martedì 10 settembre 2024

“Politici e donne. Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo” di Davide Romano, giornalista


 

Ogni volta che un politico viene coinvolto, a vario titolo, in uno scandalo di natura sessuale, i media ci si buttano a capofitto come se fosse la prima volta. E non mi riferisco soltanto all’affaire  Sangiuliano (non più ministro) – Boccia (giammai consulente).

Se c’è, infatti, una costante nella storia del potere, è il fatto che i politici, uomini spesso di grande influenza e visione, ma anche no, abbiano un punto debole non trascurabile: le donne. L’eterno gioco di seduzione tra politica e femminilità ha prodotto scandali che vanno dall’antica Roma fino alla Casa Bianca. Perché, diciamolo chiaramente: mentre i politici cercano di risolvere i problemi del mondo, spesso i loro veri guai iniziano sotto le lenzuola.

 

Cesare e Cleopatra. Il primo scandalo internazionale

Cominciamo con Giulio Cesare, che non solo si dedicava a conquistare terre e popoli, ma anche cuori. E che cuori! La storia con Cleopatra è uno degli intrighi più famosi della storia. Non si trattava solo di politica: Cesare, uomo di visione e strategia, si trovò affascinato dalla regina egiziana, donna astuta e affascinante. Quando la portò a Roma, l’intera città sussurrava di scandali. Certo, Cesare era già sposato, ma chi avrebbe potuto resistere alla tentazione di una regina che si avvolgeva in un tappeto per entrare nelle sue stanze?

 

Enrico VIII, l’uomo delle sei mogli e delle innumerevoli amanti

Passiamo poi a Enrico VIII d’Inghilterra, un re per cui le donne non erano solo una passione, ma un’ossessione. Il buon Enrico, noto più per il suo appetito sessuale che per le sue capacità diplomatiche, ebbe sei mogli, innumerevoli amanti, ma solo perché continuava a decapitare o divorziare da quelle che non gli piacevano più. Come dimenticare il suo drammatico divorzio da Caterina d'Aragona che portò allo scisma con la Chiesa cattolica? Alla fine, Enrico si ritrovò solo e ingrassato, vittima delle sue stesse pulsioni. L’ironia è che la donna per cui sacrificò tutto, Anna Bolena, finì anch’essa decapitata.

 

Napoleone e Giuseppina, l’imperatore innamorato

Napoleone Bonaparte, che conquistò mezzo mondo e si autoproclamò imperatore, si ritrovava debole come un bambino davanti a Giuseppina. Nonostante la sua pretesa di essere un uomo di ferro, il piccolo corso scriveva lettere infuocate alla sua amata, pieni di una passione quasi adolescenziale. Eppure, Giuseppina non era esattamente l’immagine della fedeltà. Napoleone, dopo averle perdonato tradimenti e bugie, finì per divorziare da lei. “Se non posso avere la sua fedeltà,” avrebbe detto, “avrò almeno la Francia”. La verità è che, anche con una corona in testa, il cuore è sempre più vulnerabile della spada.

 

Kennedy e Marilyn, la caduta del re americano

Arriviamo poi al XX secolo, e qui gli scandali si moltiplicano. John F. Kennedy, il presidente che incarnava il sogno americano, aveva un debole ben noto per le belle donne. Tra tutte, la sua relazione con Marilyn Monroe è la più iconica. Quando la bionda più famosa di Hollywood cantò “Happy Birthday, Mr. President” con una sensualità che si poteva quasi toccare, l’America intera capì che qualcosa bolliva in pentola. Certo, JFK era sposato con la sofisticata Jacqueline, ma si sa: il potere seduce, e il potere assoluto... beh, seduce assolutamente. Il resto della storia si è perso tra le pieghe dei segreti di Stato e le copertine patinate.

 

Clinton e Lewinsky e l’affaire dei sigari

Ma se c’è uno scandalo che ha segnato gli anni '90, è quello di Bill Clinton e Monica Lewinsky. Il presidente democratico, noto per il suo carisma e le sue doti oratorie, si trovò travolto da uno scandalo sessuale che fece tremare la Casa Bianca. “Non ho avuto rapporti sessuali con quella donna,” dichiarò davanti a una nazione intera, solo per essere smentito poco dopo. Un sigaro, un vestito macchiato e un’impeachment sfiorato: questa è la sintesi di uno dei casi più imbarazzanti della politica moderna. E se Clinton alla fine salvò la presidenza, il suo matrimonio non ne uscì altrettanto illeso.

 

Silvio Berlusconi e il bunga bunga nazionale

Ah, e non possiamo certo dimenticare il nostro Silvio nazionale. Berlusconi, l’uomo che ha reso lo scandalo quasi una prassi di governo, è passato alla storia non solo per le sue leggi ad personam, ma soprattutto per le famigerate feste “bunga bunga”. Tra soubrette, starlette e minorenni, Berlusconi ha trasformato Villa San Martino in una sorta di corte rinascimentale, con tanto di harem. “Meglio guardare le belle ragazze che essere gay,” disse una volta, con quell’ironia tutta sua che, se non altro, strappava un sorriso persino ai suoi detrattori. Alla fine, il Cavaliere ha pagato caro il prezzo del suo stile di vita, ma lo scandalo? Quello non lo ha mai scalfito davvero.

 

Macron e Brigitte,  l’amore fuori dalle convenzioni

Non tutti gli scandali, però, riguardano tradimenti o relazioni torbide. Prendiamo il caso di Emmanuel Macron, il giovane presidente francese, e la sua relazione con Brigitte, sua ex insegnante e di 25 anni più grande di lui. La Francia, inizialmente scioccata dalla differenza d’età, ha imparato ad accettare l’idea che un uomo possa innamorarsi di una donna matura senza che questo debba essere considerato uno scandalo. Macron ha sfidato le convenzioni sociali e, in un certo senso, ha dimostrato che anche in politica c’è spazio per amori autentici e fuori dagli schemi. Ma lo scandalo? Quello è rimasto solo nei pettegolezzi di corridoio.

