venerdì 13 settembre 2024

“Da Washington a Biden, la fede dei presidenti Usa una bussola o un’arma politica?” di Davide Romano

 



L’America, che ha scritto il principio di separazione tra Stato e Chiesa nella sua Costituzione, non ha mai smesso di intrecciare la politica con la religione. Se ieri il giuramento dei presidenti avveniva con la mano su una Bibbia, la stessa scena si è ripetuta con Joe Biden, il secondo cattolico alla Casa Bianca, dopo John F. Kennedy. Ma cosa significa, oggi, parlare di fede in politica? E quanto è reale la devozione dei presidenti moderni?

 

Biden, cattolicesimo e compassione sociale

Partiamo dal presente. Joe Biden, presidente che non ha mai nascosto la sua profonda fede cattolica, si è trovato a guidare un’America più polarizzata che mai. La sua storia personale, segnata da lutti familiari e tragedie, lo ha avvicinato al lato umano e compassionevole del cattolicesimo. Non è raro vederlo partecipare alla messa o fare riferimento alla sua fede in discorsi pubblici. “La fede mi ha dato speranza e conforto quando ho perso mio figlio”, ha detto più volte.

Ma c’è chi accusa Biden di ipocrisia: mentre professa una fede profonda, il suo approccio politico su temi come l’aborto e i diritti LGBTQ è in conflitto con le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica. Qui emerge la tensione tra il cattolico Biden e il politico Biden, costretto a navigare tra le sue convinzioni personali e le richieste di un elettorato progressista.

 

Trump, l’evangelismo politico

Se Biden rappresenta il cattolicesimo compassionevole, Donald Trump è il campione del movimento evangelico conservatore, un gruppo che ha avuto un ruolo cruciale nel portarlo alla Casa Bianca. Eppure, la fede personale di Trump è sempre stata motivo di perplessità. Poche volte lo si è visto in chiesa, e raramente ha fatto riferimenti spirituali autentici.

Ma Trump ha saputo usare la religione come strumento politico. Con un linguaggio che mescolava patriottismo e fede, si è presentato come il difensore della “città sulla collina”, un riferimento biblico caro agli evangelici. “Nessuno ha fatto più di me per i cristiani in questo paese”, dichiarò una volta, enfatizzando le sue politiche anti-aborto e la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema. Se fosse autentica convinzione o pura strategia elettorale, è difficile dirlo. Di certo, la sua presidenza ha cementato l’alleanza tra la politica repubblicana e la destra religiosa.

 

Obama, fede personale, ma laica

Prima di Trump, Barack Obama, il primo presidente afroamericano, portò una visione più laica, ma comunque radicata nella fede. Anche se raramente si definiva un fervente praticante, Obama trovò nelle Scritture ispirazione per i suoi discorsi pubblici, spesso citando la Bibbia per parlare di giustizia sociale. “Sono il custode di mio fratello e di mia sorella ”, ripeteva, facendo eco al cristianesimo sociale che aveva appreso frequentando la chiesa di Chicago.

Ma la sua fede fu messa in dubbio sia da destra che da sinistra. La destra lo accusava di non essere abbastanza cristiano, insinuando addirittura che fosse segretamente musulmano, mentre la sinistra criticava il suo uso della religione per giustificare interventi sociali e militari. Obama camminava su un filo sottile: un presidente che parlava di fede, ma che cercava di tenere quella stessa fede fuori dalle sue decisioni politiche.

 

Bush e il ritorno della religione in politica

L’ascesa di George W. Bush segnò un punto di svolta nella storia recente della fede presidenziale. Bush, un convertito evangelico, un "nato di nuovo", fece della sua religione una parte integrante della sua politica. “Ho trovato Dio nei momenti di difficoltà”, dichiarò più volte, parlando della sua lotta con l’alcolismo e della sua rinascita spirituale.

Ma la sua fede non si fermava alla vita privata. Durante la presidenza, Bush invocò il nome di Dio per giustificare decisioni politiche cruciali, come la guerra in Iraq. “Il male deve essere sconfitto”, dichiarò, usando un linguaggio quasi biblico per definire la lotta al terrorismo. Tuttavia, la sua fusione tra religione e politica suscitò non poche critiche, anche tra i suoi stessi alleati, che temevano una deriva teocratica.

 

La fede dei presidenti

La fede dei presidenti americani, da Washington a Biden, passando per Trump e Obama, rimane una questione complessa e ambigua. È stata, per alcuni, una guida sincera nella vita e nella politica, per altri, uno strumento di potere. Sant’Agostino scriveva: “La fede è credere in ciò che non vedi; la ricompensa della fede è vedere ciò che credi”. Ma per i presidenti americani, quanta parte della loro fede è stata vera convinzione, e quanta semplice necessità elettorale?

Nell’America di oggi, sempre più divisa, la fede resta una bussola morale per alcuni e un’arma politica per altri.

“La Bibbia nella cultura americana, tra sacro e profano, un mito fondante” di Davide Romano

 



Se c’è un testo che ha influenzato profondamente la cultura americana, dalla politica alla letteratura, passando per la musica e il cinema, è la Bibbia. In un paese fondato su princìpi di libertà religiosa, paradossalmente la Bibbia ha attraversato ogni aspetto della vita pubblica e privata. Non si tratta solo di un testo religioso: per molti americani è un simbolo di identità nazionale, una bussola morale, e talvolta, uno strumento politico.

 

Le radici bibliche dell’America

La relazione dell’America con la Bibbia risale agli inizi della sua storia. Quando i Padri Pellegrini sbarcarono sulle coste del New England nel 1620, portarono con sé una visione del mondo fortemente influenzata dalle Scritture. John Winthrop, uno dei leader della colonia del Massachusetts, nel celebre sermone “A Model of Christian Charity” parlò di una "città sulla collina", un’immagine tratta dal Vangelo di Matteo (5:14), che divenne una metafora duratura per la missione divina dell’America.

“Siamo una nazione sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”, recita il Giuramento di fedeltà, aggiunto solo nel 1954, durante la Guerra Fredda, ma che rivela quanto la fede e il senso di destino abbiano sempre marcato la storia americana.

 

La Bibbia come mito fondatore

Alexis de Tocqueville, osservatore acuto della democrazia americana, scrisse nel suo classico “La democrazia in America” (1835): “Non ho mai visto un paese in cui la religione cristiana abbia una tale influenza sulla società quanto negli Stati Uniti. Nessun altro popolo sembra aver intrecciato così strettamente la fede con le sue istituzioni politiche”. Tocqueville notò che la Bibbia non solo era presente nelle case, ma anche nei tribunali, nelle scuole e, naturalmente, nei discorsi politici.

 

Letteratura e Bibbia, un matrimonio secolare

Il potere della Bibbia in America non si limita alla sfera religiosa. Scrittori come Herman Melville, Nathaniel Hawthorne e Mark Twain hanno tutti trovato nella Bibbia una fonte di ispirazione, e talvolta di satira. Melville, nel suo capolavoro Moby Dick, utilizza riferimenti biblici per descrivere la lotta epica tra l’uomo e il destino. L’ossessivo capitano Achab, nella sua caccia alla balena bianca, diventa un moderno Giobbe, ribellandosi contro un Dio silenzioso e crudele.

