“L’esempio più notevole che si trovi nella nostra storia del
tentativo di far prevalere la concezione della sovranità dello Stato laico
contro la ben radicata tradizione confessionale italiana”. Così Vittorio
Gorresio sintetizza dalle pagine del suo libro, Risorgimento
scomunicato (La Zisa, pp. 200, euro 16,90), l’azione portata avanti
dai politici del Risorgimento, che, in un’Italia in odor di unità, promossero
in maniera risoluta una legislazione d’impronta laica e liberale, in grado di
togliere privilegi a una Chiesa fino ad allora intoccabile e lasciata libera di
spadroneggiare indisturbata. Un’azione lenta ma coraggiosa, che ebbe il merito
di modernizzare una nazione prigioniera di un clero reazionario e dalla vita
facile, portandola in tal modo sullo stesso livello di altri stati europei senza
per questo scristianizzarla. Il modenese Gorresio, preziosa penna di molte
testate, tra cui Il Messaggero, Risorgimento liberale e La
Stampa, annota i fatti analizzandoli da diverse prospettive e corredandoli
d’innumerevoli aneddoti, documenti e carteggi, che conferiscono allo scritto
una vivacità e un gusto del tutto godibili. Il volume, pubblicato per la prima
volta nel 1958 dall’editore fiorentino Parenti, viene riproposto proprio mentre
ricorrono i 150 anni dell’Unità d’Italia, impreziosito dalla puntuale
prefazione di Gianni Vattimo.
L’analisi
assume come punto di partenza il 1850, data in cui si dà inizio alla
discussione della legge Siccardi nel quadro legislativo del Parlamento
subalpino, in seguito esteso al Regno d’Italia. I legislatori proponenti
miravano ad abolire il foro ecclesiastico, la manomorta, il diritto d’asilo e
la possibilità per la Chiesa e gli enti ecclesiastici di acquisire la proprietà
di beni immobili senza l’autorizzazione del governo. Inoltre, sempre in quel
frangente, si avviava una discussione sulla necessità di regolare il contratto
di matrimonio nelle sue relazioni con la legge civile. Fin qui i fatti, seguiti
dai pareri, favorevoli o contrari, delle più autorevoli voci della politica
dell’epoca: Vittorio Emanuele II in primis, Cavour, D’Azeglio,
Balbo, Revel e così via. Immediata esordisce l’attività sovversiva e
demonizzatrice che la Chiesa conduce contro la determinazione emancipatrice
dello Stato. I documenti riportati da Gorresio testimoniano la presenza di un
clero agguerrito, pronto a qualsiasi tipo di gesto eversivo e dinamitardo pur
di difendere i privilegi e il potere che lo Stato s’era deciso a sottrargli. La
rivalsa si serviva di tutti gli strumenti spirituali che il clero aveva a
disposizione e il cui uso distorto e ricattatorio veniva promosso dall’alto,
dallo scranno di San Pietro. Da un lato il clero si rifiutava di celebrare
messe e festività arrivando a scomunicare a divinis e a
sospendere quei preti che, invece, si dimostravano concilianti, dall’altro il governo
processava, arrestava e confinava vescovi e cardinali. Ogni tentativo di
trattativa era inconciliabile con le intenzioni delle due parti, cosicché il
braccio di ferro divenne sempre più aspro.
Sebbene
il clima fosse ogni giorno più acceso e ingestibile, il governo fronteggiò la
Santa Sede con rigore e intransigenza, come afferma l’autore:
Appare
perciò chiaro pur tra la serie degli errori e delle intemperanze, che una sola
restava la strada da seguire da parte dei governi liberali: coraggio e audacia,
spregiudicatezza portata fino al segno da poter essere confusa con la mancanza
di scrupoli. In mancanza di simili espedienti l’unificazione dell’Italia, da
compiersi a dispetto della Santa Sede e di un clero che si manifestò quasi
sempre retrivo, non sarebbe mai stata realizzata. Fortuna che quel coraggio e
quell’audacia non mancarono.
Uno
degli aspetti più curiosi e interessanti dell’opera di Gorresio è proprio il
racconto dettagliatamente documentato di tutte le azioni eversive portate
avanti da un clero ribelle, che, malgrado numerosi tentativi di rappel
à l’ordre da parte delle istituzioni, si dimostrò “di gran lunga più
temibile che un esercito austriaco”. E così veniamo a sapere che l’arcivescovo
Fransoni, ad esempio, si rifiutò di somministrare i sacramenti al morente
ministro Pietro Derossi di Santarosa, uno dei fautori della legge per
l’abolizione del foro ecclesiastico, poiché questi, in punto di morte, non
aveva ritrattato il proprio operato e non s’era dimostrato pentito. Fransoni fu
così denunciato per abusi e arrestato. Sempre a proposito di morti celebri,
ecco i toni con cui il giornale Civiltà Cattolica riporta la
notizia del decesso di Cavour, il 6 giugno del 1861: “Il Conte di Cavour è ora
giudicato da Dio. Gli auguriamo di cuore che negli ultimi istanti di sua vita
egli abbia impetrato da Dio nell’altro mondo un giudizio più degno di quello
che in questo di lui darà la storia”. Non son certo parole che trasudano
perdono o misericordia. La confisca dei beni toccò invece al clero napoletano, quando,
compatto, si rifiutò di intervenire alla cerimonia in onore di re Vittorio
Emanuele II che si recava a venerare S. Gennaro.