 

Il potere e il fascino del proibito

In fondo, come diceva Montanelli, “Il potere è afrodisiaco”. I politici, così come i grandi conquistatori del passato, non riescono a resistere al fascino delle donne. È una combinazione letale: da una parte la tentazione del proibito, dall’altra l’ebbrezza del potere. Ogni volta che un politico cede alle sue debolezze, la stampa e l’opinione pubblica si scatenano, ma sotto sotto lo sappiamo: non ci stupiamo davvero. Perché, alla fine, l’eterno scandalo tra politici e donne non è altro che una dimostrazione del fatto che, per quanto potenti possano essere, restano sempre e comunque umani, con tutte le loro debolezze e fragilità. Perché alla fine, come dice il proverbio, tira sempre più un capello di donna… 


lunedì 9 settembre 2024

"Elogio del raccomandato. L'Italiano modello" di Davide Romano, giornalista




C'è una figura, sovente ignorata ma onnipresente, che incarna meglio di qualunque altra l’essenza dell’italiano medio. Un personaggio che non conosce crisi, che si muove con destrezza nel mare torbido della burocrazia, sfuggendo alle secche del merito come un abile navigante. È il raccomandato, l’italiano modello. Colui che è sempre al posto giusto, anche quando non lo merita. Anzi, soprattutto quando non lo merita.

Si potrebbe dire che il raccomandato sia l’incarnazione perfetta di una certa filosofia tutta nostrana, che Aristotele avrebbe chiamato “ars opportunitatis”, l’arte dell’opportunismo. Un'arte che, a dispetto di ogni crisi economica o morale, sembra prosperare senza soluzione di continuità. “La felicità è l’essenza stessa dell’opportunità colta al volo”, avrebbe potuto dire qualcuno come Diogene, se fosse vissuto in un'Italia moderna, tra concorsi pubblici truccati e posti in prima fila per gli amici degli amici.

E non illudiamoci: la storia del raccomandato non è recente. Già nell’Italia medievale, con le sue fazioni e i suoi feudi, il raccomandato trovava il proprio posto grazie al signore di turno, colui che “poteva”. Da allora, la raccomandazione ha solo cambiato abito, indossando ora la veste della “segnalazione” – termine elegante e neutro, quasi tecnico. Ma la sostanza rimane: “Non conta cosa sai, conta chi conosci”.

Nel giornalismo italiano, la figura del raccomandato è altrettanto evidente. Basti pensare a certi conduttori e opinionisti televisivi, arrivati in prima serata non tanto per le proprie capacità, quanto per i legami con potenti cordate politiche o economiche. Prendiamo, ad esempio, figure che, magicamente, passano dalle retrovie delle redazioni alle poltrone di direttori, grazie a una telefonata giusta al momento giusto. Senza fare nomi, ma con un pizzico di malizia, ci si potrebbe interrogare su quanti abbiano scalato i vertici di Rai, Mediaset o i principali quotidiani senza mai scrivere un articolo di rilievo o senza aver mai dimostrato vera competenza sul campo.

In fondo, come diceva Ennio Flaiano, “in Italia i raccomandati non hanno bisogno di essere intelligenti, devono solo essere amici di chi conta”. E questa regola vale tanto nelle redazioni quanto nelle università, nelle grandi aziende, persino nelle istituzioni culturali. Non si spiegherebbe altrimenti la longevità di certi giornalisti, che, pur essendo privi di idee nuove, rimangono saldamente ancorati alle proprie poltrone.

Giuseppe Prezzolini, nel suo acuto “Codice della vita italiana”, scriveva: “In Italia il merito non ha merito”. E come dargli torto? Il merito è un’utopia per romantici e illusi. Il raccomandato, invece, è un realista. Lui sa come funziona il mondo, sa che il talento, l’intelligenza e la preparazione sono ornamenti superflui in un sistema che premia la fedeltà a un patrono, piuttosto che l’intraprendenza individuale.

Il peccato della raccomandazione è uno di quelli che nessuno confessa, ma che tutti conoscono. “Nessuno vuole ammettere di essere un raccomandato, ma tutti lo sono stati almeno una volta”, osservava con cinismo Umberto Eco. La raccomandazione è come il peccato originale: invisibile, ma sempre presente, pronta a emergere nei momenti cruciali della vita professionale. Il giornalismo non è esente da questo peccato, e forse è proprio qui che il meccanismo appare più evidente. La segnalazione di un amico influente, una raccomandazione sussurrata in un orecchio durante una cena mondana, e il gioco è fatto. Si apre una porta che per altri rimarrà chiusa a doppia mandata.

San Tommaso d'Aquino, parlando dei peccati, affermava che “ci sono colpe che vengono esposte, altre che rimangono nell’ombra e divorano l’anima”. E la raccomandazione appartiene alla seconda categoria. Non si vede, non si discute, ma lentamente corrode l’essenza stessa della meritocrazia. Perché il problema non è solo che il raccomandato occupi una posizione che non gli spetta, ma che lo faccia a discapito di chi quella posizione avrebbe potuto davvero meritarsela.

Tommaso d’Aquino, forse il più grande dei teologi, ci insegna che “la Grazia eleva la natura”. Ma per il raccomandato italiano, è la raccomandazione a elevare l’individuo. La Grazia divina ha ceduto il posto alla grazia del potente, e ogni ufficio pubblico diventa una sorta di cattedrale dove il beneplacito di un assessore vale più di ogni laurea o esperienza sul campo.