Mark Twain, sempre pungente, ironizzò: “La Bibbia contiene tesori inestimabili e le migliori cure per l’immaginazione, ma è come il vino di buona annata, deve essere presa con moderazione”. Twain era consapevole dell’influenza della Bibbia sulla cultura popolare, ma allo stesso tempo ne criticava l’uso strumentale da parte della politica.

 

La Bibbia come strumento politico

In effetti, pochi libri hanno avuto un peso così determinante nella politica americana quanto la Bibbia. Come osserva il politologo Kevin Kruse nel suo libro “One Nation Under God” (2015), la Bibbia è stata spesso usata per giustificare politiche di ogni sorta. Durante la Guerra Civile, sia i nordisti che i sudisti trovavano nelle Scritture giustificazioni per le loro rispettive cause. Abraham Lincoln, uno dei presidenti più legati alla fede, disse nel suo Secondo discorso inaugurale (1865): “Entrambe le parti leggono la stessa Bibbia e pregano lo stesso Dio, e ciascuno invoca il Suo aiuto contro l'altro”.

Ma se Lincoln usava la Bibbia per cercare una riconciliazione morale, altri hanno spesso usato il testo sacro per fini meno nobili. Franklin D. Roosevelt, in uno dei momenti più drammatici della Seconda Guerra Mondiale, citò il Salmo 91 in un discorso radiofonico del 1941, per rafforzare la fiducia della nazione nella vittoria: “Non temerai il terrore della notte, né la freccia che vola di giorno”. La Bibbia, dunque, non era solo un testo religioso, ma un potente strumento retorico.

 

Religione e diritti civili

Se la Bibbia è stata usata per giustificare la schiavitù, è anche vero che è stata l’arma più potente dei leader dei diritti civili. Martin Luther King Jr., pastore battista e leader del movimento, attingeva costantemente alle Scritture per sostenere la giustizia razziale. In uno dei suoi discorsi più noti, “I Have a Dream” (1963), King invocò l'immagine biblica di “ogni valle sarà colmata e ogni montagna e colle saranno abbassati” (Isaia 40:4), prefigurando una nuova era di uguaglianza e giustizia.

James Baldwin, scrittore afroamericano, in “The Fire Next Time” (1963), denunciò come la Bibbia fosse stata usata sia come strumento di oppressione che di liberazione. “L’eredità biblica è quella di un popolo in esilio”, scrisse Baldwin, suggerendo che la lotta degli afroamericani per i diritti civili fosse simile alla lotta del popolo ebraico per la liberazione.

 

Il declino della Bibbia?

E oggi? L’influenza della Bibbia nella cultura americana sembra diminuire in un’epoca di secolarizzazione crescente. Eppure, come osserva l’editorialista del New York Times Ross Douthat, “anche quando la fede si indebolisce, il linguaggio e i simboli della Bibbia restano profondamente radicati nella coscienza americana”. Anche la cosiddetta “guerra culturale” moderna, che vede contrapposti progressisti e conservatori, trova le sue radici in interpretazioni diverse del testo sacro.

La Bibbia, con le sue storie di creazione, distruzione e redenzione, è stata e rimane un pilastro della cultura americana. Ralph Waldo Emerson, filosofo e saggista del XIX secolo, scrisse: “La Bibbia è una delle opere più profonde e universali mai scritte, capace di parlare a ogni epoca e a ogni condizione umana”. Che venga letta con fede o con scetticismo, resta un testo imprescindibile per comprendere l'anima americana. E, come la nazione stessa, continua a suscitare dibattiti, ispirare sogni e, talvolta, alimentare conflitti.

 

“Il sogno di una nazione guidata dal dovere. Elogio dell’America puritana” di Davide Romano, giornalista

 


Parlare dell'America puritana, oggi, suona come un ossimoro in una nazione che ha fatto della libertà individuale, dell'edonismo e del consumo sfrenato i suoi pilastri. Eppure, alle radici di quel grande esperimento chiamato Stati Uniti d'America, c'è proprio l’etica puritana, la stessa che ha modellato il carattere di una nazione destinata a diventare una superpotenza. Un’etica che, seppur criticata e talvolta derisa, merita un elogio, non fosse altro che per aver forgiato lo spirito di sacrificio, disciplina e responsabilità collettiva che ha reso l’America ciò che è.

 

L’etica del lavoro: “La vocazione come dovere”

Non si può parlare di puritanesimo senza menzionare Max Weber, il filosofo e sociologo tedesco che nella sua opera L'etica protestante e lo spirito del capitalismo scrisse: “La ricerca del successo economico non è immorale, anzi, per i puritani è il segno della grazia divina”. Per i primi coloni puritani sbarcati nel Nuovo Mondo, il lavoro non era semplicemente un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma un dovere sacro, un modo per dimostrare a Dio che la loro vita aveva senso.

La "vocazione", nel senso weberiano, diventa la lente attraverso cui leggere il dinamismo economico e sociale degli Stati Uniti. I puritani non lavoravano per accumulare ricchezza fine a sé stessa, ma per glorificare Dio attraverso il loro impegno quotidiano. E fu proprio questa dedizione assoluta al lavoro a gettare le basi per quella straordinaria cultura imprenditoriale americana che, nel bene e nel male, ha conquistato il mondo.

 

La città sulla collina: “Una missione divina”

Quando John Winthrop, uno dei padri fondatori della colonia della Baia del Massachusetts, pronunciò nel 1630 il celebre discorso "A Model of Christian Charity", delineò una visione che avrebbe segnato per sempre l’identità americana: "Saremo come una città sulla collina. Gli occhi di tutto il mondo saranno su di noi". Per i puritani, l’America non era solo una terra di opportunità materiali, ma una missione divina. Il Nuovo Mondo doveva diventare un esempio morale per l’umanità, un luogo dove si praticava la giustizia, la carità e il rispetto delle leggi di Dio.

Questa visione millenarista, quasi profetica, ha continuato a riecheggiare nei secoli successivi, influenzando figure politiche come John F. Kennedy e Ronald Reagan, che hanno ripreso la metafora della "città sulla collina" per sottolineare la missione morale degli Stati Uniti nel mondo. Dietro la facciata del pragmatismo e della realpolitik, l'America non ha mai abbandonato l’idea di essere una nazione eccezionale, destinata a guidare il mondo non solo con il potere economico e militare, ma anche con i suoi principi etici.

 

La moralità della libertà: “La legge di Dio e quella degli uomini”

Per i puritani, la libertà era qualcosa di profondamente diverso da quella intesa nelle moderne democrazie liberali. Non era la libertà di fare tutto ciò che si desiderava, ma la libertà di fare ciò che era giusto. Come notò Alexis de Tocqueville nel suo classico La democrazia in America, “i puritani unirono in maniera straordinaria lo spirito della libertà e quello della religione”, creando un sistema in cui la legge civile rifletteva, almeno in teoria, la legge divina. In altre parole, la libertà non era mai disgiunta dal dovere.

