venerdì 6 settembre 2024

Ombre sul mare

 


Nuovo naufragio di migranti, 21 dispersi con tre bimbi... 



Ombre sul mare

Soffia il vento delle terre abbandonate,
tra le mani il vuoto,
una casa lontana che non ha nome.

Tu, che cammini tra l'onda e la sabbia,
sei straniero ovunque,
nelle parole che non conosci,
nei volti che ti guardano senza vederti.

I tuoi passi affondano nell'acqua salata,
un'isola che non offre riparo,
un mare che inghiotte storie mai raccontate.
E tu ti chiedi, nel silenzio del buio:
“Chi sono io, se non una vita sospesa?”

Le stelle non rispondono,
il cielo si chiude come una ferita.
Solo il mare conosce il tuo nome,
e lo ripete nell’eco delle sue onde,
ma nessuno ascolta.

(Davide Romano)

giovedì 5 settembre 2024

"Essere stupidi per essere felici. Un elogio della più democratica delle qualità umane e sono solo" di Davide Romano, giornalista

 


L'elogio della stupidità, signori, è un'impresa che richiede coraggio, e non poco. In un'epoca in cui la saggezza è tanto celebrata e la conoscenza osannata, si rischia di passare per provocatori o, peggio ancora, per pazzi. Ma, come ci ricorda l'amico Voltaire, “È difficile liberare gli sciocchi dalle catene che venerano.” E dunque, armati di una buona dose di ironia e di una certa dose di sana imprudenza, mi accingo a tessere lodi di ciò che tanto spesso viene disprezzato.

Innanzitutto, la stupidità è democratica. È forse la più equamente distribuita tra i beni umani. Non richiede né patrimonio né cultura, né lignaggio né istruzione. È accessibile a tutti, dal nobile al mendicante, dal dottore al contadino. Nessuna barriera di classe, di razza o di religione può contenerla. È, se vogliamo, la forma più pura di uguaglianza. Come osservava Charles Darwin, “L’ignoranza genera più frequentemente fiducia che non la conoscenza.”

La stupidità, lungi dall'essere un difetto, è una forza motrice. Non è forse vero che la storia umana è disseminata di esempi in cui la cieca ostinazione ha portato al progresso? “Perché fermarsi a riflettere quando l’azione ci invita?” sembra sussurrare la stupidità, spingendo l’uomo verso l’ignoto con la baldanza di chi non sa di cosa dovrebbe aver paura. E spesso, è proprio in questo ignorare il rischio che si scoprono nuovi mondi.

Ma la stupidità ha un altro grande pregio: la semplicità. In un mondo complesso e sovraccarico di informazioni, la stupidità offre un rifugio sicuro. È un ritorno all'essenziale, una boccata d’aria fresca nel caos dell’intellettualismo. Blaise Pascal ci avverte che “La maggior parte dei problemi derivano dal fatto che non possiamo stare seduti tranquilli in una stanza.” Ebbene, la stupidità è la madre della tranquillità, la chiave per una vita serena e senza troppi pensieri.

E come non ricordare il caro Oscar Wilde, che con il suo acume ci ricorda: “È meglio essere sciocchi di fronte a una grande idea che saggi di fronte a una banalità.” La stupidità, nella sua forma più nobile, è un’apertura al nuovo, una disposizione d’animo che ci permette di accogliere con candore ciò che altrimenti rigetteremmo per paura o per convenienza.

E poi, non dimentichiamo che la stupidità è anche un grande catalizzatore sociale. Quanto ci unisce, quanto ci fa sorridere e ridere! Nulla crea più complicità di una comune, condivisa stupidità. Quanti legami si sono forgiati su una battuta sciocca, quanti amori sono sbocciati grazie a un piccolo, innocente atto di stupidità! La vita, insomma, sarebbe infinitamente più arida e grigia senza la benedetta stupidità.

Infine, lasciatemi concludere con un pensiero del nostro caro Montaigne, che, nel suo consueto scetticismo, ci ammonisce: “La cosa più saggia che possiamo fare è non far caso alla saggezza.” E forse, in queste parole, troviamo il vero senso dell’elogio della stupidità. Essa ci ricorda che la vita è fatta per essere vissuta, non dissezionata; che l’errore è umano, troppo umano; e che, in fondo, la stupidità è una parte essenziale di quella meravigliosa commedia che è l’esistenza.

Siamo dunque grati alla stupidità, questa umile compagna di viaggio, che, con il suo sorriso ingenuo e la sua tenacia disarmante, ci ricorda che vivere è, prima di tutto, un atto di coraggio e di leggerezza.

martedì 3 settembre 2024

“Teatini, 500 anni di fedeltà a Dio e alla Chiesa” di Davide Romano, giornalista




Ah, i Teatini! Un ordine che, a volte, sembra sfuggire alle lenti della storia e dell'attenzione popolare, ma che merita di essere celebrato con tutti gli onori, soprattutto in questo anno in cui ricorre il cinquecentenario dalla loro fondazione. Cinque secoli fa, nel 1524, nacque una congregazione che incarnava lo spirito del Barocco: un intreccio di profonda pietà, rigore ascetico, e, perché no, un pizzico di quella vanità clericale che, se ben dosata, non guasta mai.

Fondati da Gaetano di Thiene e Gian Pietro Carafa, futuro Papa Paolo IV, i Teatini non scelsero un santo o un mistero per dare nome al loro ordine. No, scelsero di legarsi al vescovo di Chieti, una piccola città che pochi saprebbero collocare su una mappa. Ma questa scelta, apparentemente modesta, nasconde una saggezza profonda. Come suggerisce Sant'Agostino, “La misura dell'amore è amare senza misura,” e i Teatini, nel loro amore per la Chiesa, non cercavano di impressionare con titoli altisonanti, ma puntavano alla sostanza e alla sincerità della loro missione.