Per Indro Montanelli, il raccomandato era “l’italiano che non cambia mai, l’uomo che sa aspettare che il vento giri a suo favore senza muovere un dito.” Un uomo, insomma, che incarna quella “furbizia” che abbiamo imparato a considerare una dote, piuttosto che un vizio. E come ogni furbizia, porta con sé la sua giustificazione morale: perché faticare, quando c’è un percorso più semplice? Perché cercare l’approvazione del mondo, quando basta un cenno del capocordata?

Papa Francesco ha parlato più volte del “peccato della raccomandazione”, definendola “una forma di corruzione che svilisce la dignità del lavoro e avvelena il tessuto sociale”. In uno dei suoi discorsi più diretti, ha affermato che “la raccomandazione è una forma subdola di ingiustizia, perché tradisce la fiducia di chi si affida al merito e alla giustizia”. Il pontefice, come altri leader morali, ha cercato di scuotere le coscienze, ma la realtà è che la raccomandazione continua a prosperare, immune alle denunce, perché si muove nell'ombra.

E allora, a che serve continuare a lamentarsi? Forse dobbiamo accettare che il raccomandato sia semplicemente il vincitore in questo gioco crudele chiamato Italia. “Non è l’uomo che deve cambiare il sistema, ma il sistema che cambia l’uomo”, direbbe Simone Weil, ricordandoci quanto sia sottile il confine tra sopravvivenza e servilismo.

In fondo, il raccomandato ci insegna qualcosa di molto semplice: l'Italia non è un paese per i migliori, ma per i più furbi.

“Ecco le Chiese fai da te, una risata le seppellirà” di Davide Romano, giornalista

 


 

C’è chi si scomoda a discorrere sul rapporto tra fede e ragione, tra peccato e redenzione, e poi c’è chi, col fare da garzone della spiritualità, decide di fondare la propria chiesa quando viene gentilmente — o meno — accompagnato alla porta di quella cattolica, ortodossa o protestante che sia. Una scena degna del miglior Totò: il pastore, anzi l'ex-pastore o quasi-pastore, che si reinventa imprenditore della fede. Ma la chiesa la “crea lui”, con tanto di dottrina personalizzata, non sia mai che l’umiltà del vangelo possa fare troppa ombra.

L’ironia di Montanelli ci verrebbe a pennello: "Qui, signori, non si tratta di religione. Si tratta di bottega". E che bottega. Questi venditori di salvezza fai-da-te, espulsi dalle comunità ecclesiastiche ufficiali per motivi non propriamente "angelici", si riorganizzano come un rigattiere che, dopo esser stato chiuso dalla polizia per merce contraffatta, riapre sotto falso nome. Ora la domanda è: il mercato c’è? Ahimè sì, e non è piccolo.

 

In principio fu la menzogna

Il problema, caro lettore, è che costoro sanno vendersi bene (alcuni un po’ meno, a giudicare dai numeri). Come diceva il teologo Dietrich Bonhoeffer, “Il peccato più grande è sempre stato il tradimento della verità”. Eppure, in questo nuovo credo fai-da-te, di verità ce n’è ben poca. Certo, il vangelo resta citato qua e là, giusto per non far scadere la sceneggiata in farsa del tutto. Ma è proprio l’uso selettivo e strumentale delle Scritture che rende questo fenomeno una mascherata tragica.

Non c’è nessun Sant’Agostino che si battezza e redime, né Tommaso d'Aquino che si interroga sull’essenza della fede. No, qui ci sono solo abili venditori di illusioni. Il filosofo Søren Kierkegaard li avrebbe chiamati “cavalieri della disperazione”, uomini senza la profondità della fede, ma che sanno far leva sulla paura e sul bisogno di certezze facili. E così nascono i “vescovi” e addirittura i “primati” autoproclamati. Figure grottesche che, senza nessun mandato apostolico, si decorano con titoli altisonanti e croci pettorali, pastorali e zucchetti, come se fosse una maschera di carnevale. E chi osa sfidarli? Gli apostoli di questi circhi religiosi, armati di microfoni e pulpiti improvvisati, o più comodamente della platea beona di Internet e dei social, gridano alla persecuzione appena qualcuno li contraddice. La verità non è solo ignorata, è travisata, calpestata.

 

La religione del low-cost 

E così si fondano chiese, con titoli pomposi: “Chiesa Universale della Redenzione dell’Anima”, “Chiesa Evangelica Unita” o “Ministero della Luce Divina”. Roba che al confronto la “Chiesa del Sacro Cuore” sembra l’ufficio postale di quartiere. Ma come funziona il meccanismo? Semplice. Prima si fa credere di avere ricevuto una rivelazione personale, o una conoscenza assoluta e senza macchia della Verità, della Bibbia, poi si costruisce una dottrina che serve a giustificare il potere del leader (che di solito si autoproclama vescovo o addirittura primate) e infine si radunano i fedeli, pescando tra i più ingenui o disperati. Insomma, un’accolita di allocchi.

E qui emerge il lato economico della faccenda. Questi pastori in esilio non lavorano gratis, ovviamente. In genere, poi a bene vedere, non hanno neppure un vero mestiere secolare. Anzi, la loro chiesa è sempre alla ricerca di donazioni, decime, oblazioni e via discorrendo. E mentre predicano la povertà cristiana, l’assoluta fedeltà al purissimo Evangelo, vivono una vita che, se non è di lusso, vorrebbe diventarlo. Ricordiamo l’acuto G. K. Chesterton, che diceva: “La Bibbia insegna che dobbiamo amare sia Dio sia il nostro prossimo, ma oggi sembra che molti leader religiosi abbiano solo imparato ad amare se stessi".

