lunedì 30 settembre 2024

Antisemitismo, Davide Romano (La Compagnia del Vangelo): Piena solidarietà a Liliana Segre e alla comunità ebraica


 

“Desidero esprimere la mia piena e affettuosa solidarietà alla senatrice Liliana Segre, alla comunità ebraica e a tutte le persone vittime di attacchi basati sull'odio e sull'intolleranza. Le immagini dei cartelli con scritte come ‘Agente sionista’, esposti a Milano durante una manifestazione pro Palestina, rappresentano un doloroso ritorno a un linguaggio di odio che credevamo relegato alle pagine più oscure della nostra storia”. Lo scrive in una nota il giornalista Davide Romano, fondatore della Compagnia del Vangelo e da tempo impegnato nel dialogo ecumenico e interreligioso.

 

“Liliana Segre – aggiunge Romano -, sopravvissuta ad Auschwitz, è una testimonianza vivente di ciò che può accadere quando l'antisemitismo e l'odio si fanno spazio nelle coscienze collettive. Attaccarla, associandola a una campagna di diffamazione e odio, è un atto di inaudita violenza morale. Siamo di fronte a una pericolosa escalation di retorica antisemita, che colpisce non solo una delle figure più rappresentative della memoria della Shoah, ma anche la stessa comunità ebraica, che continua a subire minacce e intimidazioni in un clima di crescente tensione”.

 

E aggiunge: “Come cristiani, come credenti, e soprattutto come esseri umani, non possiamo restare in silenzio di fronte a queste derive. Dobbiamo ricordare l’insegnamento del Vangelo, che ci invita ad amare il prossimo come noi stessi, a cercare la pace e la giustizia con ogni mezzo, e a opporci fermamente a ogni forma di odio, discriminazione e violenza. Accanto a Liliana Segre e alla comunità ebraica, dichiariamo il nostro impegno a promuovere il dialogo, la comprensione reciproca e la coesistenza pacifica. Non possiamo permettere che l'odio diventi voce dominante nelle nostre città e nelle nostre piazze. La memoria della Shoah non è solo un monito per gli ebrei, ma per tutta l'umanità. Le ferite dell'antisemitismo non appartengono al passato: sono presenti e richiedono la nostra vigilanza, il nostro coraggio e la nostra determinazione”.

 

“Concludo con un invito a tutti - scrive infine -: che la nostra voce sia sempre quella della ragione, del rispetto e dell'amore verso il prossimo. Liliana Segre è una testimonianza vivente di ciò che significa resistere al male. Oggi più che mai, abbiamo il dovere di stare accanto a lei e a chiunque sia vittima di odio, per costruire insieme un futuro di pace e di giustizia”.

giovedì 26 settembre 2024

Ecumenismo, Il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I al giornalista Davide Romano: “Diventa un ponte fra cattolici e ortodossi”


 

In un contesto di crescente divisione religiosa, il dialogo ecumenico emerge come un'importante necessità. Davide Romano, giornalista e attivista del dialogo interreligioso, è da tempo impegnato in questa causa e ha fondato la comunità ecumenica informale La Compagnia del Vangelo. La sua missione: costruire ponti tra cattolici e ortodossi, per promuovere una comprensione reciproca e profonda.

Recentemente, Romano ha ricevuto una lettera significativa dal Metropolita Polykarpos, Arcivescovo Ortodosso d'Italia, che porta la benedizione di Sua Santità Bartolomeo I. Nella missiva, il Metropolita scrive: “Coltiva come cattolico romano questo amore speciale per l'Ortodossia, diventando ponte tra le due tradizioni”. Un invito che, lungi dall'essere un semplice saluto, rappresenta un riconoscimento dell'impegno di Romano nel dialogo ecumenico.

Il compito di essere un "ponte" non è da prendere alla leggera. Significa “ascoltare, comprendere e rispettare le peculiarità di entrambe le tradizioni”, come sottolinea il Metropolita. Questo richiede non solo coraggio, ma anche una profonda sensibilità verso l'altro. Romano ha già dimostrato di possedere queste qualità attraverso il suo lavoro nella Compagnia del Vangelo, dove promuove incontri e dibattiti tra diverse fedi.

Il Metropolita ha suggerito a Romano di dedicarsi alla "Preghiera del Cuore", una pratica che incoraggia la meditazione e un'intimità con Dio. "Solo chi alza lo sguardo verso l'alto potrà connettere i due mondi", afferma il Metropolita, evidenziando l'importanza della spiritualità nel dialogo ecumenico.

Romano non si limita a una ricerca personale: il suo esempio dimostra come le differenze possano diventare opportunità di dialogo. In un'epoca in cui molti si rinchiudono nelle proprie convinzioni, lui si presenta come un "eroe silenzioso", pronto a tessere relazioni e partecipare a incontri significativi con i rappresentanti della tradizione ortodossa.

Con determinazione e il sostegno delle autorità religiose, Romano porta avanti un messaggio potente: "L'amore per Dio può superare qualsiasi confine". In un mondo spesso dominato da conflitti, il suo impegno si configura come un faro di speranza per una futura unione tra cattolici e ortodossi. La sua missione di costruzione di ponti non è solo un ideale, ma una realtà concreta che invita tutti a riflettere sull'importanza del dialogo e della comprensione reciproca.

(M.V.)

“Guai a voi, ricchi”. Povertà globale e italiana: Sud e Sicilia nel baratro mentre i super ricchi governano il mondo

 


Di Davide Romano

 

Il XXI secolo dovrebbe essere l’epoca della tecnologia, del progresso e della democrazia. Eppure, mentre le menti più brillanti si scervellano per colonizzare Marte, la Terra è ancora prigioniera di una realtà che sa di Medioevo: la povertà. È come se fossimo tutti sull'orlo di un abisso, ma ci fosse un gruppo ristretto che, seduto su una montagna di denaro, ci spinge verso il fondo, senza nemmeno battere ciglio. Il divario tra ricchi e poveri non è solo una questione morale, ma una vergogna universale. In Italia, il Sud e la Sicilia, e in particolare Palermo, sono il teatro tragico di questa disuguaglianza, mentre i super ricchi si arricchiscono a ritmi vergognosi.

 

Povertà globale: un mondo in equilibrio precario

Partiamo dal quadro globale, perché, come si dice, "il pesce puzza dalla testa". La Banca Mondiale ci dice che 719 milioni di persone nel mondo vivono in condizioni di estrema povertà, sopravvivendo con meno di 2,15 dollari al giorno. Ma ecco la parte più grottesca: mentre questi milioni di persone lottano per un pasto al giorno, l'1% più ricco del mondo ha accumulato il 63% della nuova ricchezza creata tra il 2020 e il 2023, come documentato dall'ultimo rapporto Oxfam. Questo non è solo scandaloso, è criminale. Mentre noi osserviamo impotenti, Elon Musk e Jeff Bezos giocano con i loro miliardi come se fossero gettoni del casinò.