Tocqueville rimase affascinato dall'idea che la libertà, per essere sostenibile, dovesse essere ancorata a una solida base morale. Il rischio di una libertà senza freni, ammoniva, sarebbe stata la disintegrazione sociale, un rischio che i puritani avevano ben compreso. La loro severa disciplina morale e religiosa fu, in questo senso, una salvaguardia contro gli eccessi di una libertà mal gestita. E sebbene l'America moderna abbia in gran parte abbandonato questo rigore puritano, la sua influenza si avverte ancora in molte istituzioni, dall'impegno per la giustizia sociale alla devozione per l'ordine costituito.

 

L’ironia del puritanesimo: “Peccatori nella mani di un Dio arrabbiato”

Ma il puritanesimo non era tutto rose e fiori. La severità morale dei padri pellegrini, con il loro ossessivo bisogno di purificare la comunità dai peccati, diede luogo a episodi inquietanti, come i processi alle streghe di Salem del 1692. Nathaniel Hawthorne, discendente di uno dei giudici di Salem, esplorò il lato oscuro del puritanesimo nel suo romanzo La lettera scarlatta, dove la protagonista, Hester Prynne, viene marchiata a vita per un peccato di adulterio. Hawthorne, come molti scrittori americani successivi, fu critico della rigidità puritana, ma al tempo stesso riconosceva che quella stessa rigidità aveva contribuito a costruire una società ordinata e rispettosa delle leggi.

E come dimenticare Jonathan Edwards, uno dei più influenti predicatori puritani del XVIII secolo? Nel suo sermone Peccatori nelle mani di un Dio arrabbiato, Edwards descrisse l’umanità come appesa a un filo sopra le fiamme dell’inferno, trattenuta solo dalla misericordia di un Dio che, per la maggior parte del tempo, sembrava tutto tranne che benevolo. L'ironia del puritanesimo è che, pur predicando la salvezza attraverso la grazia, riusciva a far sentire i fedeli come dei condannati già in vita, costretti a un’esistenza di penitenza e autocontrollo.

 

Il lascito puritano: “Un’eredità complessa”

Eppure, nonostante queste ombre, il lascito del puritanesimo americano è innegabile. Come sottolineò lo storico Perry Miller, "il puritanesimo è stato il motore segreto della cultura americana, una forza che, per quanto criticata e spesso rimossa dalla memoria collettiva, continua a plasmare la coscienza nazionale". L’etica del lavoro, il senso del dovere verso la comunità e la convinzione che l'America abbia una missione morale nel mondo sono tutte radici puritane che affondano nella storia e che, volenti o nolenti, ci accompagnano ancora oggi.

La grandezza dell’America puritana, dunque, non sta solo nelle sue virtù o nei suoi successi economici, ma nella sua capacità di tenere insieme libertà e responsabilità, individualismo e senso del dovere. Un equilibrio che, sebbene fragile, ha permesso alla nazione di crescere e prosperare. Forse è proprio questo che dobbiamo ricordare: l’America puritana non è un ricordo nostalgico di tempi passati, ma una lezione vivente di cosa significa costruire una società dove la libertà si coniuga con il dovere e la religione con la legge.


“Palermo è un ossimoro” di Davide Romano, giornalista

 


Palermo non è solo una città: è un ossimoro vivente, una contraddizione che respira e sopravvive da secoli, tra decadenza e rinascita, splendore e degrado. Se mai un luogo ha incarnato la filosofia dell’assurdo di Albert Camus, è qui, tra i vicoli del centro storico, sotto le cupole arabo-normanne e accanto ai ruderi delle dominazioni passate. Camus scrisse che «il vero atto di ribellione è vivere nonostante l’assurdo», e i palermitani, da millenni, hanno trasformato questa massima in un codice di vita. Palermo è una città che vive nonostante se stessa, nonostante le sue ferite, e forse, proprio per questo, riesce a sopravvivere con una grazia e una bellezza che sfidano ogni logica.

 

La città dove tutto è il contrario di tutto

Palermo è il luogo dove la logica si piega alle regole di una politica tanto complessa quanto ineffabile. Giulio Andreotti diceva che «il potere logora chi non ce l’ha», e qui questa frase suona quasi come un aforisma inscritto nel DNA collettivo. A Palermo, il potere non si logora mai: muta, si adatta, ma resta sempre nelle mani di chi sa come gestirlo, come manipolarlo. Il vero potere, qui, non è una questione di titoli o cariche ufficiali, ma di reti informali, di compromessi segreti, di favori silenziosi scambiati sotto il tavolo.

Eppure, il potere a Palermo non si limita al livello politico. C’è un potere più profondo, più viscerale, che permea ogni aspetto della vita cittadina: il potere dell’abitudine, della rassegnazione, di un sistema che resiste al cambiamento con la forza dell’immobilismo. Leonardo Sciascia, che di Palermo non era ma che della Sicilia conosceva ogni ombra, scriveva: «In Sicilia il potere non si manifesta mai apertamente, ma si insinua come una malattia nascosta, contagia senza che te ne accorga». È proprio questa invisibilità del potere che rende Palermo una città sospesa, dove il cambiamento sembra impossibile e il presente è una perpetua ripetizione del passato.

 

La politica al sapore di cannella e cenere

A Palermo, la politica è un piatto complesso, condito con spezie antiche, aromi che mescolano il profumo dolce della cannella con l’amarezza della cenere. Ogni decisione politica sembra un gioco di prestigio, dove ciò che è visibile non è mai ciò che conta davvero. Ogni riforma è un passo indietro mascherato da progresso, ogni promessa un’illusione destinata a evaporare con il calore del sole siciliano.

Non è un caso che Palermo sia il teatro ideale per osservare la politica italiana in tutta la sua tragicomica complessità. Come disse una volta Benedetto Croce, «la politica è un’arte che deve essere esercitata con grande misura, ma a Palermo sembra essere una farsa recitata senza copione». Una farsa, sì, ma con attori consumati, capaci di trasformare ogni crisi in una nuova occasione per consolidare il proprio potere.

E tuttavia, Palermo è anche il luogo dove si può ancora sognare. Dove, in mezzo alle macerie di una città che pare non voler mai risorgere completamente, si intravede sempre una scintilla di speranza. Lo scrittore e giornalista Mario Praz diceva che «le rovine di una città antica contengono l'anima stessa del passato», e a Palermo le rovine non sono solo quelle materiali, ma anche quelle umane, politiche, sociali. Eppure, in queste rovine, c’è una bellezza che resiste, una dignità che non può essere cancellata.