 

La chiesa che si crede Dio 

Non basta la scomunica, il richiamo all’ordine o la confutazione teologica. Perché questi “vescovi” autoproclamati non temono nemmeno il ridicolo. Anzi, ne fanno un’arma di propaganda. Come diceva il teologo Hans Urs von Balthasar, “Ogni eresia nasce da una verità mal compresa o male applicata”. Qui la verità è non solo fraintesa, ma anche distorta per giustificare l’esistenza di questi teatrini religiosi.

Così, il "primate" di turno si autoproclama salvatore di anime, con tanto di croce pettorale e zucchetto viola, senza dimentica il pastorale e tutto il corredo, mentre la teologia diventa una scusa per legittimare la propria autorità e, infatti, guai a contraddirlo o a mettere in discussione la sua autorità perché allora la sua “sacra ira” si scatena contro il malcapitato che diviene oggetto di vere e proprie contumelie e falsità diffamatorie. Oltre naturalmente a venire espulso, sovente per indegnità (non è più degno, infatti, di stare al cospetto dell’augusto primate).

E il risultato? Una chiesa che non è più chiesa, un pastore che non è più pastore, ma un attore che recita una parte scritta da lui stesso, per un pubblico troppo disperato o ingenuo per accorgersene. Ma che importa, finché il biglietto d’ingresso lo pagano… anche solo quello di nutrire il suo ipertrofico ego. E noi? Seppelliamoli pure con una risata. Che affoghino nel ridicolo!

sabato 7 settembre 2024

“Popolo d'Israele, la tua storia ti chiama alla pace. Un appello” di Davide Romano



Popolo d'Israele, figlio di una storia plurimillenaria di sofferenza, esilio e speranza, oggi ti trovi in un crocevia che mette alla prova la tua anima e il tuo futuro. La guerra con i palestinesi, il sangue che scorre nelle strade di Gaza e della Cisgiordania, non può essere la tua eredità. Il Talmud dice: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Quante vite si stanno spegnendo ora, mentre le cicatrici della tua stessa storia ci ricordano il dolore dell'ingiustizia e dell'oppressione?

 

In questi giorni bui, risuonano le parole di Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah, che ci ammoniva: “Il contrario dell'amore non è l'odio, è l'indifferenza”. Noi non possiamo essere indifferenti alla sofferenza, alle lacrime delle madri, alle grida dei figli. Non possiamo distogliere lo sguardo pensando che la guerra e la violenza possano in qualche modo essere una soluzione, quando in realtà non fanno altro che perpetuare cicli di vendetta e disperazione.

 

Popolo d'Israele, sei nato dal fuoco della persecuzione, dall’orrore di un genocidio. Gli ebrei della diaspora hanno cercato per secoli un rifugio, un luogo di pace. Ma come può la pace germogliare dal sangue versato su una terra condivisa? Martin Buber, uno dei tuoi più grandi filosofi, ci ha insegnato che il rapporto con l’altro deve essere di dialogo, non di scontro: “Il vero dialogo implica il riconoscimento reciproco, e questo è l'inizio della pace”.

 

Oggi, il mondo ti osserva. Non con l’odio, ma con una speranza che riposa sulle tue spalle. Ricorda le parole di Abraham Joshua Heschel, il rabbino che marciò con Martin Luther King: “Poiché la libertà è il dono più grande che Dio ha dato all'umanità, non possiamo mai giustificare l'oppressione o la sofferenza imposta agli altri”. Popolo d'Israele, sei stato schiavo in Egitto, hai conosciuto la sofferenza dell’esilio e dell’oppressione. Non permettere che il tuo dolore diventi la ragione per infliggerne altro.

 

Non possiamo ignorare la paura e il dolore che hai vissuto, le sirene che risuonano, la minaccia costante di razzi e attentati. Ma è proprio da questo dolore condiviso, da questa comune umanità ferita, che può sorgere un nuovo patto di convivenza. Shimon Peres, uno dei padri fondatori di Israele, disse: “Non ci sono vincitori in una guerra. O perdiamo tutti o vinciamo insieme”. Il vero trionfo non sarà militare, ma la capacità di costruire un futuro di coesistenza.

 

La Bibbia, cuore pulsante della tua storia, grida per la giustizia. Isaia, il profeta della pace, proclamava: “Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci; nessuna nazione alzerà la spada contro un'altra nazione, e non impareranno più la guerra”. Questo è il tuo destino, non la guerra, non la distruzione, ma la costruzione di un futuro di pace.

 

Il dialogo deve nascere tra la gente comune, tra te e i palestinesi che vivono fianco a fianco, nonostante tutto. Amos Oz, scrittore e voce della tua coscienza, affermava: “La pace non è il matrimonio di due amanti; è piuttosto un compromesso tra due nemici”. Questo è il coraggio richiesto: non di impugnare le armi, ma di abbassarle, guardando negli occhi chi ti sembra nemico e cercando un terreno comune.

 

Popolo d'Israele, sei una nazione costruita sulla speranza, sulla promessa di un futuro diverso. Non lasciare che questa promessa venga spezzata dalla violenza. Ricorda le parole del tuo stesso Talmud: “Non devi completare il lavoro, ma non sei libero di abbandonarlo”. La pace è un cammino lungo, difficile, ma necessario. Se non ora, quando?

