irascibile, nervoso, stanco,
dubbioso, di fretta, meticoloso, chiaro ma anche sbadato, geniale ma mai
testardo, anzi spesso onestamente capace di cambiare opinione.
Dei molti suoi ripensamenti – il
campione mondiale della filosofia perenne non considerava perenne la sua stessa
opera – uno, avvenuto verso la fine della sua vita, mi sembra particolarmente
significativo, perché riguarda il senso della frase più centrale di tutta la
teologia, ossia “Dio esiste”. Dopo anni faticosi di insegnamento, infatti, tra
Roma, Orvieto e Parigi, Tommaso fece ritorno nella sua Napoli. Era stanco.
Stanco delle tensioni, delle incomprensioni, delle lotte infinite, delle
denunce, delle condanne. Sembra che a Napoli Tommaso ebbe l’occasione di
rileggere il filosofo ebreo Mosè Maimonide, di cui gli aveva parlato proprio lì
il suo antico maestro Pietro l’Irlandese. Così, affascinato dall’ebraismo dove
il nome di Dio è impronunciabile, Tommaso si convinse che “Dio esiste” non è
una frase molto sensata, perché “Dio” non è il nome proprio di Dio, come lo
sono ad esempio Pietro o Paolo o Sara. Dio infatti non ha nome proprio e non ha
nome alcuno: è innominabile. Sicché, a rigore, non può essere il soggetto di
alcuna proposizione, nemmeno della proposizione “Dio esiste”. Di lì a poco, dopo
una Messa vissuta in lacrime con una intensità tutta speciale, confidò al suo
segretario: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia”. E da quel momento
non scrisse più nulla, lasciando incompiute diverse opere importanti. Guglielmo
da Tocco, manco a dirlo, si premurò di abbellire quella famosa frase con
un’aggiunta adatta a un candidato santo, allungandola un poco: “Tutto quello
che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quello che mi è stato rivelato”,
come se Dio gli avesse parlato per l’ennesima volta.
A me sembra, invece, che la frase
anche senza la precisazione soprannaturalistica, anzi proprio senza di essa,
sia da sola bellissima: cosa c’è di più drammatico ma anche di più grande, di
più umano, di più autenticamente religioso, di veramente mistico, che
comprendere, dopo anni passati a scrivere milioni di parole su Dio, che Dio non
si può scrivere, non si può dire, non si può comprendere? Anzi, non solo Dio ma
proprio tutto: omnia. Tutto è alla fin fine indicibile e incomprensibile. Un grande,
immenso, mistero. So di non sapere nulla di nulla. Qui il mistico e l’agnostico
si incontrano. E qui san Tommaso d’Aquino, come ognuno di noi, trova finalmente
pace. Tutto è paglia.
(Fonte: Giovanni Ventimiglia, Il
Foglio, 18 settembre 2023)