 

Il Sud Italia: dove la povertà è di casa

In Italia, la povertà non è solo una questione di numeri globali. La situazione si fa molto più sporca e dolorosa quando ci si sposta a sud di Roma. Secondo l’Istat, più di 5,6 milioni di italiani vivono in condizioni di povertà assoluta, e indovinate dove? Nel nostro caro Sud, che continua a essere trattato come la discarica del Paese. Le ultime stime del 2023 ci dicono che il tasso di povertà assoluta in Sicilia è al 26%, il più alto di tutta la nazione, con Palermo che guida tristemente la classifica. Quasi una famiglia su tre è sotto la soglia di povertà. Altro che "Trinacria felix", come la chiamavano i Romani: la Sicilia di oggi è la fotografia perfetta del fallimento di politiche sociali miopi e di un'Italia che ha deciso di voltarsi dall'altra parte.

 

Palermo: capitale della povertà

Palermo, la città che un tempo era culla di civiltà e cultura, è oggi il simbolo della miseria italiana. Qui il tasso di disoccupazione supera il 20%, e quello giovanile arriva a sfiorare il 50%. Se a Milano il lavoro precario è un problema, a Palermo è l’unica forma di sopravvivenza. Ogni giorno, migliaia di famiglie palermitane devono scegliere se mettere qualcosa nel piatto o pagare la bolletta della luce. La povertà educativa è altrettanto devastante: il tasso di dispersione scolastica nella città supera il 20%, rendendo la prospettiva di un futuro dignitoso una chimera per moltissimi giovani. Come diceva Sciascia, "La mafia è un fenomeno umano", e in questo contesto, le organizzazioni criminali trovano terreno fertile, offrendo quel "lavoro" che lo Stato non riesce a garantire.

 

I super ricchi: una casta di untouchables

E mentre Palermo, la Sicilia e il Sud si sbriciolano sotto il peso della miseria, i super ricchi del pianeta continuano a giocare a Monopoli con il nostro futuro. Il "Billionaires Report" del 2023 ci svela che il patrimonio dei miliardari del mondo ha raggiunto la cifra mostruosa di 13,1 trilioni di dollari, con Elon Musk e Bernard Arnault che da soli potrebbero risolvere la povertà globale con una frazione del loro patrimonio. È come vedere l'imperatore Nerone suonare la cetra mentre Roma brucia.

In Italia, la situazione non è molto diversa. Il 10% più ricco detiene il 43% della ricchezza nazionale, mentre il 50% più povero si divide le briciole, appena il 10%. Tra questi, i super ricchi italiani — dai Ferrero agli Agnelli, dai Berlusconi ai Benetton — vivono in una realtà parallela. Per loro, la crisi energetica è solo una parola nei giornali; per il resto del paese, è una catastrofe quotidiana.

 

Citazioni di una verità amara

La disuguaglianza non è una novità, ma è un fallimento che continuiamo a perpetuare. "Il denaro è come il letame: non serve a nulla se non è sparso," diceva Francis Bacon, eppure oggi sembra che l'1% più ricco del mondo preferisca ammucchiare il letame nelle loro mani piuttosto che condividerlo.

Il grande giornalista Indro Montanelli non avrebbe risparmiato critiche a questo sistema: "L'Italia è un paese di straccioni governato da ladri," diceva. E la Sicilia di oggi è lo specchio di queste parole, un’isola di disuguaglianza dove i poveri sono abbandonati e i ricchi intoccabili. La Bibbia stessa ci avverte: "Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione" (Luca 6:24).

 

Conclusione: cambiare o soccombere

È evidente che qualcosa è andato terribilmente storto. Non possiamo continuare a vivere in un mondo dove Palermo diventa sinonimo di povertà e disperazione, mentre i super ricchi accumulano patrimoni inimmaginabili. Come diceva Albert Einstein: "La follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi". Se continuiamo su questa strada, non ci sarà più futuro, né per i poveri né per i ricchi. E allora la domanda finale è: continueremo a guardare questo spettacolo grottesco in silenzio, o troveremo il coraggio di cambiare rotta?

“Internet? Una promessa tradita dai leoni da tastiera” di Davide Romano

 


In principio fu l’invenzione più rivoluzionaria dai tempi della stampa a caratteri mobili. Doveva essere il faro della conoscenza, la piazza dell’incontro, lo strumento che avrebbe abbattuto le distanze, azzerato le ingiustizie dell’informazione. Oggi, a distanza di qualche decennio, Internet è anche altro: un’arena di livori repressi, dove le frustrazioni trovano sfogo nel silenzio protetto da un nickname.

 

“La libertà è la possibilità di dubitare, di sbagliare, di cercare e di sperimentare, di dire di no a ogni autorità letteraria, artistica, filosofica, religiosa, sociale e anche politica” scriveva Ignazio Silone. E cosa c’è di più “libero” dell’oceano virtuale dove ciascuno si arroga il diritto di esprimere, senza alcun filtro, la propria opinione? Peccato che, come notava già Thomas Hobbes, “l’uomo è lupo per l’uomo”. Sul web, quest’istinto primordiale non si ferma. Si scatena con una ferocia che, dietro la protezione dell’anonimato, si rende ancora più pericolosa.

 

Lontani i tempi in cui si pensava che il libero accesso alla rete avrebbe elevato il livello culturale delle masse. “Sapere aude!”, incitava Kant, spronando gli uomini a liberarsi dalla pigrizia intellettuale. Ebbene, il web ha paradossalmente realizzato l’esatto contrario: non ci siamo emancipati, ma imprigionati in uno zoo di aggressioni verbali, disinformazione e insulti. Le bacheche dei social network, le sezioni dei commenti, le chatroom sono diventate valvole di sfogo per pulsioni che altrimenti resterebbero compresse nelle pieghe dell’esistenza quotidiana.

 

Giovanni Sartori, in un’epoca non sospetta, coniò il termine “homo videns” per indicare l’uomo che vive attraverso le immagini, perdendo il contatto con la realtà tangibile. Ma oggi potremmo parlare di “homo digitalis”, un essere che, schermato dietro uno schermo, si trasforma. Non più un volto, non più un’identità vera, ma solo una maschera. “Se vuoi conoscere la vera natura di un uomo, dagli una maschera”, diceva Oscar Wilde. Ed eccolo, l’homo digitalis: senza volto, svela il peggio di sé.