 

La tua storia ti chiama a essere un modello per l'umanità, a dimostrare che anche nelle terre più contese, nelle situazioni più disperate, la pace è possibile. Io ti supplico: non dimenticare chi sei, non dimenticare da dove vieni. E soprattutto, non dimenticare dove sei diretto.


venerdì 6 settembre 2024

“Era la stampa, bellezza! Il giornalismo di un tempo fra nostalgia e rimpianti” di Davide Romano, giornalista

 



C’è una nostalgia che mi perseguita, come una vecchia canzone che non riesco a togliere dalla testa. È la nostalgia per il giornalismo di una volta, quello che oggi sembra diventato un’arte perduta, come la lavorazione del legno a mano o la calligrafia. Parlo di un giornalismo fatto di fatica, di nottate passate alla macchina da scrivere, di articoli battuti con dita consumate e di sigari toscani ridotti in cenere accanto alla Olivetti Lettera 32. Un giornalismo in cui, come diceva Enzo Biagi, "le parole erano pietre," e dietro ogni articolo c’era una vita spesa a cercare la verità, o perlomeno una sua versione accettabile.

Non mi fraintendete, non voglio fare il vecchio nostalgico che rimpiange i bei tempi andati solo perché erano i suoi. Ma c’è una differenza sostanziale tra il giornalismo di oggi e quello di ieri, e non è solo una questione di tecnologia. È una questione di spirito, di approccio al mestiere, di rispetto per le parole e per chi quelle parole le avrebbe lette.

Ricordo i tempi in cui un giornalista si guadagnava il pane con le scarpe consumate, non con i tweet. Bisognava andare, vedere, ascoltare, prendere appunti su un taccuino stropicciato, e poi passare ore a scegliere le parole giuste, quelle che avrebbero reso giustizia ai fatti e alle persone coinvolte. Non c’erano scorciatoie. Se volevi raccontare una storia, dovevi conoscerla fino in fondo, dovevi viverla quasi sulla tua pelle. Come scriveva Oriana Fallaci, "il giornalismo è una missione. È un mestiere che ti fa bruciare, che ti fa soffrire, ma che non ti lascia mai".

E poi c’era la responsabilità. Già, perché un giornalista sapeva che le sue parole avevano un peso. Potevano fare male, scatenare reazioni, cambiare le sorti di una carriera, di una vita, persino di un Paese. Come ammoniva Luigi Barzini: "La penna è più forte della spada, ma richiede un polso fermo e una mente chiara". Ogni parola veniva soppesata come si fa con l’oro, mentre oggi le parole volano leggere, spesso senza alcun riguardo per la verità o per le conseguenze che potrebbero avere.

Non c’è più quella cura maniacale per la verifica dei fatti, per il controllo delle fonti. Nel giornalismo di una volta, la notizia non era solo una merce da vendere al miglior offerente. Era un impegno morale, un patto con i lettori. Come diceva Indro Montanelli, "il giornalismo è fare domande. È cercare la verità, e dirla, anche quando fa male". E se si sbagliava, si pagava caro l’errore, perché la credibilità era tutto. Oggi, al contrario, l’errore sembra essere diventato la norma, e se si scopre di aver sbagliato, poco importa: domani ci sarà un’altra notizia a coprire tutto.

Ecco, questo è ciò che mi manca del giornalismo di una volta: il rispetto per la verità, per i fatti, per le persone. C’era una sorta di nobiltà in quel lavoro, un senso di missione che andava al di là del semplice mestiere. Oggi, invece, vedo troppi giornalisti che sembrano più preoccupati di ottenere clic che di raccontare il mondo per quello che è. Si corre dietro all’ultima moda, all’ultimo trend, inseguendo le storie più facili, quelle che fanno rumore senza fare domande scomode. Ma il vero giornalismo non è fatto di rumore, è fatto di silenzio, di riflessione, di domande e di dubbi.

E poi c’era quella cosa chiamata stile. Oggi, leggendo certi articoli, ho l’impressione che il mestiere del giornalista si sia ridotto a una sterile elencazione di fatti e opinioni, senza quel tocco personale che faceva la differenza. Un tempo, ogni giornalista aveva la sua voce, il suo modo di raccontare le cose. Come diceva Eugenio Scalfari, "lo stile è l’uomo" e in quelle righe c’era un’anima. Oggi, invece, troppo spesso le notizie sembrano uscite da un algoritmo, tutte uguali, tutte piatte, tutte senza vita.

Non voglio dire che tutto il giornalismo di oggi sia da buttare. Ci sono ancora, per fortuna, giornalisti che sanno fare il loro mestiere, che sanno raccontare le storie come si deve. Ma sono sempre più rari, sempre più isolati in un mare di superficialità e approssimazione.

E allora, forse, è giusto ricordare quei tempi andati non per mera nostalgia, ma per ritrovare quello spirito, quella passione, quella dedizione che facevano del giornalismo un mestiere nobile. Perché, come diceva Montanelli, "il giornalismo è il diario della storia" e di quel giornalismo, oggi più che mai, abbiamo bisogno come dell’aria.

 

Ombre sul mare

 


Nuovo naufragio di migranti, 21 dispersi con tre bimbi... 



Ombre sul mare

Soffia il vento delle terre abbandonate,
tra le mani il vuoto,
una casa lontana che non ha nome.

Tu, che cammini tra l'onda e la sabbia,
sei straniero ovunque,
nelle parole che non conosci,
nei volti che ti guardano senza vederti.

I tuoi passi affondano nell'acqua salata,
un'isola che non offre riparo,
un mare che inghiotte storie mai raccontate.
E tu ti chiedi, nel silenzio del buio:
“Chi sono io, se non una vita sospesa?”

Le stelle non rispondono,
il cielo si chiude come una ferita.
Solo il mare conosce il tuo nome,
e lo ripete nell’eco delle sue onde,
ma nessuno ascolta.

(Davide Romano)

giovedì 5 settembre 2024

"Essere stupidi per essere felici. Un elogio della più democratica delle qualità umane e sono solo" di Davide Romano, giornalista

 


L'elogio della stupidità, signori, è un'impresa che richiede coraggio, e non poco. In un'epoca in cui la saggezza è tanto celebrata e la conoscenza osannata, si rischia di passare per provocatori o, peggio ancora, per pazzi. Ma, come ci ricorda l'amico Voltaire, “È difficile liberare gli sciocchi dalle catene che venerano.” E dunque, armati di una buona dose di ironia e di una certa dose di sana imprudenza, mi accingo a tessere lodi di ciò che tanto spesso viene disprezzato.