La magnificenza delle chiese teatine è un paradosso affascinante: dietro l’austerità dell’intento si cela una bellezza che esalta il divino. Come diceva San Tommaso d'Aquino, “Il bello è lo splendore del vero,” e i Teatini lo dimostrarono attraverso architetture che non solo servivano alla gloria di Dio, ma che elevavano lo spirito di chiunque vi mettesse piede. Le loro chiese, veri gioielli del Barocco, risplendono ancora oggi, unendo la grandiosità artistica alla profondità della fede.

Lo stile dei Teatini, a differenza di altri ordini più modesti nelle apparenze, rifletteva una comprensione particolare della povertà: una virtù interiore che non doveva escludere l'apprezzamento della bellezza creata. Come affermava Romano Guardini, “L’arte è una creazione sublime, un’immagine dello Spirito divino,” e i Teatini sembravano aver abbracciato questa visione, trasformando le loro chiese in opere d’arte che parlano dell’ineffabile.

Inoltre, i Teatini erano noti per la loro discrezione. Non cercavano la fama né la gloria, non predicavano alle masse come i Domenicani né si immergevano nelle dispute intellettuali come i Gesuiti. Preferivano il silenzio contemplativo, l'influenza nascosta, ma pervasiva, nelle sfere ecclesiastiche e politiche. Come ricordava Kierkegaard, “La vera grandezza è invisibile,” e i Teatini, con la loro sapiente ritrosia, ne sono un perfetto esempio.

Ma ciò che rende i Teatini davvero speciali, e forse un po' inaspettati, è la loro umanità. In un mondo ecclesiastico spesso dominato da rigide regole e severe discipline, i Teatini ci mostrano che la santità può essere, come dice Karl Rahner, “una profonda umanità.” Un’umanità che accoglie sia la magnificenza del Barocco che l’austerità dell’ascetismo, un’umanità che non disdegna la bellezza, la gioia, e, sì, anche un tocco di vanità mondana.

In definitiva, i Teatini ci ricordano che la via della santità è un cammino ricco di contraddizioni, dove l'uomo, come affermava Blaise Pascal, “supera infinitamente l’uomo.” E in questo anniversario dei loro 500 anni, rendiamo omaggio a un ordine che, nella sua apparente discrezione, ha saputo unire sacro e profano, grandezza e modestia, in un abbraccio che è profondamente, splendidamente umano.

 

lunedì 2 settembre 2024

“Palermo, l’illusione di un cambiamento impossibile” di Davide Romano


Palermo, la città che avvolge i suoi abitanti in un abbraccio di calore e rassegnazione, è un paradosso ambulante, un labirinto di bellezza e degenerazione che sembra perpetuare una tragica commedia. Passeggiando tra le vie lastricate e i palazzi secolari, si ha l'impressione di trovarsi in un romanzo di Tomasi di Lampedusa e Kafka, dove l'inevitabilità di un destino immutabile si fonde con la speranza di un cambiamento che non arriva mai.

La città, orgogliosamente appesa tra il passato e il presente, si comporta come un grande attore che recita sempre la stessa parte: quella di chi aspira a una modernità che poi, immancabilmente, si dissolve in nulla. Questo eterno gioco di specchi e illusioni è un tormento continuo per chi, invece, vorrebbe vedere un vero cambiamento. La bellezza di Palermo, con i suoi monumenti e la sua storia, non può nascondere il marcio che corrode il cuore pulsante della città.

E che dire della lotta contro la mafia? Un'altra ironia amara del palcoscenico palermitano. Da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due eroi della giustizia, fino ai magistrati e ai poliziotti che hanno continuato a combattere, Palermo ha visto sacrifici inenarrabili. Eppure, nonostante questi eroismi, la mafia continua a prosperare come una pianta infestante. Falcone e Borsellino sono stati martiri di una guerra che sembra non avere mai fine, eroi che hanno pagato il prezzo più alto per un cambiamento che non si è mai veramente materializzato.

Si potrebbe pensare che Palermo sia una città che ama il proprio immobilismo come un amante geloso. Le promesse di riforme e cambiamenti sembrano essere solo un esercizio di retorica vuota. Politici e amministratori fanno dichiarazioni altisonanti che, alla prova dei fatti, si dimostrano ridicole. La riflessione di Lord Acton sul potere, “Il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente,” trova una conferma lampante nella realtà palermitana. Qui, il potere sembra essere un gioco sporco in cui i più forti e i più influenti giocano a discapito dei più deboli.

La città si adatta a una sorta di vita “dimenticata,” come se il tempo si fosse fermato in un ciclo di perpetuo rimpianto e autoindulgenza. Le parole di Albert Camus sull’assurdo, “L’assurdo nasce dalla confrontazione tra il chiamato umano e il silenzio irragionevole del mondo,” risuonano particolarmente vere a Palermo. La città, con le sue promesse non mantenute e i suoi cicli interminabili di violenza e corruzione, appare come una delle più alte espressioni di questo assurdo.

Nel panorama palermitano, il cambiamento è spesso una facciata, una recita ben preparata ma mai veramente realizzata. Ogni tentativo di riforma è destinato a naufragare sotto il peso di una tradizione opprimente e di interessi consolidati. Friedrich Nietzsche osservava che “la grandezza di una città non si misura dal numero di edifici, ma dal numero di anime che vi sono sopravvissute.” Palermo, con il suo eterno ciclo di speranze infrante e promesse mai mantenute, è un testamento vivente di questa riflessione.

Eppure, Palermo è più di un semplice teatro di contraddizioni; è un simbolo della nostra incapacità di affrontare e risolvere le questioni che più ci angosciano. La città, con tutta la sua bellezza e la sua brutalità, resta un monumento alla complessità dell’esistenza umana, un palcoscenico dove le speranze di redenzione si mescolano con la realtà cruda di una società che rifiuta di cambiare. Palermo rimane, così, un esempio immortale di come l'immobilità e l'autoindulgenza possano trasformarsi in un dramma eterno, un'opera tragica senza fine, che costringe i suoi cittadini a rivivere continuamente una storia di bellezza e corruzione, di amore e rabbia.