 

Se guardiamo ai forum, ai social, troviamo un campionario di rabbia e disperazione, un esorcismo virtuale contro l’insicurezza, l’invisibilità, il fallimento personale. Chi mai urlerebbe insulti al vicino di casa? Eppure sul web, nascosti dietro nomi fittizi, diventiamo tutti coraggiosi. Sartre aveva ragione quando diceva che “l’inferno sono gli altri”, ma mai avrebbe potuto immaginare che questi “altri” potessero essere milioni, connessi tra loro, in uno scambio continuo di ferocia anonima.

 

Il sociologo Zygmunt Bauman parlava della “società liquida”, dove i legami sono sempre più fragili, le relazioni sempre più virtuali. Internet ne è l’emblema: una relazione senza contatto fisico, senza empatia. Schiavi della nostra immagine digitale, ci trasformiamo in giudici e carnefici, pronti a scaricare il nostro disagio sugli altri. “Internet è diventato il nuovo circo romano”, diceva Umberto Eco. Non ci sono leoni, ma ci sono i leoni da tastiera.

 

E non pensiamo che questa aggressività sia limitata agli ignoranti, a chi non ha strumenti culturali per riflettere. Anche gli “intellettuali” si trasformano in bestie feroci, pronti a sbranare chiunque dissenta dalle loro posizioni. Perché, come ammoniva Friedrich Nietzsche, “chi lotta con i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro”. E nel web, tutti possiamo cadere in questa trappola.

 

La soluzione? Forse, come diceva Platone, dovremmo tutti imparare a conoscerci meglio prima di parlare. O meglio, prima di scrivere. Ma in un’epoca in cui la riflessione è scambiata per debolezza e l’aggressività per forza, forse ci siamo già persi.

 

In fondo, come diceva ancora Wilde, “le bugie più crudeli sono spesso dette nel silenzio”. Ma su Internet, quel silenzio è rotto da miliardi di tastiere che non smettono mai di ticchettare.

mercoledì 25 settembre 2024

Palermo 1 ottobre, All’istituto Marcellino Corradini incontro su “Madre Teresa di Calcutta, i poveri e noi”



Il 1° ottobre all’interno dell’Istituto Marcellino Corradini di Palermo, si terrà l’incontro dal titolo “Madre Teresa di Calcutta, i poveri e noi”, condotto dal giornalista Davide Romano. Dopo la proiezione del documentario “Madre Teresa, la piccola di Dio”, Romano dialogherà con gli studenti, invitandoli a riflettere sulla straordinaria figura di Madre Teresa e sul tema della povertà, tanto nel mondo quanto nel contesto locale.

«Questo incontro – ha dichiarato Romano – non vuole solo essere un momento di riflessione, ma un’occasione per stimolare nei giovani una consapevolezza più profonda delle disuguaglianze sociali e incoraggiarli a intraprendere percorsi di impegno personale e collettivo».

L’iniziativa, organizzata con le suore Collegine della Sacra Famiglia che gestiscono la scuola, rientra in una serie di appuntamenti mensili dal fine pedagogico ben preciso: educare i ragazzi a riconoscere e affrontare le sfide sociali attuali, proponendo figure come Madre Teresa come modelli di ispirazione, veri e propri “Supereroi” dei nostri tempi.


martedì 24 settembre 2024

“Noi e lo smartphone, il giocattolo preferito dell'umanità perduta” di Davide Romano

 


 

Se qualcuno avesse raccontato a Montaigne che un giorno l’umanità avrebbe sacrificato la propria capacità di riflessione e dialogo per un giocattolo tascabile, avrebbe probabilmente risposto con una risata amara, invitandoci a leggere più Seneca e meno messaggi vocali. Eppure, eccoci qui: lo smartphone è diventato il prolungamento del nostro braccio, e non c'è verso di convincere la gente che, prima dell'invenzione di questo aggeggio, l'umanità abbia non solo vissuto, ma addirittura pensato.

Lo smartphone è il nuovo idolo delle masse. L’oggetto sacro a cui ci si inchina ogni mattina, subito dopo il caffè. Un tempo ci si svegliava, si guardava fuori dalla finestra per capire che giornata ci aspettava, o si apriva un libro, magari uno di quelli con le pagine. Adesso, invece, l’unica finestra che guardiamo è quella delle notifiche. Se i Greci avevano il Kosmos, noi abbiamo l’iOS.


Il simulacro della modernità

Nietzsche aveva predetto la morte di Dio, ma non aveva visto arrivare il regno dello smartphone. Se l'avesse fatto, avrebbe probabilmente aggiornato il suo Zarathustra con una versione più attuale, qualcosa tipo: “Così parlò l’algoritmo.” Perché è questo che ci siamo ridotti a fare: venerare un insieme di codici, che decidono per noi cosa leggere, cosa vedere e perfino cosa pensare. Il sogno dell’uomo libero, di quell’individuo che forgia il proprio destino? Roba da utopia del secolo scorso. Ora il nostro destino ce lo scrive direttamente Mark Zuckerberg.

Il paradosso più grande? Ci crediamo più liberi che mai. Liberi di esprimere opinioni, di condividere ogni attimo della nostra vita. Solo che questa libertà si riduce in realtà a una catena fatta di notifiche, like e swipe. Spinoza ci avrebbe ricordato che "la libertà è la necessità compresa", ma oggi ci accontentiamo di scorrere la bacheca senza capire un bel nulla.


Socrate e il declino della conversazione

Ricordate Socrate? Quello che diceva che il dialogo è l’anima della conoscenza? Se fosse vivo oggi, probabilmente avrebbe un esaurimento nervoso nel vedere come si svolgono le nostre "conversazioni". Lo smartphone ha trasformato la dialettica in una serie di emoji e GIF animate. Un tempo Platone parlava di aletheia, della verità che si svela attraverso il confronto. Oggi ci limitiamo a inviare un pollice in su. E pensiamo pure di essere stati chiari.

Non c’è più discussione, non c’è più approfondimento. Il dialogo socratico è stato sostituito da vocali di tre minuti e risposte monosillabiche. “Ti va un caffè?” diventa “Certo J”, e questo basta per mettere a tacere ogni residuo di intellettualità. Chi ha bisogno di leggere i Dialoghi quando c’è WhatsApp che ci informa sull’ultima litigata tra amiche per un filtro di Instagram? La verità si è nascosta da tempo, e noi ci siamo accontentati del “visualizzato alle 14:05”.


Marx, l’alienazione e i selfie

Se Karl Marx potesse risorgere giusto per dare un’occhiata al nostro mondo, probabilmente aggiornerebbe il suo concetto di alienazione. Non più solo “alienati dal prodotto del nostro lavoro”, ma alienati da noi stessi. Viviamo per creare una versione finta di ciò che siamo, un avatar perfettamente filtrato e luminoso, pronto per essere lanciato nel mondo dei social. Che importa se, nel frattempo, dimentichiamo chi siamo davvero? "L’importante è che faccia effetto," ci direbbe un moderno Baudrillard, che del simulacro aveva già capito tutto.