Innanzitutto, la stupidità è democratica. È forse la più equamente distribuita tra i beni umani. Non richiede né patrimonio né cultura, né lignaggio né istruzione. È accessibile a tutti, dal nobile al mendicante, dal dottore al contadino. Nessuna barriera di classe, di razza o di religione può contenerla. È, se vogliamo, la forma più pura di uguaglianza. Come osservava Charles Darwin, “L’ignoranza genera più frequentemente fiducia che non la conoscenza.”

La stupidità, lungi dall'essere un difetto, è una forza motrice. Non è forse vero che la storia umana è disseminata di esempi in cui la cieca ostinazione ha portato al progresso? “Perché fermarsi a riflettere quando l’azione ci invita?” sembra sussurrare la stupidità, spingendo l’uomo verso l’ignoto con la baldanza di chi non sa di cosa dovrebbe aver paura. E spesso, è proprio in questo ignorare il rischio che si scoprono nuovi mondi.

Ma la stupidità ha un altro grande pregio: la semplicità. In un mondo complesso e sovraccarico di informazioni, la stupidità offre un rifugio sicuro. È un ritorno all'essenziale, una boccata d’aria fresca nel caos dell’intellettualismo. Blaise Pascal ci avverte che “La maggior parte dei problemi derivano dal fatto che non possiamo stare seduti tranquilli in una stanza.” Ebbene, la stupidità è la madre della tranquillità, la chiave per una vita serena e senza troppi pensieri.

E come non ricordare il caro Oscar Wilde, che con il suo acume ci ricorda: “È meglio essere sciocchi di fronte a una grande idea che saggi di fronte a una banalità.” La stupidità, nella sua forma più nobile, è un’apertura al nuovo, una disposizione d’animo che ci permette di accogliere con candore ciò che altrimenti rigetteremmo per paura o per convenienza.

E poi, non dimentichiamo che la stupidità è anche un grande catalizzatore sociale. Quanto ci unisce, quanto ci fa sorridere e ridere! Nulla crea più complicità di una comune, condivisa stupidità. Quanti legami si sono forgiati su una battuta sciocca, quanti amori sono sbocciati grazie a un piccolo, innocente atto di stupidità! La vita, insomma, sarebbe infinitamente più arida e grigia senza la benedetta stupidità.

Infine, lasciatemi concludere con un pensiero del nostro caro Montaigne, che, nel suo consueto scetticismo, ci ammonisce: “La cosa più saggia che possiamo fare è non far caso alla saggezza.” E forse, in queste parole, troviamo il vero senso dell’elogio della stupidità. Essa ci ricorda che la vita è fatta per essere vissuta, non dissezionata; che l’errore è umano, troppo umano; e che, in fondo, la stupidità è una parte essenziale di quella meravigliosa commedia che è l’esistenza.

Siamo dunque grati alla stupidità, questa umile compagna di viaggio, che, con il suo sorriso ingenuo e la sua tenacia disarmante, ci ricorda che vivere è, prima di tutto, un atto di coraggio e di leggerezza.

martedì 3 settembre 2024

“Teatini, 500 anni di fedeltà a Dio e alla Chiesa” di Davide Romano, giornalista




Ah, i Teatini! Un ordine che, a volte, sembra sfuggire alle lenti della storia e dell'attenzione popolare, ma che merita di essere celebrato con tutti gli onori, soprattutto in questo anno in cui ricorre il cinquecentenario dalla loro fondazione. Cinque secoli fa, nel 1524, nacque una congregazione che incarnava lo spirito del Barocco: un intreccio di profonda pietà, rigore ascetico, e, perché no, un pizzico di quella vanità clericale che, se ben dosata, non guasta mai.

Fondati da Gaetano di Thiene e Gian Pietro Carafa, futuro Papa Paolo IV, i Teatini non scelsero un santo o un mistero per dare nome al loro ordine. No, scelsero di legarsi al vescovo di Chieti, una piccola città che pochi saprebbero collocare su una mappa. Ma questa scelta, apparentemente modesta, nasconde una saggezza profonda. Come suggerisce Sant'Agostino, “La misura dell'amore è amare senza misura,” e i Teatini, nel loro amore per la Chiesa, non cercavano di impressionare con titoli altisonanti, ma puntavano alla sostanza e alla sincerità della loro missione.

La magnificenza delle chiese teatine è un paradosso affascinante: dietro l’austerità dell’intento si cela una bellezza che esalta il divino. Come diceva San Tommaso d'Aquino, “Il bello è lo splendore del vero,” e i Teatini lo dimostrarono attraverso architetture che non solo servivano alla gloria di Dio, ma che elevavano lo spirito di chiunque vi mettesse piede. Le loro chiese, veri gioielli del Barocco, risplendono ancora oggi, unendo la grandiosità artistica alla profondità della fede.

Lo stile dei Teatini, a differenza di altri ordini più modesti nelle apparenze, rifletteva una comprensione particolare della povertà: una virtù interiore che non doveva escludere l'apprezzamento della bellezza creata. Come affermava Romano Guardini, “L’arte è una creazione sublime, un’immagine dello Spirito divino,” e i Teatini sembravano aver abbracciato questa visione, trasformando le loro chiese in opere d’arte che parlano dell’ineffabile.