L’arma
più grottesca che il clero decise di impugnare per aizzare lo scontro fu quello
della “sacra jettatura”. A questo argomento Gorresio dedica un’ampia sezione,
certamente la più pittoresca del testo. Si tratta di una pratica mediante la
quale gli ecclesiastici dell’epoca interpretavano le punizioni divine contro i
patrioti del Risorgimento. Accantonata la suggestione dei “miracoli provati”
(ad esempio quello della Madonna che muove gli occhi), infatti, la Chiesa optò
per uno strumento psicologicamente più sottile e dal grande potenziale
terrorizzante, che seguiva il principio sibillino per cui “chi attacca la
Chiesa finisce male”. Uno dei più noti profeti di sventure fu Don Bosco,
proclamato beato nel 2002. Nel 1854, nei giorni in cui in Parlamento si
presentava il disegno di legge per la soppressione dei conventi, Don Bosco
scriveva al re raccontandogli dei brutti sogni che aveva fatto e che
coinvolgevano la corte. Dopo qualche giorno morirono la regina madre e Maria
Adelaide, moglie di Vittorio Emanuele, sicché la discussione venne interrotta
per lutto. E per paura, probabilmente. Gli avvertimenti di malaugurio e
l’interpretazione distorta non tardavano ad arrivare in nessuna occasione, si
trattasse di guerre, malattie o catastrofi naturali. Persino il papa non
disdegnava la pratica, tanto che arrivò a dichiarare preferibile la morte dei
bambini piuttosto che la loro crescita in seno a un’educazione liberale.
È
chiaro che questa corrosiva gara di maledizioni avesse un forte impatto sulla
popolazione e sull’intellighenzia dell’epoca, come accortamente registra
Gorresio: si costituì la “Società dei liberi pensatori” e, dopo poco, la
“Società primaria per gli interessi cattolici”, preti e frati venivano
insultati e percossi per le strade, ogni giorno in tutta Italia si mettevano in
scena rappresentazioni teatrali che raccontavano vizi e nefandezze del clero.
Lo stesso Garibaldi fu autore di alcune opere letterarie antiecclesiastiche e
denigratorie del Papato: pensava, in questo modo, di contribuire alla causa
della patria, come sostenne Carducci, “Garibaldi ha fatto tutto per l’Italia,
anche i versi”.
L’attualità
dell’opera di Gorresio risiede nell’aver risalito la corrente e aver analizzato
a fondo le dinamiche di un periodo storico estremamente complesso, che ha
prodotto, come scrive l’autore a inizio saggio, intere generazioni dannate e
scomunicate. Una frase della prefazione di Vattimo basti a farci
contestualizzare e capire la modernità di Risorgimento scomunicato:
“Se la Chiesa si riduce, oggi, a una multinazionale di cui si può parlare
esaurientemente in termini di potere, ciò è anche il risultato dell’uso –
simoniaco, possiamo dire – che essa stessa ha fatto dei suoi strumenti
spirituali.”
Il
libro: Vittorio Gorresio, RISORGIMENTO SCOMUNICATO, Prefazione di Gianni
Vattimo, pp. 200, euro 16,90 (ISBN 9788895709895)
Pubblicato
la prima volta nel 1958 dall’editore fiorentino Parenti, Risorgimento scomunicato raccoglie
gli scritti di Vittorio Gorresio per Il
Mondo, una serie storica di articoli dal titolo Processo al clero dopoil ‘60.
Storico appassionato, intransigente documentatore, Gorresio traccia una
puntuale e puntigliosa ricostruzione delle origini dei contrastati rapporti tra
Stato e Chiesa che resero tanto drammatico il Risorgimento. La descrizione
dell’intransigentismo clericale rispetto alla progressiva laicizzazione dello
Stato italiano ci è fornita dall’autore attraverso la meticolosa raccolta di
missive tra membri del governo ed esponenti del clero, cui si aggiungono le
dettagliate ricostruzioni degli episodi salienti e del profilo dei personaggi
che di questo travagliato periodo storico si resero protagonisti. Vengono descritte,
in sequenza, le vicende di una Chiesa, scomunicante e punitiva, addirittura
iettatoria, di là dalla trasformazione che, negli anni a seguire, la renderà
refrattaria, incapace di stare al passo con la storia, cioè con l’evoluzione
della coscienza morale e politica dei cittadini laici.
Vittorio Gorresio, giornalista, scrittore e
saggista nacque a Modena da famiglia piemontese il 18 luglio 1910. Inviato
speciale e corrispondente di guerra per Il
Messaggero di Roma, fu tra i più efficaci espositori del
dramma del dopoguerra sulle colonne della testata Risorgimento Liberale,
quotidiano diretto da Mario Pannunzio col quale collaborò anche per il
settimanale politico Il
Mondo. Firma prestigiosa anche de L’Europeo di Arrigo Benedetti, Gorresio
scrisse una decina di saggi storici ottenendo importanti riconoscimenti
giornalistici e premi. Nel 1980 l’autobiografia La vita ingenua gli
valse il Premio Strega. Lavorò fino a poco prima della sua morte, nel 1982,
curando la rubrica “Taccuino” per il quotidiano La Stampa.
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