Questa alienazione ha preso la forma dei selfie, quei monumenti all’ego che costruiamo quotidianamente con l’entusiasmo di un Fidia 2.0. Un tempo si facevano statue per onorare gli eroi, oggi basta uno smartphone per celebrare noi stessi in qualsiasi angolo del mondo: dal bagno di casa nostra alle piramidi d’Egitto, con la stessa disinvoltura. Ci siamo sostituiti alla storia, convinti che basti un’inquadratura giusta per eternarci nel pantheon digitale. Qualcuno dica a Omero di smettere di scrivere: non abbiamo più bisogno dei suoi poemi, tanto c’è Instagram.


Pasolini e la società degli analfabeti digitali

Pasolini, che di queste cose capiva fin troppo, oggi ci guarderebbe con un misto di disgusto e compassione. Parlando della società italiana degli anni ‘60, disse che eravamo “il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”. E pensare che ancora non avevamo gli smartphone. Se ci vedesse adesso, probabilmente aggiungerebbe: “Analfabeti digitali”. Perché è questo che siamo diventati: persone incapaci di staccarsi dal flusso continuo di stimoli inutili, che sostituiscono la profondità con la velocità, la riflessione con la notifica.

Pasolini ci ammoniva sulla decadenza culturale; oggi, quella decadenza l’abbiamo abbracciata, convinti che l’accesso illimitato all’informazione significhi automaticamente sapere qualcosa. Ma la verità è che non sappiamo nulla. Siamo semplicemente sopraffatti dai dati, sommersi dalle fake news e dalle opinioni vuote. E lo smartphone è il nostro grimaldello, la porta d’accesso a questa ignoranza diffusa e autoalimentata.


Conclusione: la solitudine di Enea… con il 5G

L’Italia un tempo era il paese dei poeti, dei santi e dei navigatori. Oggi siamo il paese delle ricariche telefoniche, dei giga consumati e dei selfie alla mostra di Caravaggio. E chissà cosa penserebbe Enea, l’eroe in fuga con il padre sulle spalle, se si trovasse oggi su una metro affollata, circondato da persone che fissano il proprio schermo senza accorgersi nemmeno di chi gli sta accanto. Lui, che portava sulle spalle il futuro di Roma, ora vedrebbe il futuro ridotto a un’app di consegna a domicilio.

Ma non preoccupiamoci troppo. In fondo, stiamo solo seguendo il progresso. Con il 5G, almeno, i nostri selfie saranno caricati in tempo reale. E questo, cari lettori, è l’unico progresso che ci interessa davvero.

 

lunedì 16 settembre 2024

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano



L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese degli scrittori. Perché scrivere, in Italia, sembra piacere molto più che leggere. Non importa che il nostro amato Dante si rigiri nella tomba: siamo un popolo di aspiranti autori, ma di libri letti neanche l'ombra.

Prendiamo per esempio i dati dell'ISTAT: meno del 40% degli italiani ha letto un libro nell'ultimo anno. Tuttavia, se si dovesse chiedere quanti abbiano provato a scriverne uno, probabilmente ci troveremmo di fronte a un’altra statistica sorprendente. Siamo un popolo che ama parlare, e oggi, grazie ai social, anche scrivere. Blog, post su Facebook, storie Instagram, poesie improvvisate su TikTok... gli italiani amano lasciare il segno. Ma leggere? Beh, quello è un altro discorso.

 

Scrivere sì, leggere no: il paradosso italiano

Italo Calvino ci aveva già visto lungo, ironizzando su questa tendenza: "Scrivere è sempre un lavoro da dilettanti, leggere è una professione". In Italia, però, sembra che la professione del lettore non interessi a molti. Al massimo, qualche poesia di circostanza al matrimonio dell’amico, un aforisma su un biglietto d'auguri, oppure la lista della spesa.

Montanelli, dal suo pulpito di polemiche sagaci, era chiaro: “In Italia, chi legge è una minoranza e chi scrive è una moltitudine. Il guaio è che i secondi non leggono neanche i primi.” Ma perché leggere, quando si può benissimo passare il tempo a scrivere l'ennesima autobiografia di una vita che nessuno ha chiesto di conoscere? E così ci ritroviamo con centinaia di nuovi titoli nelle librerie, che nessuno sfoglia, ma che tutti vogliono pubblicare.

 

La "tragedia" della lettura

Se Pavese diceva che "un paese che non legge è un paese senza futuro", potremmo aggiungere che un paese che scrive senza leggere è un paese schizofrenico. Antonio Gramsci, con il suo spirito critico, ci avrebbe probabilmente bacchettati: “Formare una coscienza critica richiede lettura e riflessione, non solo parole.” Eppure, il mondo editoriale italiano è invaso da aspiranti scrittori che si credono il nuovo Proust. Il problema? Non hanno mai letto nemmeno Alla ricerca del tempo perduto. E come potrebbero? Il tempo perduto è tutto impiegato a postare selfie letterari su Instagram.

Norberto Bobbio, filosofo di grande levatura, avrebbe detto che questa carenza di lettori mina la stessa democrazia. Perché la lettura è confronto, apertura mentale. Scrivere senza leggere, invece, è solo un monologo infinito, una gara a chi urla più forte.

 

Librerie deserte, bacheche piene

Nel frattempo, le librerie italiane continuano a chiudere. Più di 700 hanno serrato le porte nell'ultimo anno, e chi resta aperto deve fare i conti con clienti che entrano solo per chiedere dove si trova l'angolo caffè. Umberto Eco, che dei libri aveva fatto una missione di vita, avrebbe probabilmente alzato le mani al cielo: "La televisione è diventata un elettrodomestico, i libri no". Se avesse vissuto l'epoca degli e-book, probabilmente sarebbe stato più pessimista.

E mentre gli italiani continuano a ignorare i libri, il numero di autopubblicazioni cresce. Si aprono gruppi Facebook di aspiranti scrittori, si avviano start-up editoriali per chiunque voglia vedere il proprio nome in copertina. Ma la verità, citando Woody Allen, è che "chi non legge, non ha niente da dire". Eppure, in Italia, tutti sembrano avere qualcosa da scrivere.

 

Una razza in via d'estinzione?

Così, ci ritroviamo a essere il Paese di scrittori che non legge. Un paradosso degno di Luigi Pirandello, che sarebbe perfetto per un suo dramma moderno: personaggi in cerca di un autore, ma senza mai averne letto uno. Forse è questo il destino della nostra cultura: estinguere i lettori e moltiplicare gli scrittori, in una spirale infinita di parole senza peso.