Inoltre, i Teatini erano noti per la loro discrezione. Non cercavano la fama né la gloria, non predicavano alle masse come i Domenicani né si immergevano nelle dispute intellettuali come i Gesuiti. Preferivano il silenzio contemplativo, l'influenza nascosta, ma pervasiva, nelle sfere ecclesiastiche e politiche. Come ricordava Kierkegaard, “La vera grandezza è invisibile,” e i Teatini, con la loro sapiente ritrosia, ne sono un perfetto esempio.

Ma ciò che rende i Teatini davvero speciali, e forse un po' inaspettati, è la loro umanità. In un mondo ecclesiastico spesso dominato da rigide regole e severe discipline, i Teatini ci mostrano che la santità può essere, come dice Karl Rahner, “una profonda umanità.” Un’umanità che accoglie sia la magnificenza del Barocco che l’austerità dell’ascetismo, un’umanità che non disdegna la bellezza, la gioia, e, sì, anche un tocco di vanità mondana.

In definitiva, i Teatini ci ricordano che la via della santità è un cammino ricco di contraddizioni, dove l'uomo, come affermava Blaise Pascal, “supera infinitamente l’uomo.” E in questo anniversario dei loro 500 anni, rendiamo omaggio a un ordine che, nella sua apparente discrezione, ha saputo unire sacro e profano, grandezza e modestia, in un abbraccio che è profondamente, splendidamente umano.

 

lunedì 2 settembre 2024

“Palermo, l’illusione di un cambiamento impossibile” di Davide Romano


Palermo, la città che avvolge i suoi abitanti in un abbraccio di calore e rassegnazione, è un paradosso ambulante, un labirinto di bellezza e degenerazione che sembra perpetuare una tragica commedia. Passeggiando tra le vie lastricate e i palazzi secolari, si ha l'impressione di trovarsi in un romanzo di Tomasi di Lampedusa e Kafka, dove l'inevitabilità di un destino immutabile si fonde con la speranza di un cambiamento che non arriva mai.

La città, orgogliosamente appesa tra il passato e il presente, si comporta come un grande attore che recita sempre la stessa parte: quella di chi aspira a una modernità che poi, immancabilmente, si dissolve in nulla. Questo eterno gioco di specchi e illusioni è un tormento continuo per chi, invece, vorrebbe vedere un vero cambiamento. La bellezza di Palermo, con i suoi monumenti e la sua storia, non può nascondere il marcio che corrode il cuore pulsante della città.

E che dire della lotta contro la mafia? Un'altra ironia amara del palcoscenico palermitano. Da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due eroi della giustizia, fino ai magistrati e ai poliziotti che hanno continuato a combattere, Palermo ha visto sacrifici inenarrabili. Eppure, nonostante questi eroismi, la mafia continua a prosperare come una pianta infestante. Falcone e Borsellino sono stati martiri di una guerra che sembra non avere mai fine, eroi che hanno pagato il prezzo più alto per un cambiamento che non si è mai veramente materializzato.

Si potrebbe pensare che Palermo sia una città che ama il proprio immobilismo come un amante geloso. Le promesse di riforme e cambiamenti sembrano essere solo un esercizio di retorica vuota. Politici e amministratori fanno dichiarazioni altisonanti che, alla prova dei fatti, si dimostrano ridicole. La riflessione di Lord Acton sul potere, “Il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente,” trova una conferma lampante nella realtà palermitana. Qui, il potere sembra essere un gioco sporco in cui i più forti e i più influenti giocano a discapito dei più deboli.

La città si adatta a una sorta di vita “dimenticata,” come se il tempo si fosse fermato in un ciclo di perpetuo rimpianto e autoindulgenza. Le parole di Albert Camus sull’assurdo, “L’assurdo nasce dalla confrontazione tra il chiamato umano e il silenzio irragionevole del mondo,” risuonano particolarmente vere a Palermo. La città, con le sue promesse non mantenute e i suoi cicli interminabili di violenza e corruzione, appare come una delle più alte espressioni di questo assurdo.

Nel panorama palermitano, il cambiamento è spesso una facciata, una recita ben preparata ma mai veramente realizzata. Ogni tentativo di riforma è destinato a naufragare sotto il peso di una tradizione opprimente e di interessi consolidati. Friedrich Nietzsche osservava che “la grandezza di una città non si misura dal numero di edifici, ma dal numero di anime che vi sono sopravvissute.” Palermo, con il suo eterno ciclo di speranze infrante e promesse mai mantenute, è un testamento vivente di questa riflessione.

Eppure, Palermo è più di un semplice teatro di contraddizioni; è un simbolo della nostra incapacità di affrontare e risolvere le questioni che più ci angosciano. La città, con tutta la sua bellezza e la sua brutalità, resta un monumento alla complessità dell’esistenza umana, un palcoscenico dove le speranze di redenzione si mescolano con la realtà cruda di una società che rifiuta di cambiare. Palermo rimane, così, un esempio immortale di come l'immobilità e l'autoindulgenza possano trasformarsi in un dramma eterno, un'opera tragica senza fine, che costringe i suoi cittadini a rivivere continuamente una storia di bellezza e corruzione, di amore e rabbia.

 

sabato 31 agosto 2024

“Alla ricerca dell’unità perduta. Perché Oriente e Occidente cristiani devono tornare a dialogare e a incontrarsi” di Davide Romano, giornalista

 




C’è qualcosa di irresistibile nel fascino dell’Oriente Cristiano, una sorta di incanto che mi prende ogni volta che mi immergo nella storia e nella spiritualità di quei luoghi antichi e misteriosi. È un’attrazione che nasce non solo dalla bellezza delle liturgie, dalle icone che sembrano vivere, o dai canti che risuonano come un eco dell’eternità, ma da un senso di profondità spirituale che, purtroppo, abbiamo in gran parte perduto qui in Occidente.