 

La bellezza insopportabile

Se c’è una cosa che Palermo offre in abbondanza, è la bellezza. Ma è una bellezza che non può essere contemplata senza una certa dose di dolore. Guardare la Cattedrale normanna, con le sue torri arabeggianti e il suo fascino decadente, è come ammirare un’opera d’arte che si sta lentamente sbriciolando sotto i tuoi occhi. Palermo è una città che ti seduce con la sua architettura, ti affascina con i suoi scorci mozzafiato, ma allo stesso tempo ti lascia un senso di perdita, di opportunità mancate.

George Orwell, osservando le rovine della guerra, disse: «Ogni cosa preziosa è sempre sull’orlo della distruzione». A Palermo, questa verità è visibile in ogni angolo. I palazzi storici, magnifici nella loro decadenza, sembrano sempre sull’orlo del crollo. La bellezza a Palermo è una cosa fragile, precaria, ma proprio per questo irresistibile. È una bellezza che ti costringe a fare i conti con la caducità, con l’inevitabile passare del tempo, con la morte che si insinua silenziosamente in ogni pietra.

 

L’arte di sopravvivere al destino

I palermitani, però, sono maestri nell’arte della sopravvivenza. In una città dove tutto sembra costantemente sul punto di cadere a pezzi, c’è una resilienza che sfida ogni previsione. Palermo è una città che si adatta, si reinventa, sopravvive a se stessa. Come scriveva Luigi Pirandello, «l’arte di arrangiarsi è la vera filosofia di vita in Sicilia». Qui, l’arte di arrangiarsi è più che una strategia di sopravvivenza: è una forma di resistenza, un modo di affermare la propria identità in un mondo che sembra volerti cancellare.

Ma a Palermo non ci si limita a sopravvivere: si vive con passione, con un’intensità che è unica nel suo genere. La vita qui è un teatro, e i palermitani sono attori consumati, capaci di improvvisare in ogni situazione. Jean-Paul Sartre avrebbe amato Palermo per il suo spirito esistenziale, per la sua capacità di affrontare l’assurdo con un sorriso ironico e una battuta pronta. Palermo è una città dove nulla è certo, ma dove tutto è possibile.

 

Una conclusione dolce-amara

Eppure, nonostante tutto questo caos, Palermo resta. Resta nei cuori di chi la vive, di chi la ama e di chi la odia. Palermo è una città che ti entra dentro, che ti avvolge con il suo caldo abbraccio e non ti lascia più andare. È una città che ti fa soffrire, ma che, allo stesso tempo, ti fa innamorare della sua complessità, della sua bellezza nascosta, della sua anima tormentata.

Come diceva Leonardo Sciascia: «In Sicilia, il sole splende sempre, ma è un sole che illumina le ombre». Palermo è la città delle ombre, delle contraddizioni, dei paradossi. È una città che ti affascina e ti frustra, che ti riempie di meraviglia e di amarezza. È una città che vive nell’eterno presente, incapace di cambiare, ma sempre pronta a sorprendere.

Palermo è un mistero, una sfida, una promessa non mantenuta. Ma è proprio questa incompiutezza che la rende unica. Come una sinfonia interrotta, una poesia senza finale, Palermo ti lascia sempre con la sensazione che qualcosa di grande, di straordinario, potrebbe ancora accadere. Forse è proprio questo il suo fascino: l’eterna attesa di una rinascita che non arriva mai, ma che, nel suo ritardo, ci regala la struggente bellezza del sogno irrealizzato.

martedì 10 settembre 2024

"La Verità sotto una pila di libri (e dove metterla prima che crolli tutto)" di Davide Romano, giornalista

 


Il mio primo impatto con i libri è stato un incontro fatale, quasi un colpo di fulmine. Mio nonno materno, che non parlava mai di sé, ma lasciava che i suoi libri parlassero per lui, mi aprì le porte della sua biblioteca come un sacerdote che introduce il novizio al mistero. Immaginate scaffali che parevano sostenere l’intera volta celeste, poltrone di pelle consunta da anni di letture e silenzio, e un ragazzino che, piuttosto che correre dietro a un pallone, si trovava incastrato tra tomi più grandi di lui. Se qualcuno mi avesse detto che quel giorno sarebbe stato l'inizio di un'ossessione, non gli avrei creduto. Eppure eccomi qui, con una casa trasformata in una succursale della biblioteca nazionale e il costante problema di dove infilare l’ennesimo volume.

Ogni volta che entro in una libreria – o che ci entravo, perché ora rischio di essere portato via con la camicia di forza – sento lo stesso richiamo di allora. La differenza è che, ai tempi, mio nonno mi regalava i suoi libri; ora invece sono io a sacrificare stipendi, spazi vitali e, talvolta, anche rapporti umani per far entrare in casa l’ennesimo libro. Perché sì, non è mai “un libro in più,” è sempre l’ultimo. Questo mi ripeto, mentre devo decidere se piazzare Kierkegaard sullo sgabello o smontare il lampadario per fare spazio a una nuova pila. D’altronde, diceva Montaigne: "Mi considero felice se ho un libro sotto mano". Io però non ne ho solo uno, ne ho diecimila. Più che felice, ormai sono sepolto.

La cosa ironica è che ogni volume acquistato è frutto di un calcolo, di una necessità quasi metafisica. "Questo mi servirà per capire meglio l’esistenzialismo russo." "Questo altro è perfetto per completare la mia collezione di commentari biblici." "Questo? Beh, non posso non avere questo, no?" Mi giustifico con citazioni bibliche e filosofiche. "Molto studio affatica il corpo" (Ecclesiaste 12:12), ma tanto il corpo lo uso giusto per spostare i libri da un angolo all’altro. L’ultimo episodio comico è stato quando ho dovuto dormire in posizione fetale, circondato da volumi di Heidegger e Sant’Agostino, come un anacoreta circondato dalle sue reliquie. Almeno loro, però, avevano lo spazio per respirare.

Si potrebbe pensare che questa ossessione per la carta sia il segno di una mente smarrita. Non nego che, a tratti, sembra così anche a me. Qualche anno fa, mentre stavo organizzando un’intera sezione della mia biblioteca in base all’ordine alfabetico degli autori – un atto di megalomania pura – mi resi conto di essere diventato una specie di governante della mia follia. Ogni volta che trovo un libro fuori posto, sento un fastidio quasi fisico, come se quel disordine minasse la ricerca della verità che mi perseguita da sempre. E qui entra il paradosso: accumulo libri in cerca di verità, ma ogni volta che ne apro uno, non trovo che nuove domande. "Chi cerca trova", sì, ma qui si trova solo altro da cercare.

E mio nonno? Lui rideva sotto i baffi, lo vedo ancora, mentre mi porgeva quel suo volume di Dante, con un’espressione che sembrava dire: “Ti stai cacciando in un bel guaio, ragazzo.” Aveva ragione. È iniziato tutto con la Divina Commedia, e ora mi trovo in un inferno cartaceo dal quale non riesco più a uscire. Il mio amico Leopardi – che occupa un intero scaffale, tra l’altro – diceva che la felicità è un miraggio, un desiderio che non si realizza mai del tutto. E io, collezionando libri, ho solo ingrandito quel miraggio.