Medio Oriente, Romano (Compagnia del Vangelo) lancia la sottoscrizione di un appello a Israele: “Fermatevi, la vostra storia vi chiama alla pace”.

 




Davide Romano, giornalista di lungo corso e fondatore della Compagnia del Vangelo, un gruppo ecumenico informale che ha come scopo il dialogo e il servizio ai più poveri, lancia un appello deciso e diretto al popolo d'Israele: “Fermatevi, la vostra storia non può essere quella di una guerra eterna con i palestinesi.” Romano, impegnato da anni nel dialogo interreligioso ed ecumenico, non si perde in retorica, ma va dritto al punto: Israele deve fermarsi e riflettere, perché la pace non è un’opzione tra tante, è l’unica via per uscire dal baratro.

Romano richiama con forza le radici storiche e culturali del popolo israeliano. “Il Talmud ci insegna: ‘Chi salva una vita, salva il mondo intero.’ E quante vite si stanno perdendo oggi?”. Con queste parole, il giornalista sottolinea il peso morale che grava sulle spalle di Israele. Per un popolo che ha conosciuto il dolore dell’esilio e l’orrore della Shoah, Romano sottolinea che non si può permettere che quelle stesse ferite giustifichino nuove ingiustizie. “La violenza porta solo altra violenza”, scrive Romano, senza lasciare spazio a interpretazioni.

 

Una storia che non può essere ignorata

Nell’appello, pubblicato sul blog della Compagnia del Vangelo (https://lacompagniadelvangelo.blogspot.com), Romano cita figure storiche come Martin Buber e Shimon Peres, ma lo fa per lanciare un messaggio senza fronzoli. “Il vero dialogo non è tra amici, ma tra nemici”, afferma, ricordando che la pace si costruisce con fatica e compromessi, non con le armi. L'appello si rivolge non solo ai leader politici, ma anche al popolo comune, a chi vive quotidianamente il conflitto e deve trovare il coraggio di guardare negli occhi chi è dall'altra parte.

 

Un invito aperto a tutti

Romano non si ferma a un generico richiamo morale. Invita chiunque, istituzioni e cittadini comuni, a sottoscrivere il suo appello per la pace. Per aderire basta inviare una mail a lacompagniadelvangelo@yahoo.com, un gesto semplice che può fare la differenza. La convinzione di Romano è chiara: “Ogni piccolo atto di sostegno al dialogo è un passo verso la pace, e ignorare questo appello significa restare complici della violenza e dell'indifferenza”.

 

La scelta obbligata

In un contesto internazionale sempre più polarizzato, Romano chiude il suo appello con una riflessione amara ma inevitabile: “O scegliamo la pace, o ci condanniamo a vivere in un futuro di sangue e distruzione”. Non c’è spazio per esitazioni: il tempo per agire è adesso, e il percorso verso la pace non può più essere rimandato.

Per Romano, la pace non è solo un desiderio o un’aspirazione, ma una scelta obbligata. “Israele deve ricordare il suo passato per costruire un futuro diverso”, conclude il giornalista, “perché la vera forza non sta nel brandire le armi, ma nel trovare il coraggio di deporle e dialogare”.

 

venerdì 13 settembre 2024

“La Chiesa Luterana tra modernità e tradizione. Analisi di una crisi” di Davide Romano, giornalista




Se guardiamo ai numeri, la crisi della Chiesa Luterana, uno dei pilastri della Riforma protestante, appare in tutta la sua drammaticità. Un tempo simbolo di ribellione contro il centralismo romano e l’autoritarismo papale, oggi la Chiesa Luterana si trova a dover fronteggiare una crisi di identità e numeri che preoccupa i suoi stessi leader. I dati non mentono: secondo un rapporto del Pew Research Center del 2023, in Germania, la patria del Luteranesimo, la partecipazione attiva alle funzioni religiose è scesa al di sotto del 5%. Questo significa che oltre il 95% della popolazione luterana non mette piede in chiesa, se non per occasioni speciali come matrimoni o funerali.

 

Il crollo delle vocazioni e la perdita di fedeli

Le vocazioni sacerdotali sono ai minimi storici. Nel 2022, in tutta Europa, solo il 2% dei pastori luterani era sotto i 40 anni, segno di un clero sempre più anziano e scollegato dalle nuove generazioni. Se confrontiamo questi dati con quelli di qualche decennio fa, vediamo una caduta vertiginosa: nel 1950, i pastori luterani sotto i 40 anni costituivano il 25% del totale. Il teologo tedesco Jürgen Moltmann, uno dei pensatori luterani contemporanei più rispettati, scomparso da poco, qualche tempo fa ha commentato amaramente: “La Chiesa Luterana sembra aver perso la capacità di parlare al cuore delle persone. La nostra teologia, che un tempo ispirava ribellione e cambiamento, oggi è percepita come sterile e lontana dalla realtà sociale”.

Non solo in Germania, ma anche nei Paesi scandinavi, tradizionalmente roccaforti del Luteranesimo, la situazione non è migliore. In Svezia, dove oltre il 60% della popolazione si identifica ancora come luterana, la partecipazione attiva alle funzioni religiose è scesa al 2%. Per dare un’idea del cambiamento, negli anni ‘70, questa cifra era intorno al 15%. Lo scrittore svedese Jonas Jonasson, nel suo libro L'analfabeta che sapeva contare, ironizza su questo declino, descrivendo la Chiesa Luterana come “un’antica nave senza vento, alla deriva nell’oceano della modernità”.

 

La sfida del secolarismo

Molti studiosi concordano nel dire che la crisi della Chiesa Luterana è strettamente legata all’avanzare del secolarismo. Le società moderne, soprattutto quelle europee, hanno sempre più allontanato la religione dalle loro vite quotidiane. In Germania, ad esempio, il 40% dei giovani tra i 18 e i 29 anni si dichiara ateo o agnostico. Il sociologo Max Weber aveva già previsto questo fenomeno con il concetto di disincanto del mondo, secondo il quale il progresso scientifico e tecnologico avrebbe portato alla perdita di significato delle credenze religiose nella vita delle persone.

Lutero stesso, con la sua radicale riforma, aveva cercato di semplificare il rapporto tra l’uomo e Dio, eliminando la mediazione ecclesiastica e promuovendo una fede personale e diretta. Ma in un mondo dove la tecnologia e la scienza sembrano fornire risposte immediate e concrete ai problemi dell’esistenza, la proposta luterana appare per molti come obsoleta. La Chiesa Cattolica, con la sua struttura gerarchica e rituale solenne, resiste meglio a questa tendenza, riuscendo a mantenere un legame più stretto con le tradizioni e, paradossalmente, a offrire un rifugio a chi cerca stabilità spirituale.