 

sabato 31 agosto 2024

“Alla ricerca dell’unità perduta. Perché Oriente e Occidente cristiani devono tornare a dialogare e a incontrarsi” di Davide Romano, giornalista

 




C’è qualcosa di irresistibile nel fascino dell’Oriente Cristiano, una sorta di incanto che mi prende ogni volta che mi immergo nella storia e nella spiritualità di quei luoghi antichi e misteriosi. È un’attrazione che nasce non solo dalla bellezza delle liturgie, dalle icone che sembrano vivere, o dai canti che risuonano come un eco dell’eternità, ma da un senso di profondità spirituale che, purtroppo, abbiamo in gran parte perduto qui in Occidente.

L'Oriente Cristiano è una finestra aperta sull'infinito, una porta socchiusa che lascia intravedere il mistero di Dio e la bellezza della fede incarnata. Eppure, questa ricchezza spirituale non è un tesoro esclusivo, riservato a pochi eletti. Anzi, è un patrimonio che appartiene all'intera cristianità, a quella Chiesa che, come ci ricorda San Paolo, è “un solo corpo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione” (Efesini 4:4).

Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché questo senso di separazione, di distanza, tra Oriente e Occidente? Perché quella che era una sola Chiesa, unita nella fede e nei sacramenti, è stata spezzata, frammentata, da divisioni che sembrano insormontabili?

Qui, forse, si cela la tragedia della storia umana, quella tendenza innata dell'uomo a creare barriere, a erigere muri anziché costruire ponti. Eppure, l’attrazione per l’Oriente Cristiano non è soltanto il richiamo di una bellezza antica, ma anche la nostalgia di un'unità perduta, il desiderio di ricomporre ciò che l’orgoglio e l’incomprensione hanno spezzato.

“La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio,” scriveva Sant’Ireneo di Lione, uno dei grandi Padri della Chiesa. E in questa visione di Dio, non c’è distinzione tra Oriente e Occidente, tra Greco e Latino, tra Romano e Bizantino. Tutti sono chiamati a contemplare il volto di Cristo, tutti sono invitati a partecipare alla sua gloria. Ma per farlo, occorre superare le divisioni, ritrovare l’unità che era il segno distintivo della Chiesa primitiva.

Pensiamo, per esempio, alla profondità teologica dell'Oriente, alla sua capacità di penetrare nei misteri divini con una finezza e una sensibilità che spesso mancano all'Occidente, troppo spesso concentrato su aspetti più razionali e giuridici della fede. L'Oriente ci ricorda che la teologia non è solo una scienza, ma una forma di preghiera, un atto di adorazione. “La vera teologia è quella che si fa in ginocchio,” diceva Evagrio Pontico, uno dei grandi monaci del deserto. E questa teologia in ginocchio, questo approccio contemplativo e mistico alla fede, è qualcosa di cui l'Occidente ha un bisogno disperato.

Ma l'Occidente non ha solo da ricevere. Ha anche molto da offrire. Ha sviluppato una spiritualità dell'incarnazione, dell'azione, del coinvolgimento nel mondo, che è altrettanto importante e complementare alla spiritualità orientale. San Benedetto da Norcia, con il suo “Ora et labora,” ha dato vita a un modello di vita cristiana che unisce preghiera e lavoro, contemplazione e azione, creando una sintesi che ha plasmato la civiltà occidentale. E questa sintesi, questa capacità di unire cielo e terra, è qualcosa che potrebbe arricchire profondamente anche l'Oriente.

C'è una bellezza particolare nel pensiero che l'Oriente e l'Occidente, come due polmoni di un unico corpo, possano respirare insieme, ognuno apportando all'altro ciò che gli manca. “Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero” (Matteo 11:30), dice il Signore, e forse è proprio questo il giogo che dobbiamo accettare: il giogo dell'unità, che non è uniformità, ma comunione nelle diversità.

I Padri della Chiesa avevano una visione profondamente unitaria della fede cristiana. San Giovanni Crisostomo, la cui Divina Liturgia è il cuore della spiritualità bizantina, parlava dell'Eucaristia come del “vincolo della carità”, il sacramento che unisce i cristiani in un solo corpo. E Sant'Agostino, dall'altra parte dell'Impero, predicava che “dove c’è carità e amore, lì c’è Dio.” Questi due giganti della fede, pur appartenendo a tradizioni diverse, erano uniti nella convinzione che l'amore è il fondamento della Chiesa e che solo nell'amore si può ritrovare l'unità.

L'Oriente Cristiano, con la sua resistenza contro le intemperie della storia, contro le invasioni, le persecuzioni, i tentativi di omologazione, ci offre una lezione preziosa: quella della perseveranza nella fede. “Siate saldi e irremovibili, sempre abbondanti nell’opera del Signore” (1 Corinzi 15:58), ci esorta San Paolo, ricordandoci l'importanza di non cedere di fronte alle difficoltà.

L'Occidente, con la sua capacità di riflessione teologica, la sua spiritualità dell'incarnazione, può offrire all'Oriente un aiuto prezioso per affrontare le sfide del presente. Ma solo se entrambi i mondi sanno riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, e accettano di imparare l'uno dall'altro.

Ricomporre l’unità perduta tra Oriente e Occidente non è solo un imperativo ecumenico, ma una necessità spirituale per la Chiesa del terzo millennio. “Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te; siano anch'essi uno in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17:21). Queste parole di Gesù, pronunciate durante l’Ultima Cena, sono un richiamo potente a ritrovare quell'unità che è il segno distintivo del cristianesimo.

Il cammino verso l'unità non sarà facile. Richiederà umiltà, pazienza, e soprattutto, una grande capacità di ascolto reciproco. Ma ne vale la pena. Perché solo unendo le ricchezze spirituali dell'Oriente e dell'Occidente potremo riscoprire la pienezza della fede cristiana, quella fede che, come diceva San Basilio, “è il dono più prezioso che l'uomo può ricevere da Dio.”