Forse è vero, come dice Pascal, che "non cercheresti Dio se non lo avessi già trovato." Ma tra diecimila libri, Dio lo trovo solo tra le pagine, e ogni volta si nasconde un po’ più in là. Continuo a comprare, continuo a leggere, continuo a cercare. Chissà, forse un giorno troverò la Verità nascosta sotto l’ennesima pila di libri, proprio mentre la mia casa crolla su se stessa sotto il peso di tutto questo sapere. E in fondo, non sarebbe neanche la peggiore delle fini.

“Politici e donne. Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo” di Davide Romano, giornalista


 

Ogni volta che un politico viene coinvolto, a vario titolo, in uno scandalo di natura sessuale, i media ci si buttano a capofitto come se fosse la prima volta. E non mi riferisco soltanto all’affaire  Sangiuliano (non più ministro) – Boccia (giammai consulente).

Se c’è, infatti, una costante nella storia del potere, è il fatto che i politici, uomini spesso di grande influenza e visione, ma anche no, abbiano un punto debole non trascurabile: le donne. L’eterno gioco di seduzione tra politica e femminilità ha prodotto scandali che vanno dall’antica Roma fino alla Casa Bianca. Perché, diciamolo chiaramente: mentre i politici cercano di risolvere i problemi del mondo, spesso i loro veri guai iniziano sotto le lenzuola.

 

Cesare e Cleopatra. Il primo scandalo internazionale

Cominciamo con Giulio Cesare, che non solo si dedicava a conquistare terre e popoli, ma anche cuori. E che cuori! La storia con Cleopatra è uno degli intrighi più famosi della storia. Non si trattava solo di politica: Cesare, uomo di visione e strategia, si trovò affascinato dalla regina egiziana, donna astuta e affascinante. Quando la portò a Roma, l’intera città sussurrava di scandali. Certo, Cesare era già sposato, ma chi avrebbe potuto resistere alla tentazione di una regina che si avvolgeva in un tappeto per entrare nelle sue stanze?

 

Enrico VIII, l’uomo delle sei mogli e delle innumerevoli amanti

Passiamo poi a Enrico VIII d’Inghilterra, un re per cui le donne non erano solo una passione, ma un’ossessione. Il buon Enrico, noto più per il suo appetito sessuale che per le sue capacità diplomatiche, ebbe sei mogli, innumerevoli amanti, ma solo perché continuava a decapitare o divorziare da quelle che non gli piacevano più. Come dimenticare il suo drammatico divorzio da Caterina d'Aragona che portò allo scisma con la Chiesa cattolica? Alla fine, Enrico si ritrovò solo e ingrassato, vittima delle sue stesse pulsioni. L’ironia è che la donna per cui sacrificò tutto, Anna Bolena, finì anch’essa decapitata.

 

Napoleone e Giuseppina, l’imperatore innamorato

Napoleone Bonaparte, che conquistò mezzo mondo e si autoproclamò imperatore, si ritrovava debole come un bambino davanti a Giuseppina. Nonostante la sua pretesa di essere un uomo di ferro, il piccolo corso scriveva lettere infuocate alla sua amata, pieni di una passione quasi adolescenziale. Eppure, Giuseppina non era esattamente l’immagine della fedeltà. Napoleone, dopo averle perdonato tradimenti e bugie, finì per divorziare da lei. “Se non posso avere la sua fedeltà,” avrebbe detto, “avrò almeno la Francia”. La verità è che, anche con una corona in testa, il cuore è sempre più vulnerabile della spada.

 

Kennedy e Marilyn, la caduta del re americano

Arriviamo poi al XX secolo, e qui gli scandali si moltiplicano. John F. Kennedy, il presidente che incarnava il sogno americano, aveva un debole ben noto per le belle donne. Tra tutte, la sua relazione con Marilyn Monroe è la più iconica. Quando la bionda più famosa di Hollywood cantò “Happy Birthday, Mr. President” con una sensualità che si poteva quasi toccare, l’America intera capì che qualcosa bolliva in pentola. Certo, JFK era sposato con la sofisticata Jacqueline, ma si sa: il potere seduce, e il potere assoluto... beh, seduce assolutamente. Il resto della storia si è perso tra le pieghe dei segreti di Stato e le copertine patinate.

 

Clinton e Lewinsky e l’affaire dei sigari

Ma se c’è uno scandalo che ha segnato gli anni '90, è quello di Bill Clinton e Monica Lewinsky. Il presidente democratico, noto per il suo carisma e le sue doti oratorie, si trovò travolto da uno scandalo sessuale che fece tremare la Casa Bianca. “Non ho avuto rapporti sessuali con quella donna,” dichiarò davanti a una nazione intera, solo per essere smentito poco dopo. Un sigaro, un vestito macchiato e un’impeachment sfiorato: questa è la sintesi di uno dei casi più imbarazzanti della politica moderna. E se Clinton alla fine salvò la presidenza, il suo matrimonio non ne uscì altrettanto illeso.

 

Silvio Berlusconi e il bunga bunga nazionale

Ah, e non possiamo certo dimenticare il nostro Silvio nazionale. Berlusconi, l’uomo che ha reso lo scandalo quasi una prassi di governo, è passato alla storia non solo per le sue leggi ad personam, ma soprattutto per le famigerate feste “bunga bunga”. Tra soubrette, starlette e minorenni, Berlusconi ha trasformato Villa San Martino in una sorta di corte rinascimentale, con tanto di harem. “Meglio guardare le belle ragazze che essere gay,” disse una volta, con quell’ironia tutta sua che, se non altro, strappava un sorriso persino ai suoi detrattori. Alla fine, il Cavaliere ha pagato caro il prezzo del suo stile di vita, ma lo scandalo? Quello non lo ha mai scalfito davvero.

 

Macron e Brigitte,  l’amore fuori dalle convenzioni

Non tutti gli scandali, però, riguardano tradimenti o relazioni torbide. Prendiamo il caso di Emmanuel Macron, il giovane presidente francese, e la sua relazione con Brigitte, sua ex insegnante e di 25 anni più grande di lui. La Francia, inizialmente scioccata dalla differenza d’età, ha imparato ad accettare l’idea che un uomo possa innamorarsi di una donna matura senza che questo debba essere considerato uno scandalo. Macron ha sfidato le convenzioni sociali e, in un certo senso, ha dimostrato che anche in politica c’è spazio per amori autentici e fuori dagli schemi. Ma lo scandalo? Quello è rimasto solo nei pettegolezzi di corridoio.