 

Divisioni interne e contrasti dottrinali

Un altro aspetto della crisi è la frammentazione interna. La Chiesa Luterana non è mai stata monolitica, ma negli ultimi anni le divisioni si sono accentuate. Da un lato, vi è una corrente progressista, rappresentata da figure come il teologo statunitense Nadia Bolz-Weber, che promuove un’apertura verso le tematiche LGBTQ+ e una riforma radicale del ruolo della donna nella Chiesa. Dall’altro, esistono gruppi conservatori che vedono in queste aperture un tradimento della tradizione. Il pastore danese Henrik Svenning, noto per le sue posizioni conservatrici, ha recentemente dichiarato che “la Chiesa Luterana sta per perdere la sua anima nel tentativo di rincorrere la modernità”.

Queste tensioni dottrinali hanno portato a spaccature non solo all’interno delle singole comunità, ma anche tra le diverse chiese luterane nazionali. Negli Stati Uniti, ad esempio, la Evangelical Lutheran Church in America (ELCA) ha adottato posizioni progressiste su molte questioni sociali, mentre altre chiese luterane, come la Lutheran Church-Missouri Synod, mantengono una visione più tradizionale.

 

La perdita di influenza politica

Sul fronte politico, la Chiesa Luterana ha visto ridurre drasticamente la sua influenza. Se fino alla metà del XX secolo, in paesi come la Germania, la Svezia e la Norvegia, i partiti cristiano-democratici e conservatori avevano forti legami con la Chiesa Luterana, oggi questo rapporto si è allentato. L’ex cancelliere tedesco Angela Merkel, figlia di un pastore luterano, ha incarnato per anni una connessione tra religione e politica, ma con il suo ritiro dalla scena politica, anche questo simbolo di unione sembra destinato a scomparire.

Oggi, i partiti principali in Europa, anche quelli di centrodestra, tendono a mantenere le questioni religiose ai margini del dibattito politico. La globalizzazione e la crescente pluralità religiosa hanno fatto sì che il Luteranesimo, un tempo motore di rivoluzioni politiche e sociali, oggi sia relegato a una posizione marginale nella sfera pubblica.

 

Un futuro molto incerto

Il futuro della Chiesa Luterana è molto incerto. Da un lato, vi sono voci che chiedono un rinnovamento radicale, che la renda più attraente per le nuove generazioni; dall’altro, c’è chi teme che questo possa snaturare completamente la sua identità. Come ha scritto recentemente lo storico britannico Diarmaid MacCulloch nel suo libro Christianity: The First Three Thousand Years, “la sfida per il Luteranesimo non è solo sopravvivere in un mondo secolare, ma trovare una nuova ragione d'essere”.

In questo contesto, la Chiesa Luterana si trova davanti a un bivio: continuare a cercare un compromesso con la modernità o riscoprire le proprie radici storiche e dottrinali per rimanere fedele al messaggio originale di Lutero. Ma in un mondo sempre più distante dalla spiritualità, il rischio è che qualsiasi scelta si riveli insufficiente.

“La Chiesa Anglicana fra tradimenti e silenzi” di Davide Romano, giornalista

 


“Quando la Chiesa dimentica di essere la casa della verità e si preoccupa solo di conservare il proprio potere, diventa complice del peccato che avrebbe dovuto denunciare”. Le parole di Hans Küng, teologo svizzero e acuto critico delle istituzioni religiose, sembrano descrivere perfettamente la crisi che ha travolto la Chiesa Anglicana, una delle colonne spirituali della Gran Bretagna, che è stata scossa da numerosi scandali che l'hanno allontanata dalla missione di Cristo. 

In questa analisi, cercheremo di capire come questa crisi sia esplosa e perché la Chiesa d'Inghilterra sembri sempre più lontana dal risorgere. Come ammoniva il Vangelo di Luca: “Non c'è nulla di nascosto che non sarà rivelato, né di segreto che non sarà conosciuto” (Luca 12:2). E i segreti, nel caso della Chiesa Anglicana, sono ormai in bella vista.

 

Il crollo morale e il caso degli abusi

Uno dei capitoli più devastanti riguarda gli abusi sessuali. Il Rapporto IICSA del 2019 ha sollevato il velo su decenni di orrori nascosti all'interno della Chiesa Anglicana. Tra il 1940 e il 2018, furono identificate almeno 384 vittime di abusi sessuali. Le accuse non si limitano a semplici membri del clero, ma coinvolgono alte gerarchie che, invece di intervenire, hanno scelto di coprire gli abusi per proteggere la reputazione dell’istituzione. Come il profeta Isaia scriveva: “Le tue mani sono piene di sangue” (Isaia 1:15). Quel sangue simbolico è ora davanti agli occhi di tutti.

Un esempio drammatico è stato il caso di Peter Ball, vescovo di Gloucester, condannato per aver abusato di giovani ragazzi. Nonostante le accuse fossero state sollevate già negli anni ’90, la Chiesa lo difese, garantendogli protezione, persino tramite membri della famiglia reale. Lo storico Adrian Hastings scrisse in quel periodo che “l’arroganza del potere ecclesiastico sembra prevalere sull’umiltà della fede,” un’osservazione che si rivela tristemente profetica. Come dice San Paolo: “I vescovi devono essere irreprensibili” (Tito 1:7), ma in questo caso, l'irreprensibilità è stata sacrificata sull’altare dell’omertà.

 

Il declino della fede: i numeri di un disastro spirituale

Al di là degli scandali morali, la Chiesa Anglicana è minata da un progressivo abbandono della fede da parte dei suoi fedeli. Secondo un sondaggio di YouGov del 2020, solo il 12% degli inglesi si dichiara ancora anglicano, un crollo impressionante rispetto al 40% del 1980. Ma il dato più allarmante è la partecipazione attiva: meno del 2% della popolazione britannica partecipa regolarmente alle funzioni religiose.

Philip Jenkins, noto storico della religione, ha sottolineato che "le istituzioni religiose che cercano di adattarsi troppo velocemente alla modernità, paradossalmente, perdono sia il senso della tradizione che la fiducia dei fedeli". La Chiesa Anglicana, con i suoi tentativi di rimanere rilevante di fronte a una società sempre più secolarizzata, ha progressivamente perso di vista il suo mandato spirituale. Si ripete così il monito del Vangelo: “Il sale ha perso il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato?” (Matteo 5:13).

 

Corruzione e gestione delle proprietà: il denaro sopra la fede?