In un mondo sempre più disorientato e privo di punti di riferimento, riscoprire l’Oriente Cristiano è un po’ come ritrovare una bussola perduta. Ma non basta. È necessario anche riconciliare quella bussola con le tradizioni occidentali, creando un dialogo vivo e fecondo che possa arricchire entrambe le parti. Solo così potremo sperare di ricomporre l’unità perduta, di guarire le ferite del passato e di costruire una Chiesa che, pur nelle sue diversità, sia veramente una, santa, cattolica e apostolica.

 

martedì 27 agosto 2024

“Quando incontrai Madre Teresa di Calcutta” di Davide Romano, giornalista

Avevo circa vent'anni quando incontrai per la prima volta Madre Teresa di Calcutta, un incontro quasi casuale, ma che avrebbe lasciato un segno profondo nella mia vita. Ero uno studente a Roma, immerso nei miei studi, sempre alla ricerca di risposte tra le pagine dei libri. Un giorno, mentre mi trovavo al monastero del Celio, dove le suore avevano una casa, ebbi l’opportunità di incontrare questa donna straordinaria. Piccola di statura, quasi fragile, ma con una presenza che riempiva l'intera stanza, Madre Teresa mi colpì subito per la sua umiltà e serenità. Le sue parole erano semplici ma cariche di un significato che andava oltre la loro apparente banalità: “Non è tanto quello che facciamo, ma quanto amore mettiamo nel farlo”. Da quel momento, capii che c'era una profondità nella vita che i libri non potevano insegnare.


Ma quell'incontro non fu il solo. Roma, con le sue chiese e i suoi luoghi di culto, era spesso teatro di cerimonie religiose alle quali, da buon studente curioso, partecipavo. E fu in queste occasioni che i miei cammini si incrociarono nuovamente con quelli di Madre Teresa. Era presente a diverse celebrazioni, sempre con quella sua straordinaria capacità di passare inosservata e allo stesso tempo riempire l’ambiente con la sua aura di santità.


Ricordo una messa solenne in particolare, celebrata in una chiesa vicino al Vaticano. La chiesa era gremita di fedeli, eppure, nonostante la folla, Madre Teresa sembrava riuscire a raggiungere ognuno di noi con il suo sguardo. Dopo la cerimonia, ebbi la fortuna di scambiare qualche parola con lei. Questa volta, mi disse: “La pace comincia con un sorriso”. Non era solo un invito a vivere con leggerezza, ma un richiamo profondo a cercare la serenità in ogni gesto, anche il più piccolo. Le sue parole erano un balsamo per l'anima, un promemoria che anche nelle piccole cose si trova la vera essenza della vita.


Ogni volta che la incontravo, che fosse in una messa, una funzione o una semplice preghiera, Madre Teresa aveva sempre una parola di conforto, una frase che rimaneva impressa nella mia mente. In una delle ultime cerimonie a cui partecipai, mi avvicinai di nuovo a lei, e lei, riconoscendomi, mi disse: “Fai le piccole cose con grande amore”. Quel semplice consiglio, apparentemente insignificante, divenne per me una guida nel mio cammino personale e professionale.


Con il passare degli anni, ho capito quanto questi incontri siano stati importanti per la mia crescita. Madre Teresa non era solo una figura lontana, una santa in vita, ma una presenza tangibile che, attraverso le sue parole e il suo esempio, mi ha insegnato il vero valore dell’umiltà, dell’amore e del servizio agli altri. Anche oggi, ripensando a quei momenti, sento la forza di quei suoi insegnamenti, e mi rendo conto di quanto siano stati fondamentali nel formare la persona che sono diventato.


Roma, con i suoi monumenti e le sue antiche tradizioni, è stata testimone di questi incontri. Ma più di ogni altra cosa, è stata la cornice in cui ho avuto il privilegio di incontrare una delle anime più luminose del nostro tempo. Quei ricordi, le sue parole, rimarranno per sempre impressi nella mia memoria, come un faro che illumina il cammino nei momenti di dubbio e difficoltà.


“Perché, in fondo, a noi la mafia ci piace!” di Davide Romano, giornalista




Alla fine del meraviglioso film "I cento passi" su Peppino Impastato, c’è una frase che mi colpisce ogni volta che vedo un politico, di quelli in odor di mafia – un fetore che, chissà perché, nessuno sembra più sentire – che si pavoneggia davanti alle telecamere. È lo sfogo di Salvo Vitale, amico di Peppino, in diretta su Radio Aut, subito dopo l’assassinio di quest'ultimo. La sua dichiarazione ha una crudezza che risuona ancora oggi: “E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Non perché ci fa paura, ma perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia! E tu, Peppino, non sei stato altro che un povero illuso! Sei stato un ingenuo, un 'nuddu miscato cu' niente!'”

Questa frase squarcia il velo di ipocrisia con una brutalità disarmante, mettendo a nudo un’amara verità: in fondo, la mafia è un’istituzione ben accetta e consolidata nella nostra cultura, e i tentativi di combatterla spesso sembrano scontrarsi con un’ampia complicità di fondo e, purtroppo, non solo in Sicilia ma nell’interno Paese.

Benvenuti nel paradosso italiano, dove la mafia è un po' come il vino: più invecchia, più diventa pregiata. Nella nostra terra di santi e di eroi, di commemorazioni e di festeggiamenti, c’è un bel mistero da svelare. Mentre innalziamo monumenti e celebriamo con fervore le vittime della mafia, ci troviamo a eleggere, con una disinvoltura da far invidia al miglior prestigiatore, personaggi con legami più o meno nascosti con il crimine organizzato. Che meraviglia di coerenza, non è vero

Ogni anno, le celebrazioni per le vittime della mafia sono quasi religiose. Le strade si riempiono di manifestazioni, le scuole parlano di loro come di santi, e i media si scatenano in reportage agiografici. Gli eroi caduti sono celebrati con una solennità che farebbe impallidire persino i protagonisti delle più epiche storie bibliche. Ma, ironicamente, questo culto di superficie sembra servire più a sollevarci dalla nostra coscienza collettiva che a promuovere un vero cambiamento. Come ha scritto Roberto Saviano, “Abbiamo costruito un mausoleo per le vittime, ma i veri templi di culto sono le urne elettorali dove scegliamo i loro assassini”.