 

Il potere e il fascino del proibito

In fondo, come diceva Montanelli, “Il potere è afrodisiaco”. I politici, così come i grandi conquistatori del passato, non riescono a resistere al fascino delle donne. È una combinazione letale: da una parte la tentazione del proibito, dall’altra l’ebbrezza del potere. Ogni volta che un politico cede alle sue debolezze, la stampa e l’opinione pubblica si scatenano, ma sotto sotto lo sappiamo: non ci stupiamo davvero. Perché, alla fine, l’eterno scandalo tra politici e donne non è altro che una dimostrazione del fatto che, per quanto potenti possano essere, restano sempre e comunque umani, con tutte le loro debolezze e fragilità. Perché alla fine, come dice il proverbio, tira sempre più un capello di donna… 


lunedì 9 settembre 2024

"Elogio del raccomandato. L'Italiano modello" di Davide Romano, giornalista




C'è una figura, sovente ignorata ma onnipresente, che incarna meglio di qualunque altra l’essenza dell’italiano medio. Un personaggio che non conosce crisi, che si muove con destrezza nel mare torbido della burocrazia, sfuggendo alle secche del merito come un abile navigante. È il raccomandato, l’italiano modello. Colui che è sempre al posto giusto, anche quando non lo merita. Anzi, soprattutto quando non lo merita.

Si potrebbe dire che il raccomandato sia l’incarnazione perfetta di una certa filosofia tutta nostrana, che Aristotele avrebbe chiamato “ars opportunitatis”, l’arte dell’opportunismo. Un'arte che, a dispetto di ogni crisi economica o morale, sembra prosperare senza soluzione di continuità. “La felicità è l’essenza stessa dell’opportunità colta al volo”, avrebbe potuto dire qualcuno come Diogene, se fosse vissuto in un'Italia moderna, tra concorsi pubblici truccati e posti in prima fila per gli amici degli amici.

E non illudiamoci: la storia del raccomandato non è recente. Già nell’Italia medievale, con le sue fazioni e i suoi feudi, il raccomandato trovava il proprio posto grazie al signore di turno, colui che “poteva”. Da allora, la raccomandazione ha solo cambiato abito, indossando ora la veste della “segnalazione” – termine elegante e neutro, quasi tecnico. Ma la sostanza rimane: “Non conta cosa sai, conta chi conosci”.

Nel giornalismo italiano, la figura del raccomandato è altrettanto evidente. Basti pensare a certi conduttori e opinionisti televisivi, arrivati in prima serata non tanto per le proprie capacità, quanto per i legami con potenti cordate politiche o economiche. Prendiamo, ad esempio, figure che, magicamente, passano dalle retrovie delle redazioni alle poltrone di direttori, grazie a una telefonata giusta al momento giusto. Senza fare nomi, ma con un pizzico di malizia, ci si potrebbe interrogare su quanti abbiano scalato i vertici di Rai, Mediaset o i principali quotidiani senza mai scrivere un articolo di rilievo o senza aver mai dimostrato vera competenza sul campo.

In fondo, come diceva Ennio Flaiano, “in Italia i raccomandati non hanno bisogno di essere intelligenti, devono solo essere amici di chi conta”. E questa regola vale tanto nelle redazioni quanto nelle università, nelle grandi aziende, persino nelle istituzioni culturali. Non si spiegherebbe altrimenti la longevità di certi giornalisti, che, pur essendo privi di idee nuove, rimangono saldamente ancorati alle proprie poltrone.

Giuseppe Prezzolini, nel suo acuto “Codice della vita italiana”, scriveva: “In Italia il merito non ha merito”. E come dargli torto? Il merito è un’utopia per romantici e illusi. Il raccomandato, invece, è un realista. Lui sa come funziona il mondo, sa che il talento, l’intelligenza e la preparazione sono ornamenti superflui in un sistema che premia la fedeltà a un patrono, piuttosto che l’intraprendenza individuale.

Il peccato della raccomandazione è uno di quelli che nessuno confessa, ma che tutti conoscono. “Nessuno vuole ammettere di essere un raccomandato, ma tutti lo sono stati almeno una volta”, osservava con cinismo Umberto Eco. La raccomandazione è come il peccato originale: invisibile, ma sempre presente, pronta a emergere nei momenti cruciali della vita professionale. Il giornalismo non è esente da questo peccato, e forse è proprio qui che il meccanismo appare più evidente. La segnalazione di un amico influente, una raccomandazione sussurrata in un orecchio durante una cena mondana, e il gioco è fatto. Si apre una porta che per altri rimarrà chiusa a doppia mandata.

San Tommaso d'Aquino, parlando dei peccati, affermava che “ci sono colpe che vengono esposte, altre che rimangono nell’ombra e divorano l’anima”. E la raccomandazione appartiene alla seconda categoria. Non si vede, non si discute, ma lentamente corrode l’essenza stessa della meritocrazia. Perché il problema non è solo che il raccomandato occupi una posizione che non gli spetta, ma che lo faccia a discapito di chi quella posizione avrebbe potuto davvero meritarsela.

Tommaso d’Aquino, forse il più grande dei teologi, ci insegna che “la Grazia eleva la natura”. Ma per il raccomandato italiano, è la raccomandazione a elevare l’individuo. La Grazia divina ha ceduto il posto alla grazia del potente, e ogni ufficio pubblico diventa una sorta di cattedrale dove il beneplacito di un assessore vale più di ogni laurea o esperienza sul campo.

Per Indro Montanelli, il raccomandato era “l’italiano che non cambia mai, l’uomo che sa aspettare che il vento giri a suo favore senza muovere un dito.” Un uomo, insomma, che incarna quella “furbizia” che abbiamo imparato a considerare una dote, piuttosto che un vizio. E come ogni furbizia, porta con sé la sua giustificazione morale: perché faticare, quando c’è un percorso più semplice? Perché cercare l’approvazione del mondo, quando basta un cenno del capocordata?

Papa Francesco ha parlato più volte del “peccato della raccomandazione”, definendola “una forma di corruzione che svilisce la dignità del lavoro e avvelena il tessuto sociale”. In uno dei suoi discorsi più diretti, ha affermato che “la raccomandazione è una forma subdola di ingiustizia, perché tradisce la fiducia di chi si affida al merito e alla giustizia”. Il pontefice, come altri leader morali, ha cercato di scuotere le coscienze, ma la realtà è che la raccomandazione continua a prosperare, immune alle denunce, perché si muove nell'ombra.

E allora, a che serve continuare a lamentarsi? Forse dobbiamo accettare che il raccomandato sia semplicemente il vincitore in questo gioco crudele chiamato Italia. “Non è l’uomo che deve cambiare il sistema, ma il sistema che cambia l’uomo”, direbbe Simone Weil, ricordandoci quanto sia sottile il confine tra sopravvivenza e servilismo.

In fondo, il raccomandato ci insegna qualcosa di molto semplice: l'Italia non è un paese per i migliori, ma per i più furbi.

“Ecco le Chiese fai da te, una risata le seppellirà” di Davide Romano, giornalista

 


 

C’è chi si scomoda a discorrere sul rapporto tra fede e ragione, tra peccato e redenzione, e poi c’è chi, col fare da garzone della spiritualità, decide di fondare la propria chiesa quando viene gentilmente — o meno — accompagnato alla porta di quella cattolica, ortodossa o protestante che sia. Una scena degna del miglior Totò: il pastore, anzi l'ex-pastore o quasi-pastore, che si reinventa imprenditore della fede. Ma la chiesa la “crea lui”, con tanto di dottrina personalizzata, non sia mai che l’umiltà del vangelo possa fare troppa ombra.