Altro grande nodo riguarda la gestione del patrimonio immobiliare della Chiesa. Si stima che la Chiesa Anglicana possieda asset per un valore di circa 8.7 miliardi di sterline, ma le continue vendite di chiese e terreni stanno alimentando critiche per una gestione miope. Lord George Carey, ex arcivescovo di Canterbury, ha commentato in merito: “La Chiesa sta vendendo la sua anima per far fronte a una crisi economica, ma la crisi è spirituale”.

Le vendite di edifici storici, spesso trasformati in alberghi di lusso o residenze private, sono state duramente criticate anche da esponenti laici. L’economista David McWilliams ha definito questa operazione “una svendita del patrimonio spirituale dell’Inghilterra”. Il filosofo Alasdair MacIntyre ha poi riflettuto sul declino delle istituzioni religiose occidentali, osservando che “il capitalismo moderno corrompe le strutture tradizionali, compresa la Chiesa, dove il profitto diventa il fine anziché il mezzo”.

 

Le divisioni sui diritti civili: una chiesa spaccata

Le questioni morali hanno ulteriormente diviso la Chiesa. Il dibattito sull’ordinazione di vescovi omosessuali e il matrimonio tra persone dello stesso sesso ha creato uno scisma. Durante la Lambeth Conference del 2022, molti vescovi provenienti da paesi africani, dove la Chiesa Anglicana è particolarmente influente, si sono opposti violentemente alle aperture progressiste della leadership britannica. John Sentamu, arcivescovo emerito di York, ha osservato con amarezza: “Questa non è più la Chiesa unita che una volta portava il Vangelo in tutto il mondo”.

Le province africane, come la Nigeria e l’Uganda, hanno minacciato di abbandonare la Comunione anglicana, ritenendo che la Chiesa britannica abbia tradito i valori tradizionali. In merito, G.K. Chesterton, noto scrittore cristiano, diceva: “La Chiesa non ha bisogno di cambiare per rimanere fedele, ma di rimanere fedele per cambiare il mondo”.

 

Riflessioni bibliche sul futuro della chiesa

Il futuro della Chiesa Anglicana appare incerto. L’abbandono dei fedeli, le divisioni interne e il tradimento dei principi fondamentali lasciano molti a chiedersi se l’istituzione possa ancora recuperare la sua posizione di guida morale. “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono in me, è meglio per lui che gli sia appesa al collo una macina” (Matteo 18:6). Le parole di Cristo echeggiano sinistramente nel contesto di oggi. La Chiesa, una volta faro morale del Regno Unito, sembra aver perso la sua strada.

La domanda finale rimane: c’è ancora spazio per il pentimento e la riforma? San Paolo scriveva: “Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Romani 5:20), ma tale grazia deve essere cercata con un sincero ritorno alla verità. Il tempo dirà se la Chiesa Anglicana sarà in grado di risollevarsi, o se affonderà definitivamente nel suo declino.

 

Fonti:

•        Independent Inquiry into Child Sexual Abuse (IICSA), 2019

•        YouGov, 2020-2022

•        Chesterton, G.K. "Orthodoxy", 1908

•        Jenkins, Philip. "The Next Christendom", 2002

•        Alasdair MacIntyre. "After Virtue", 1981

 

“L’ultimo guardiano della verità (o quasi). Il giornalista tra vocazione e realtà” di Davide Romano

 


“Il giornalismo è stampa scritta in fretta, ma pensata per sempre”, diceva Arthur Miller. Mi piacerebbe davvero tanto che fosse così. La realtà però, caro Miller, oggi è che lo scriviamo in fretta, lo leggiamo ancora più in fretta e ci dimentichiamo di averlo letto prima di finire il caffè. Nel mare tumultuoso della società contemporanea, il giornalista dovrebbe essere l'ultimo baluardo della verità, ma ahimè, finisce più spesso come il primo a essere sbattuto fuori dalla porta della redazione quando arrivano gli sponsor.

Non è un mestiere per deboli di cuore, questo no. George Orwell lo aveva capito benissimo: “In un'epoca di inganni universali, dire la verità è un atto rivoluzionario”. E in effetti, dire la verità è quasi diventato uno sport estremo, con il giornalista che si trasforma in un moderno funambolo, camminando su una corda tesa fra l’idealismo e la bancarotta personale.

La stampa viene ancora definita il "quarto potere", ma a ben vedere, oggi pare più il "quarto debito". La crisi economica e la necessità di ingraziarsi questo o quel potente hanno trasformato molti giornalisti in autori di bollettini aziendali o, peggio, di manifesti elettorali camuffati. Ma Indro Montanelli ci aveva avvertiti: "Il giornalista non deve mai essere di sinistra, di destra o di centro. Deve solo essere dalla parte dei fatti". Parole dure e chiare come il suo sigaro. Eppure, oggi il giornalista sembra essere un povero cronista intrappolato in un castello di carte in rovina, costretto a servire troppe cause, tranne quella della verità.

Albert Camus, dal canto suo, vedeva nel giornalismo una missione etica: “Una stampa libera può, ovviamente, essere buona o cattiva, ma senza libertà, la stampa non sarà mai altro che cattiva”. Una verità scomoda, che però fa sbadigliare più di qualcuno, soprattutto nelle sale di redazione, dove le preoccupazioni ruotano più attorno ai click che ai contenuti. La libertà di stampa? Beh, quella la trovi ancora, ma nei vecchi archivi polverosi. O, se proprio va bene, nei libri di storia.

Nonostante tutto, qualcuno ancora resiste. Ci sono quelli come Anna Politkovskaja, che hanno pagato il prezzo più alto per difendere il diritto di raccontare la verità. Loro ci ricordano che il giornalista dovrebbe essere un eroe tragico, e invece spesso si ritrova a interpretare il ruolo dell'eroe comico, cercando di salvare il salvabile tra una telefonata del capo e l'ennesima richiesta del marketing.

Ah, la dignità del mestiere! Ciò che Hannah Arendt definiva come la "sfera pubblica", quel luogo sacro in cui l'informazione dovrebbe essere corretta, verificata, accessibile a tutti. Oggi, quella sfera è stata trasformata in un palloncino pubblicitario, gonfiato di falsità e pronto a scoppiare al primo contatto con la realtà. Ma il vero giornalista? Lui resiste. O almeno ci prova, finché qualcuno non gli fa notare che la verità non paga l'affitto.

Eppure, non dobbiamo cadere nel cinismo. Gabriel García Márquez amava dire che “il giornalismo è il miglior lavoro del mondo”. Certo, Gabriel, ma prova a dirlo a chi si ritrova a scrivere pezzi su come perdere peso in dieci giorni perché è il contenuto che "funziona meglio online". Il giornalista dovrebbe essere un costruttore di storie, un interprete di quel caos che chiamiamo realtà. Ma oggi, è più probabile che venga trasformato in un compilatore di liste o in un commentatore di meme.