L'Oriente Cristiano è una finestra aperta sull'infinito, una porta socchiusa che lascia intravedere il mistero di Dio e la bellezza della fede incarnata. Eppure, questa ricchezza spirituale non è un tesoro esclusivo, riservato a pochi eletti. Anzi, è un patrimonio che appartiene all'intera cristianità, a quella Chiesa che, come ci ricorda San Paolo, è “un solo corpo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione” (Efesini 4:4).

Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché questo senso di separazione, di distanza, tra Oriente e Occidente? Perché quella che era una sola Chiesa, unita nella fede e nei sacramenti, è stata spezzata, frammentata, da divisioni che sembrano insormontabili?

Qui, forse, si cela la tragedia della storia umana, quella tendenza innata dell'uomo a creare barriere, a erigere muri anziché costruire ponti. Eppure, l’attrazione per l’Oriente Cristiano non è soltanto il richiamo di una bellezza antica, ma anche la nostalgia di un'unità perduta, il desiderio di ricomporre ciò che l’orgoglio e l’incomprensione hanno spezzato.

“La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio,” scriveva Sant’Ireneo di Lione, uno dei grandi Padri della Chiesa. E in questa visione di Dio, non c’è distinzione tra Oriente e Occidente, tra Greco e Latino, tra Romano e Bizantino. Tutti sono chiamati a contemplare il volto di Cristo, tutti sono invitati a partecipare alla sua gloria. Ma per farlo, occorre superare le divisioni, ritrovare l’unità che era il segno distintivo della Chiesa primitiva.

Pensiamo, per esempio, alla profondità teologica dell'Oriente, alla sua capacità di penetrare nei misteri divini con una finezza e una sensibilità che spesso mancano all'Occidente, troppo spesso concentrato su aspetti più razionali e giuridici della fede. L'Oriente ci ricorda che la teologia non è solo una scienza, ma una forma di preghiera, un atto di adorazione. “La vera teologia è quella che si fa in ginocchio,” diceva Evagrio Pontico, uno dei grandi monaci del deserto. E questa teologia in ginocchio, questo approccio contemplativo e mistico alla fede, è qualcosa di cui l'Occidente ha un bisogno disperato.

Ma l'Occidente non ha solo da ricevere. Ha anche molto da offrire. Ha sviluppato una spiritualità dell'incarnazione, dell'azione, del coinvolgimento nel mondo, che è altrettanto importante e complementare alla spiritualità orientale. San Benedetto da Norcia, con il suo “Ora et labora,” ha dato vita a un modello di vita cristiana che unisce preghiera e lavoro, contemplazione e azione, creando una sintesi che ha plasmato la civiltà occidentale. E questa sintesi, questa capacità di unire cielo e terra, è qualcosa che potrebbe arricchire profondamente anche l'Oriente.

C'è una bellezza particolare nel pensiero che l'Oriente e l'Occidente, come due polmoni di un unico corpo, possano respirare insieme, ognuno apportando all'altro ciò che gli manca. “Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero” (Matteo 11:30), dice il Signore, e forse è proprio questo il giogo che dobbiamo accettare: il giogo dell'unità, che non è uniformità, ma comunione nelle diversità.

I Padri della Chiesa avevano una visione profondamente unitaria della fede cristiana. San Giovanni Crisostomo, la cui Divina Liturgia è il cuore della spiritualità bizantina, parlava dell'Eucaristia come del “vincolo della carità”, il sacramento che unisce i cristiani in un solo corpo. E Sant'Agostino, dall'altra parte dell'Impero, predicava che “dove c’è carità e amore, lì c’è Dio.” Questi due giganti della fede, pur appartenendo a tradizioni diverse, erano uniti nella convinzione che l'amore è il fondamento della Chiesa e che solo nell'amore si può ritrovare l'unità.

L'Oriente Cristiano, con la sua resistenza contro le intemperie della storia, contro le invasioni, le persecuzioni, i tentativi di omologazione, ci offre una lezione preziosa: quella della perseveranza nella fede. “Siate saldi e irremovibili, sempre abbondanti nell’opera del Signore” (1 Corinzi 15:58), ci esorta San Paolo, ricordandoci l'importanza di non cedere di fronte alle difficoltà.

L'Occidente, con la sua capacità di riflessione teologica, la sua spiritualità dell'incarnazione, può offrire all'Oriente un aiuto prezioso per affrontare le sfide del presente. Ma solo se entrambi i mondi sanno riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, e accettano di imparare l'uno dall'altro.

Ricomporre l’unità perduta tra Oriente e Occidente non è solo un imperativo ecumenico, ma una necessità spirituale per la Chiesa del terzo millennio. “Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te; siano anch'essi uno in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17:21). Queste parole di Gesù, pronunciate durante l’Ultima Cena, sono un richiamo potente a ritrovare quell'unità che è il segno distintivo del cristianesimo.

Il cammino verso l'unità non sarà facile. Richiederà umiltà, pazienza, e soprattutto, una grande capacità di ascolto reciproco. Ma ne vale la pena. Perché solo unendo le ricchezze spirituali dell'Oriente e dell'Occidente potremo riscoprire la pienezza della fede cristiana, quella fede che, come diceva San Basilio, “è il dono più prezioso che l'uomo può ricevere da Dio.”

In un mondo sempre più disorientato e privo di punti di riferimento, riscoprire l’Oriente Cristiano è un po’ come ritrovare una bussola perduta. Ma non basta. È necessario anche riconciliare quella bussola con le tradizioni occidentali, creando un dialogo vivo e fecondo che possa arricchire entrambe le parti. Solo così potremo sperare di ricomporre l’unità perduta, di guarire le ferite del passato e di costruire una Chiesa che, pur nelle sue diversità, sia veramente una, santa, cattolica e apostolica.

 

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...