L’ironia di Montanelli ci verrebbe a pennello: "Qui, signori, non si tratta di religione. Si tratta di bottega". E che bottega. Questi venditori di salvezza fai-da-te, espulsi dalle comunità ecclesiastiche ufficiali per motivi non propriamente "angelici", si riorganizzano come un rigattiere che, dopo esser stato chiuso dalla polizia per merce contraffatta, riapre sotto falso nome. Ora la domanda è: il mercato c’è? Ahimè sì, e non è piccolo.

 

In principio fu la menzogna

Il problema, caro lettore, è che costoro sanno vendersi bene (alcuni un po’ meno, a giudicare dai numeri). Come diceva il teologo Dietrich Bonhoeffer, “Il peccato più grande è sempre stato il tradimento della verità”. Eppure, in questo nuovo credo fai-da-te, di verità ce n’è ben poca. Certo, il vangelo resta citato qua e là, giusto per non far scadere la sceneggiata in farsa del tutto. Ma è proprio l’uso selettivo e strumentale delle Scritture che rende questo fenomeno una mascherata tragica.

Non c’è nessun Sant’Agostino che si battezza e redime, né Tommaso d'Aquino che si interroga sull’essenza della fede. No, qui ci sono solo abili venditori di illusioni. Il filosofo Søren Kierkegaard li avrebbe chiamati “cavalieri della disperazione”, uomini senza la profondità della fede, ma che sanno far leva sulla paura e sul bisogno di certezze facili. E così nascono i “vescovi” e addirittura i “primati” autoproclamati. Figure grottesche che, senza nessun mandato apostolico, si decorano con titoli altisonanti e croci pettorali, pastorali e zucchetti, come se fosse una maschera di carnevale. E chi osa sfidarli? Gli apostoli di questi circhi religiosi, armati di microfoni e pulpiti improvvisati, o più comodamente della platea beona di Internet e dei social, gridano alla persecuzione appena qualcuno li contraddice. La verità non è solo ignorata, è travisata, calpestata.

 

La religione del low-cost 

E così si fondano chiese, con titoli pomposi: “Chiesa Universale della Redenzione dell’Anima”, “Chiesa Evangelica Unita” o “Ministero della Luce Divina”. Roba che al confronto la “Chiesa del Sacro Cuore” sembra l’ufficio postale di quartiere. Ma come funziona il meccanismo? Semplice. Prima si fa credere di avere ricevuto una rivelazione personale, o una conoscenza assoluta e senza macchia della Verità, della Bibbia, poi si costruisce una dottrina che serve a giustificare il potere del leader (che di solito si autoproclama vescovo o addirittura primate) e infine si radunano i fedeli, pescando tra i più ingenui o disperati. Insomma, un’accolita di allocchi.

E qui emerge il lato economico della faccenda. Questi pastori in esilio non lavorano gratis, ovviamente. In genere, poi a bene vedere, non hanno neppure un vero mestiere secolare. Anzi, la loro chiesa è sempre alla ricerca di donazioni, decime, oblazioni e via discorrendo. E mentre predicano la povertà cristiana, l’assoluta fedeltà al purissimo Evangelo, vivono una vita che, se non è di lusso, vorrebbe diventarlo. Ricordiamo l’acuto G. K. Chesterton, che diceva: “La Bibbia insegna che dobbiamo amare sia Dio sia il nostro prossimo, ma oggi sembra che molti leader religiosi abbiano solo imparato ad amare se stessi".

 

La chiesa che si crede Dio 

Non basta la scomunica, il richiamo all’ordine o la confutazione teologica. Perché questi “vescovi” autoproclamati non temono nemmeno il ridicolo. Anzi, ne fanno un’arma di propaganda. Come diceva il teologo Hans Urs von Balthasar, “Ogni eresia nasce da una verità mal compresa o male applicata”. Qui la verità è non solo fraintesa, ma anche distorta per giustificare l’esistenza di questi teatrini religiosi.

Così, il "primate" di turno si autoproclama salvatore di anime, con tanto di croce pettorale e zucchetto viola, senza dimentica il pastorale e tutto il corredo, mentre la teologia diventa una scusa per legittimare la propria autorità e, infatti, guai a contraddirlo o a mettere in discussione la sua autorità perché allora la sua “sacra ira” si scatena contro il malcapitato che diviene oggetto di vere e proprie contumelie e falsità diffamatorie. Oltre naturalmente a venire espulso, sovente per indegnità (non è più degno, infatti, di stare al cospetto dell’augusto primate).

E il risultato? Una chiesa che non è più chiesa, un pastore che non è più pastore, ma un attore che recita una parte scritta da lui stesso, per un pubblico troppo disperato o ingenuo per accorgersene. Ma che importa, finché il biglietto d’ingresso lo pagano… anche solo quello di nutrire il suo ipertrofico ego. E noi? Seppelliamoli pure con una risata. Che affoghino nel ridicolo!

sabato 7 settembre 2024

“Popolo d'Israele, la tua storia ti chiama alla pace. Un appello” di Davide Romano



Popolo d'Israele, figlio di una storia plurimillenaria di sofferenza, esilio e speranza, oggi ti trovi in un crocevia che mette alla prova la tua anima e il tuo futuro. La guerra con i palestinesi, il sangue che scorre nelle strade di Gaza e della Cisgiordania, non può essere la tua eredità. Il Talmud dice: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Quante vite si stanno spegnendo ora, mentre le cicatrici della tua stessa storia ci ricordano il dolore dell'ingiustizia e dell'oppressione?

 

In questi giorni bui, risuonano le parole di Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah, che ci ammoniva: “Il contrario dell'amore non è l'odio, è l'indifferenza”. Noi non possiamo essere indifferenti alla sofferenza, alle lacrime delle madri, alle grida dei figli. Non possiamo distogliere lo sguardo pensando che la guerra e la violenza possano in qualche modo essere una soluzione, quando in realtà non fanno altro che perpetuare cicli di vendetta e disperazione.

 

Popolo d'Israele, sei nato dal fuoco della persecuzione, dall’orrore di un genocidio. Gli ebrei della diaspora hanno cercato per secoli un rifugio, un luogo di pace. Ma come può la pace germogliare dal sangue versato su una terra condivisa? Martin Buber, uno dei tuoi più grandi filosofi, ci ha insegnato che il rapporto con l’altro deve essere di dialogo, non di scontro: “Il vero dialogo implica il riconoscimento reciproco, e questo è l'inizio della pace”.

 

Oggi, il mondo ti osserva. Non con l’odio, ma con una speranza che riposa sulle tue spalle. Ricorda le parole di Abraham Joshua Heschel, il rabbino che marciò con Martin Luther King: “Poiché la libertà è il dono più grande che Dio ha dato all'umanità, non possiamo mai giustificare l'oppressione o la sofferenza imposta agli altri”. Popolo d'Israele, sei stato schiavo in Egitto, hai conosciuto la sofferenza dell’esilio e dell’oppressione. Non permettere che il tuo dolore diventi la ragione per infliggerne altro.