La retorica e la pompa delle celebrazioni sono più uno sport nazionale che un impegno reale. La nostra predilezione per il rito del ricordo ci permette di addormentarci sul cuscino della nostra apparente moralità, mentre il vero lavoro – combattere la mafia in modo incisivo e costante – viene rimandato a un futuro indefinito.

E qui viene il bello. Per ogni commemorazione di un martire della mafia, abbiamo una schiera di candidati con amici poco raccomandabili o con carriere torbide. Un fenomeno così unico che quasi ci si aspetterebbe un premio Nobel per la coerenza nella schizofrenia politica. D’altra parte, è anche un fatto curioso che mentre sventoliamo bandiere per le vittime, molte elezioni locali e nazionali vedono l’elezione di personaggi notoriamente imparentati con la criminalità organizzata. La Sicilia, regina incontrastata di questa contraddizione, è un caso emblematico.

Daniele Luttazzi ha descritto questa situazione con un lampo di saggezza sarcastica: “In Italia, il culto dei martiri e la promozione dei mafiosi non sono semplicemente compatibili; sono complementari. L'uno senza l'altro non potrebbe esistere”. Certo, mentre stringiamo la mano ai familiari delle vittime e cantiamo in coro “Bella ciao”, è incredibile vedere come lo stesso elettorato voti per quelli che hanno forse studiato il manuale di come ingrassare il potere mafioso.

Siamo un popolo straordinario: adoriamo le vittime e facciamo di tutto per dimenticare i complici. Questo sistema di doppio standard è un trionfo di ipocrisia, una forma d’arte che ci ha resi famosi in tutto il mondo. Non solo accettiamo i mafiosi nella politica, ma ci troviamo anche a sorprenderci quando le elezioni non vanno esattamente come ce lo saremmo aspettati. È come se avessimo un occhio per la condanna pubblica e l’altro per il segreto appoggio a chi la mafia la fa funzionare. Che bellezza!

Tiziana Ferrario ha catturato perfettamente l’essenza di questa paradossale commedia: “La mafia in Italia è come un virus che non solo infetta il corpo politico, ma che trova anche terreno fertile in una società che applaude i suoi martiri e chiude un occhio sui suoi attivi sostenitori”. Questo è il trucco di magia più ingegnoso: un popolo che canta “Libertà” e si preoccupa di sistemare tutto il resto con la stessa nonchalance con cui si aggiusta una cravatta.

I media italiani sono maestri nell’arte del dramma e della distorsione. I film e i programmi televisivi che glorificano la mafia non fanno altro che perpetuare la visione romantica del crimine organizzato. Non è solo una questione di raccontare storie; è un modo per rendere il crimine sexy, affascinante, quasi irresistibile. La mafia diventa una sorta di anti-eroe, e il pubblico, complice inconsapevole, continua a tifare per il cattivo che ama a dispetto della sua malvagità.

Leonardo Sciascia non ha risparmiato critiche a questa deformazione: “Il vero danno è che la mafia non solo corrompe, ma si glorifica attraverso una narrazione che la trasforma da mostro in mito”. I media non solo raccontano il crimine, ma lo vendono come se fosse il miglior prodotto sul mercato, mentre la nostra società, affascinata e distratta, continua a credere nella farsa.

In conclusione, il nostro Paese vive una commedia dell’assurdo dove la celebrazione delle vittime e la promozione dei complici della mafia sono due facce della stessa medaglia. Questa schizofrenia collettiva non è solo un fastidioso paradosso; è una tragedia che riflette il nostro fallimento nel confrontarci con la realtà. Se vogliamo davvero onorare le vittime della mafia, dobbiamo smettere di eleggere i loro assassini. È tempo di svegliarsi e di smettere di accontentarci di una coscienza pulita che, in realtà, è sporca di compromessi e ipocrisie.

Dobbiamo smettere di applaudire i martiri mentre tacitamente accettiamo i loro avversari. Solo allora potremo sperare di costruire una società che non sia solo brava a piangere sui morti, ma anche capace di combattere e vincere contro il male che continua a corromperla.

 

lunedì 26 agosto 2024

“Fufu e polenta. Perché a tavola nessuno è straniero”. Un racconto di Davide Romano, giornalista

 



 

A Borgo Vecchio, un minuscolo paese circondato da colline verdi e filari di viti, non succedeva mai nulla di straordinario. Le giornate scorrevano tranquille, tra il campanile che batteva le ore e il profumo del pane appena sfornato che si diffondeva per le strade strette. Era un posto dove le novità arrivavano come il treno del pomeriggio: lentamente e con molte fermate.

Eppure, un mattino di fine estate, il tranquillo equilibrio del paese venne sconvolto dall'arrivo di una famiglia "straniera". Straniera, per i paesani, voleva dire chiunque venisse da più lontano di Parma, ma questa volta, il forestiero era addirittura un uomo dalla pelle scura, con una moglie dagli occhi a mandorla e due bambini che parlavano una lingua musicale e misteriosa.

Il sindaco, il ragionier Bertolini, che aveva ereditato la carica come si eredita un vecchio ombrello bucato, venne subito assalito da richieste e lamentele. La maestra Loredana, con un tono che non ammetteva repliche, voleva sapere come avrebbe dovuto gestire quei bambini "esotici" nella sua aula; il parroco, Don Peppino, si chiedeva se avrebbe dovuto insegnare loro il catechismo; e il macellaio, il signor Amadeo, era preoccupato che avrebbero chiesto carne "strana", compromettendo la reputazione della sua macelleria.