 

Non possiamo ignorare la paura e il dolore che hai vissuto, le sirene che risuonano, la minaccia costante di razzi e attentati. Ma è proprio da questo dolore condiviso, da questa comune umanità ferita, che può sorgere un nuovo patto di convivenza. Shimon Peres, uno dei padri fondatori di Israele, disse: “Non ci sono vincitori in una guerra. O perdiamo tutti o vinciamo insieme”. Il vero trionfo non sarà militare, ma la capacità di costruire un futuro di coesistenza.

 

La Bibbia, cuore pulsante della tua storia, grida per la giustizia. Isaia, il profeta della pace, proclamava: “Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci; nessuna nazione alzerà la spada contro un'altra nazione, e non impareranno più la guerra”. Questo è il tuo destino, non la guerra, non la distruzione, ma la costruzione di un futuro di pace.

 

Il dialogo deve nascere tra la gente comune, tra te e i palestinesi che vivono fianco a fianco, nonostante tutto. Amos Oz, scrittore e voce della tua coscienza, affermava: “La pace non è il matrimonio di due amanti; è piuttosto un compromesso tra due nemici”. Questo è il coraggio richiesto: non di impugnare le armi, ma di abbassarle, guardando negli occhi chi ti sembra nemico e cercando un terreno comune.

 

Popolo d'Israele, sei una nazione costruita sulla speranza, sulla promessa di un futuro diverso. Non lasciare che questa promessa venga spezzata dalla violenza. Ricorda le parole del tuo stesso Talmud: “Non devi completare il lavoro, ma non sei libero di abbandonarlo”. La pace è un cammino lungo, difficile, ma necessario. Se non ora, quando?

 

La tua storia ti chiama a essere un modello per l'umanità, a dimostrare che anche nelle terre più contese, nelle situazioni più disperate, la pace è possibile. Io ti supplico: non dimenticare chi sei, non dimenticare da dove vieni. E soprattutto, non dimenticare dove sei diretto.


venerdì 6 settembre 2024

“Era la stampa, bellezza! Il giornalismo di un tempo fra nostalgia e rimpianti” di Davide Romano, giornalista

 



C’è una nostalgia che mi perseguita, come una vecchia canzone che non riesco a togliere dalla testa. È la nostalgia per il giornalismo di una volta, quello che oggi sembra diventato un’arte perduta, come la lavorazione del legno a mano o la calligrafia. Parlo di un giornalismo fatto di fatica, di nottate passate alla macchina da scrivere, di articoli battuti con dita consumate e di sigari toscani ridotti in cenere accanto alla Olivetti Lettera 32. Un giornalismo in cui, come diceva Enzo Biagi, "le parole erano pietre," e dietro ogni articolo c’era una vita spesa a cercare la verità, o perlomeno una sua versione accettabile.

Non mi fraintendete, non voglio fare il vecchio nostalgico che rimpiange i bei tempi andati solo perché erano i suoi. Ma c’è una differenza sostanziale tra il giornalismo di oggi e quello di ieri, e non è solo una questione di tecnologia. È una questione di spirito, di approccio al mestiere, di rispetto per le parole e per chi quelle parole le avrebbe lette.

Ricordo i tempi in cui un giornalista si guadagnava il pane con le scarpe consumate, non con i tweet. Bisognava andare, vedere, ascoltare, prendere appunti su un taccuino stropicciato, e poi passare ore a scegliere le parole giuste, quelle che avrebbero reso giustizia ai fatti e alle persone coinvolte. Non c’erano scorciatoie. Se volevi raccontare una storia, dovevi conoscerla fino in fondo, dovevi viverla quasi sulla tua pelle. Come scriveva Oriana Fallaci, "il giornalismo è una missione. È un mestiere che ti fa bruciare, che ti fa soffrire, ma che non ti lascia mai".

E poi c’era la responsabilità. Già, perché un giornalista sapeva che le sue parole avevano un peso. Potevano fare male, scatenare reazioni, cambiare le sorti di una carriera, di una vita, persino di un Paese. Come ammoniva Luigi Barzini: "La penna è più forte della spada, ma richiede un polso fermo e una mente chiara". Ogni parola veniva soppesata come si fa con l’oro, mentre oggi le parole volano leggere, spesso senza alcun riguardo per la verità o per le conseguenze che potrebbero avere.

Non c’è più quella cura maniacale per la verifica dei fatti, per il controllo delle fonti. Nel giornalismo di una volta, la notizia non era solo una merce da vendere al miglior offerente. Era un impegno morale, un patto con i lettori. Come diceva Indro Montanelli, "il giornalismo è fare domande. È cercare la verità, e dirla, anche quando fa male". E se si sbagliava, si pagava caro l’errore, perché la credibilità era tutto. Oggi, al contrario, l’errore sembra essere diventato la norma, e se si scopre di aver sbagliato, poco importa: domani ci sarà un’altra notizia a coprire tutto.

Ecco, questo è ciò che mi manca del giornalismo di una volta: il rispetto per la verità, per i fatti, per le persone. C’era una sorta di nobiltà in quel lavoro, un senso di missione che andava al di là del semplice mestiere. Oggi, invece, vedo troppi giornalisti che sembrano più preoccupati di ottenere clic che di raccontare il mondo per quello che è. Si corre dietro all’ultima moda, all’ultimo trend, inseguendo le storie più facili, quelle che fanno rumore senza fare domande scomode. Ma il vero giornalismo non è fatto di rumore, è fatto di silenzio, di riflessione, di domande e di dubbi.

E poi c’era quella cosa chiamata stile. Oggi, leggendo certi articoli, ho l’impressione che il mestiere del giornalista si sia ridotto a una sterile elencazione di fatti e opinioni, senza quel tocco personale che faceva la differenza. Un tempo, ogni giornalista aveva la sua voce, il suo modo di raccontare le cose. Come diceva Eugenio Scalfari, "lo stile è l’uomo" e in quelle righe c’era un’anima. Oggi, invece, troppo spesso le notizie sembrano uscite da un algoritmo, tutte uguali, tutte piatte, tutte senza vita.

Non voglio dire che tutto il giornalismo di oggi sia da buttare. Ci sono ancora, per fortuna, giornalisti che sanno fare il loro mestiere, che sanno raccontare le storie come si deve. Ma sono sempre più rari, sempre più isolati in un mare di superficialità e approssimazione.

E allora, forse, è giusto ricordare quei tempi andati non per mera nostalgia, ma per ritrovare quello spirito, quella passione, quella dedizione che facevano del giornalismo un mestiere nobile. Perché, come diceva Montanelli, "il giornalismo è il diario della storia" e di quel giornalismo, oggi più che mai, abbiamo bisogno come dell’aria.

 

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...