Ma fu l'oste del paese, il buon vecchio Pinuccio, a riassumere il pensiero comune con una frase semplice: "Qua la gente ha già abbastanza problemi con i forestieri di Milano, figuriamoci con quelli che vengono dall'altro lato del mondo!"

Il giorno successivo, alle otto in punto, il ragionier Bertolini si presentò davanti alla scuola, tirato a lucido come per la festa del patrono. La famiglia straniera, Amadou e Mei con i loro due figli, era stata convocata per un colloquio ufficiale. Amadou, alto e sorridente, vestito con una giacca che sembrava fatta di un tessuto mai visto prima in paese, strinse la mano del sindaco con un calore che il ragionier Bertolini trovò quasi imbarazzante.

"Buongiorno, signor sindaco!" disse Amadou in un italiano impeccabile ma con un accento che lasciava indovinare la sua provenienza. Mei, più riservata, fece un leggero inchino, mentre i due bambini, Kofi e Amina, guardavano il sindaco con occhi curiosi e vivaci.

Il ragionier Bertolini, per quanto abituato a fare discorsi solenni, si trovò per un attimo senza parole. In paese si parlava molto di accoglienza, ma nessuno si era mai aspettato di doverla mettere in pratica davvero.

"Buongiorno a voi, benvenuti a Borgo Vecchio," riuscì a dire infine, con un tono che cercava di essere caloroso. "Ehm... Siamo un piccolo paese, ma cerchiamo di fare del nostro meglio per accogliere chiunque venga qui."

Amadou annuì, ancora sorridente. "Ne sono certo, signor sindaco. Siamo molto felici di essere qui. Io lavorerò nella fabbrica a pochi chilometri da qui, e mia moglie... beh, è un'ottima cuoca. Forse potrete assaggiare qualcosa della nostra cucina."

 

La parola "cucina" fece breccia nei pensieri del sindaco. Già si immaginava i commenti dei paesani di fronte a piatti dai nomi impronunciabili. Ma Bertolini, nel suo cuore, era un uomo buono. E poi, come sua madre diceva sempre, "Una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso."

Quella sera, su invito di Pinuccio, la famiglia di Amadou si recò all'osteria del paese. L’oste, che era uomo di spirito e di pancia generosa, li accolse con un certo riserbo, ma colto da curiosità, decise di offrire loro il suo miglior piatto: tortelli di zucca, seguiti da un brasato con polenta.

Amadou e Mei assaporarono ogni boccone, e i bambini si comportarono in maniera impeccabile, nonostante Kofi avesse guardato con sospetto la polenta gialla, così diversa dal riso a cui era abituato.

A un certo punto, però, Amadou si avvicinò al bancone e disse: "Pinuccio, questa polenta è davvero buona. Mi ricorda un piatto che faceva mia nonna in Africa. Sai, potremmo preparare qualcosa insieme, una sera? Io potrei cucinare il nostro 'fufu' e tu la tua polenta. Potremmo fare una serata di scambio."

L’oste, colpito da quell'idea, scoppiò a ridere. "Ah, ma questa sì che è buona! Uno scambio culturale a Borgo Vecchio! Chissà cosa dirà la gente!"

"Magari impareremo qualcosa di nuovo, no?" rispose Amadou con una luce negli occhi.

Pinuccio si grattò la testa, pensieroso. "Forse hai ragione. Facciamolo, Amadou. Vediamo cosa ne viene fuori."

La notizia della serata "Fufu e Polenta" si diffuse come il vento. All'inizio, molti erano scettici, ma la curiosità vinse su ogni resistenza. Quella sera, l’osteria di Pinuccio era gremita come non mai. C'era chi era venuto per assaggiare, chi per criticare, ma tutti, in fondo, erano lì per partecipare a qualcosa di nuovo.

Amadou, con un grembiule legato in vita, preparò il fufu con una tale destrezza che persino la signora Margherita, la più severa delle cuoche del paese, si fermò a guardare con ammirazione. Mei intanto serviva piccoli assaggi di un dolce di cocco e zenzero che fece leccare i baffi a più di uno.

Quando fu il turno di Pinuccio di servire la sua polenta, accompagnata da brasato, Amadou e Mei applaudirono per primi, seguiti dagli altri paesani. E poi, successe qualcosa di straordinario: Kofi e Amina, i due piccoli, iniziarono a giocare con i figli di Pinuccio e degli altri presenti. Risate, corse e giochi si mischiarono come in una grande festa.

Da quella sera, a Borgo Vecchio, il "fufu e polenta" divenne un appuntamento fisso, un simbolo di unione e amicizia. Il paese non cambiò improvvisamente, certo, ma piano piano, il colore della pelle, l'accento diverso, e le tradizioni lontane persero importanza di fronte alla bontà di una tavola condivisa.

Il ragionier Bertolini, il giorno dopo, passeggiando per il paese, notò che la vita continuava come sempre, ma con un leggero, quasi impercettibile cambiamento nell'aria. Una consapevolezza che, forse, accogliere il nuovo non era poi così spaventoso, e che, in fondo, eravamo tutti parte della stessa grande famiglia.

E mentre il sole tramontava sulle colline, si poteva sentire l’eco delle risate dei bambini che giocavano insieme, senza più barriere.

sabato 24 agosto 2024

“L'Italia e la democrazia. Un matrimonio difficile e assai turbolento” di Davide Romano, giornalista



Ogni volta che il centrodestra o la destra, fate voi, va al governo del Paese, ecco ergersi allarmati i soliti intellettuali da talk e compagnia varia assortita a gridare che la democrazia è in pericolo o che siamo ormai in una dittatura. Il Fascismo è tornato seppure in forme più scintillanti e seduttive! Questo almeno fino al successivo argomento di “attualità” – guerra di Medio Oriente o in Ucraina, manovra finanziaria, dichiarazioni di questo di quel presunto leader politico, lunghezza delle gonne, etc. - su cui correre generosamente i cento metri delle opinioni più banali e scontate in una contrapposizione, che non è mai veramente tale perché funzionale a un certo copione da avanspettacolo. È il circo dei media o sono i media del circo che è ormai il nostro Paese. Chissà.

Ma c’è una scena che non mi tolgo dalla testa ed è quella di un matrimonio. Non il classico matrimonio da favola, con sposi sorridenti e invitati festosi, ma uno di quei matrimoni un po’ tirati, dove si capisce subito che la convivenza non sarà semplice. Sto parlando del matrimonio fra l’Italia e la democrazia. Un’unione che è cominciata con un gran fracasso – quello della Seconda Guerra Mondiale – e che non ha mai smesso di dare segni di crisi.

Guardiamoci in faccia, italiani. La democrazia, qui da noi, non è mai stata un amore a prima vista. Non siamo mica come gli inglesi, che con la democrazia ci sono cresciuti e l’hanno affinata come una vecchia ricetta di famiglia. No, noi l’abbiamo accolta come si accoglie un parente venuto da lontano, con cui non si ha molta confidenza ma che, si dice, porterà vantaggi. La verità, però, è che l’Italia ha sempre avuto una relazione ambivalente con la democrazia. La guarda con rispetto, certo, ma anche con una certa diffidenza, come si fa con un oggetto prezioso ma difficile da maneggiare.

Il nostro matrimonio con la democrazia è stato celebrato nel 1946, con il referendum che ha sancito la nascita della Repubblica. Ma se pensiamo che quel voto è stato l’inizio di una storia d’amore senza intoppi, ci sbagliamo di grosso. Basta sfogliare i giornali di quegli anni – e non solo quelli – per vedere che già allora si intuiva quanto sarebbe stata complicata la convivenza. Gli italiani hanno detto "sì" alla democrazia, ma con la stessa convinzione con cui si dice "sì" a un viaggio verso una meta sconosciuta, spinti più dalla paura di ciò che si lascia alle spalle che dalla voglia di esplorare.

Non è un caso che la nostra democrazia sia sempre stata più formale che sostanziale. Abbiamo adottato la Costituzione più bella del mondo, dicono, ma poi l’abbiamo trattata come una lista di buoni propositi da mettere in pratica solo quando ci fa comodo. Abbiamo eletto i nostri rappresentanti, ma li abbiamo sempre guardati con un misto di sospetto e rassegnazione, come se fossero un male necessario più che i custodi della nostra volontà.

E qui entra il confronto con le altre democrazie. Prendiamo la Gran Bretagna, per esempio. Quella democrazia è cresciuta nel tempo, come una quercia piantata in terreno fertile, radicandosi nelle istituzioni e nelle abitudini della gente. Lì, la democrazia è un fatto di cultura, non solo di legge. Gli inglesi si fidano delle loro istituzioni, e sanno che ogni crisi politica è solo una parentesi temporanea, perché la democrazia tornerà sempre a far valere la sua forza.

Dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, la democrazia è una questione di identità nazionale. Gli americani sono cresciuti con l’idea che la democrazia è ciò che li distingue dal resto del mondo, che è il loro contributo alla storia dell’umanità. Certo, anche lì non mancano le contraddizioni, ma gli americani ci credono davvero, nella loro democrazia. L’hanno difesa a caro prezzo, l’hanno esportata (a volte malamente) e l’hanno fatta diventare il loro biglietto da visita nel mondo. E quando sbagliano, lo fanno in grande, con quella convinzione tipica di chi sa che, alla fine, la democrazia saprà rimediare ai propri errori.

E poi c’è l’Europa continentale. I francesi, con la loro Repubblica, hanno fatto della democrazia quasi una religione laica. Liberté, Égalité, Fraternité non sono solo parole incise sui frontoni dei municipi; sono concetti che, nel bene e nel male, guidano le scelte di un popolo. Certo, anche lì la democrazia ha avuto i suoi alti e bassi, ma i francesi l’hanno sempre difesa con una passione che a noi, spesso, è mancata.

E l’Italia? Noi abbiamo la nostra Costituzione, nata sulle ceneri di un ventennio di dittatura, ma la nostra democrazia è come un abito ancora da portare su misura. Ci avvolge, sì, ma non ci calza a pennello. Gli italiani hanno sempre avuto un rapporto complicato con l’autorità, e questo si riflette nel modo in cui viviamo la democrazia. Da un lato, non ci piace essere comandati, dall’altro abbiamo una tendenza inveterata al compromesso e al trasformismo, che spesso ci porta a trattare la democrazia come una sorta di accordo temporaneo, buono finché non si trova di meglio.

E non è che il nostro matrimonio con la democrazia sia stato del tutto infelice. Ci sono stati momenti in cui l’Italia ha mostrato di poter essere una democrazia vibrante, capace di produrre progresso e stabilità. Ma sono stati momenti fugaci, lampi di speranza in un cielo spesso grigio di incertezze. Quando la crisi bussa alla porta, l’italiano medio torna a guardare con nostalgia a quei sistemi che promettono ordine senza troppe complicazioni, magari dimenticando che, nella storia, questi sistemi hanno spesso portato più guai che benefici.

E poi c’è quel nostro eterno vizio del compromesso, che nella democrazia dovrebbe essere una virtù, ma che da noi diventa spesso un modo per non decidere nulla, per lasciare tutto com’è in attesa che qualcun altro prenda le redini. In questo matrimonio, la democrazia è quella moglie che viene sempre messa in secondo piano, in favore di abitudini più antiche e radicate. Non siamo mai riusciti a darle quel ruolo di protagonista che meriterebbe, preferendo mantenerla in una posizione marginale, buona per le cerimonie ufficiali ma non per la vita di tutti i giorni.

Eppure, nonostante tutto, la democrazia è ancora qui, e forse proprio questa sua resistenza è il segno che, in fondo, l’Italia ha cominciato ad apprezzarla. Magari non l’ama come si ama una passione travolgente, ma la rispetta come si rispetta un compagno di viaggio che ha dimostrato di essere affidabile, anche se non sempre simpatico.

In questo matrimonio, c’è ancora molto da fare. Dobbiamo imparare a vivere la democrazia non solo come un dovere, ma come un’opportunità. Dobbiamo smettere di considerarla un’ospite scomoda e iniziare a trattarla come una parte integrante della nostra identità. E forse, un giorno, potremo dire che questo matrimonio, nato con tante difficoltà, ha finalmente trovato la sua armonia.

 

venerdì 23 agosto 2024

“Valdesi, 850 anni di fedeltà alla Bibbia e alla coscienza” di Davide Romano, giornalista



Quest’anno, in un’Italia spesso smemorata, ricorre un anniversario di quelli che meriterebbero una riflessione attenta: 850 anni di storia valdese. Una celebrazione che non si esaurisce nel riconoscimento della longevità di una comunità religiosa, ma che rende omaggio a una fedeltà incrollabile – alla Bibbia e alla coscienza – che ha guidato i Valdesi attraverso i secoli, tra persecuzioni, esili e rinascite.

La storia dei Valdesi comincia nel 1174, quando un mercante di Lione, Pietro Valdo, fa qualcosa di rivoluzionario, per non dire folle, agli occhi dei suoi contemporanei: abbandona tutte le sue ricchezze e si dedica alla predicazione del Vangelo. E non lo fa perché cerca potere o gloria, ma perché è folgorato dalle parole di Cristo: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi" (Matteo 19:21). Da qui nasce un movimento che sfida apertamente l’autorità ecclesiastica, rifiutando ogni dottrina che non trovasse un fondamento nelle Sacre Scritture. Un gesto di disobbedienza? Sì, ma fatto con quella serietà e quel rigore che solo chi è convinto della bontà della sua causa può mostrare.

Per i Valdesi, la Bibbia è stata – e rimane – la loro bussola morale, il loro punto di riferimento in un mondo che, spesso, ha cercato di spegnere quella luce che portavano con sé. Lo storico Giorgio Tourn, che conosce questa storia come pochi, non ha dubbi: "I Valdesi hanno sempre mantenuto un forte legame con la Bibbia, considerandola come la loro unica regola di fede e di vita". Non sono parole leggere. In tempi in cui dichiararsi fedeli alla Bibbia significava rischiare la vita, i Valdesi hanno resistito a crociate, massacri, esili. Pensiamo alle "Pasque Piemontesi" del 1655, un massacro che avrebbe potuto annientare un popolo meno determinato. Ma i Valdesi, come sempre, hanno resistito. Non per ostinazione, ma per una fedeltà che scaturisce da una convinzione profonda.

E questa fedeltà non si limita solo alla Bibbia. C’è un altro elemento che rende unico questo movimento: la coscienza. Mentre il mondo intorno a loro cercava di imporre dogmi dall’alto, i Valdesi sostenevano, con una certa dose di anticipo sui tempi, il libero esame delle Scritture. Non aspettavano la Riforma per dire che "ogni uomo, di qualsiasi condizione, deve esaminare la propria fede alla luce delle Scritture e agire secondo la sua coscienza". Era il Sinodo valdese del 1532 a dirlo, quando in altre parti d’Europa si cominciava appena a sussurrare quello che i Valdesi proclamavano a gran voce. E non erano solo parole: era una dichiarazione di autonomia spirituale, che ha forgiato una comunità pronta a vivere secondo i propri ideali, senza compromessi.

Ecco, allora, che la fedeltà alla coscienza diventa anche una questione sociale. Per i Valdesi, non si trattava solo di salvare l’anima, ma di vivere in modo coerente anche nella società. Non è un caso se sono stati tra i primi a promuovere l’uguaglianza, la giustizia sociale, la difesa dei diritti umani. Questo perché, come ricordava il pastore Paolo Ricca, "la coscienza è l’altare su cui si compie il vero culto a Dio, un culto che richiede autenticità e coerenza, non conformismo". Ecco che la fedeltà alla Bibbia e alla coscienza diventa il perno su cui ruota tutta la loro esistenza, in un mondo che spesso preferisce compromessi e scorciatoie.

Oggi, a 850 anni dalla loro nascita, i Valdesi continuano a essere un esempio di integrità. Non è poco, in un tempo in cui i valori sono spesso messi all’asta. I Valdesi ci ricordano, con la loro storia, che la fedeltà ai principi fondamentali è la chiave per attraversare le tempeste della storia senza perdere la propria identità. Giovanni Miegge, un altro grande valdese, aveva scritto che "la fedeltà è la virtù dei forti", e non si può certo dire che i Valdesi abbiano mancato di forza nel corso dei secoli.

Celebrare questi 850 anni non è solo fare memoria di una storia passata, ma riconoscere l’importanza di una fede vissuta con autenticità, una fede che ha saputo resistere alla tirannia, all’esilio, alla marginalizzazione. I Valdesi sono una testimonianza vivente del potere della fedeltà alla Parola e alla coscienza. "Essere fedeli alla Bibbia e alla coscienza è la sfida di ogni generazione," ha detto Mario Cignoni, storico e, ça va sans dire, valdese. Oggi, come allora, i Valdesi ci mostrano che questa fedeltà non è solo possibile, ma anche indispensabile per costruire una società giusta e solidale.

Questo anniversario, dunque, è un’occasione per celebrare non solo la storia di una comunità, ma anche l’eredità spirituale e morale che essa continua a offrire al mondo. Perché, in un tempo in cui la spiritualità autentica è spesso messa alla prova, i Valdesi ci insegnano che la vera forza risiede nella coerenza tra fede e vita, tra la Parola e la coscienza, valori che, oggi come ieri, rappresentano le fondamenta su cui costruire un futuro di giustizia e di pace.


“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...