Ryszard Kapuściński ammoniva: “Per essere un buon giornalista, devi essere una brava persona”. Verissimo, ma oggi la lista dei requisiti include anche: saper usare i social media, conoscere almeno un algoritmo, e soprattutto avere un contratto a tempo indeterminato. Cosa? Il contratto? Ah, scusate, quello era un sogno.

Il giornalismo dovrebbe essere una vocazione, come diceva Honoré de Balzac, una "grande catapulta preparata per andare più lontano". Eppure oggi sembra una fionda malandata, tesa tra la necessità di sopravvivere e la speranza di raccontare, ogni tanto, qualcosa che abbia un briciolo di verità.

E allora, come ci ricorda Joseph Pulitzer, “un giornalista è colui che può vedere nel buio”. Sì, certo, e con un po' di fortuna, potrà anche pagare la bolletta della luce.

 


“Da Washington a Biden, la fede dei presidenti Usa una bussola o un’arma politica?” di Davide Romano

 



L’America, che ha scritto il principio di separazione tra Stato e Chiesa nella sua Costituzione, non ha mai smesso di intrecciare la politica con la religione. Se ieri il giuramento dei presidenti avveniva con la mano su una Bibbia, la stessa scena si è ripetuta con Joe Biden, il secondo cattolico alla Casa Bianca, dopo John F. Kennedy. Ma cosa significa, oggi, parlare di fede in politica? E quanto è reale la devozione dei presidenti moderni?

 

Biden, cattolicesimo e compassione sociale

Partiamo dal presente. Joe Biden, presidente che non ha mai nascosto la sua profonda fede cattolica, si è trovato a guidare un’America più polarizzata che mai. La sua storia personale, segnata da lutti familiari e tragedie, lo ha avvicinato al lato umano e compassionevole del cattolicesimo. Non è raro vederlo partecipare alla messa o fare riferimento alla sua fede in discorsi pubblici. “La fede mi ha dato speranza e conforto quando ho perso mio figlio”, ha detto più volte.

Ma c’è chi accusa Biden di ipocrisia: mentre professa una fede profonda, il suo approccio politico su temi come l’aborto e i diritti LGBTQ è in conflitto con le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica. Qui emerge la tensione tra il cattolico Biden e il politico Biden, costretto a navigare tra le sue convinzioni personali e le richieste di un elettorato progressista.

 

Trump, l’evangelismo politico

Se Biden rappresenta il cattolicesimo compassionevole, Donald Trump è il campione del movimento evangelico conservatore, un gruppo che ha avuto un ruolo cruciale nel portarlo alla Casa Bianca. Eppure, la fede personale di Trump è sempre stata motivo di perplessità. Poche volte lo si è visto in chiesa, e raramente ha fatto riferimenti spirituali autentici.

Ma Trump ha saputo usare la religione come strumento politico. Con un linguaggio che mescolava patriottismo e fede, si è presentato come il difensore della “città sulla collina”, un riferimento biblico caro agli evangelici. “Nessuno ha fatto più di me per i cristiani in questo paese”, dichiarò una volta, enfatizzando le sue politiche anti-aborto e la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema. Se fosse autentica convinzione o pura strategia elettorale, è difficile dirlo. Di certo, la sua presidenza ha cementato l’alleanza tra la politica repubblicana e la destra religiosa.

 

Obama, fede personale, ma laica

Prima di Trump, Barack Obama, il primo presidente afroamericano, portò una visione più laica, ma comunque radicata nella fede. Anche se raramente si definiva un fervente praticante, Obama trovò nelle Scritture ispirazione per i suoi discorsi pubblici, spesso citando la Bibbia per parlare di giustizia sociale. “Sono il custode di mio fratello e di mia sorella ”, ripeteva, facendo eco al cristianesimo sociale che aveva appreso frequentando la chiesa di Chicago.

Ma la sua fede fu messa in dubbio sia da destra che da sinistra. La destra lo accusava di non essere abbastanza cristiano, insinuando addirittura che fosse segretamente musulmano, mentre la sinistra criticava il suo uso della religione per giustificare interventi sociali e militari. Obama camminava su un filo sottile: un presidente che parlava di fede, ma che cercava di tenere quella stessa fede fuori dalle sue decisioni politiche.

 

Bush e il ritorno della religione in politica

L’ascesa di George W. Bush segnò un punto di svolta nella storia recente della fede presidenziale. Bush, un convertito evangelico, un "nato di nuovo", fece della sua religione una parte integrante della sua politica. “Ho trovato Dio nei momenti di difficoltà”, dichiarò più volte, parlando della sua lotta con l’alcolismo e della sua rinascita spirituale.

Ma la sua fede non si fermava alla vita privata. Durante la presidenza, Bush invocò il nome di Dio per giustificare decisioni politiche cruciali, come la guerra in Iraq. “Il male deve essere sconfitto”, dichiarò, usando un linguaggio quasi biblico per definire la lotta al terrorismo. Tuttavia, la sua fusione tra religione e politica suscitò non poche critiche, anche tra i suoi stessi alleati, che temevano una deriva teocratica.

 

La fede dei presidenti

La fede dei presidenti americani, da Washington a Biden, passando per Trump e Obama, rimane una questione complessa e ambigua. È stata, per alcuni, una guida sincera nella vita e nella politica, per altri, uno strumento di potere. Sant’Agostino scriveva: “La fede è credere in ciò che non vedi; la ricompensa della fede è vedere ciò che credi”. Ma per i presidenti americani, quanta parte della loro fede è stata vera convinzione, e quanta semplice necessità elettorale?

Nell’America di oggi, sempre più divisa, la fede resta una bussola morale per alcuni e un’arma politica per altri.

“La Bibbia nella cultura americana, tra sacro e profano, un mito fondante” di Davide Romano

 



Se c’è un testo che ha influenzato profondamente la cultura americana, dalla politica alla letteratura, passando per la musica e il cinema, è la Bibbia. In un paese fondato su princìpi di libertà religiosa, paradossalmente la Bibbia ha attraversato ogni aspetto della vita pubblica e privata. Non si tratta solo di un testo religioso: per molti americani è un simbolo di identità nazionale, una bussola morale, e talvolta, uno strumento politico.

 

Le radici bibliche dell’America

La relazione dell’America con la Bibbia risale agli inizi della sua storia. Quando i Padri Pellegrini sbarcarono sulle coste del New England nel 1620, portarono con sé una visione del mondo fortemente influenzata dalle Scritture. John Winthrop, uno dei leader della colonia del Massachusetts, nel celebre sermone “A Model of Christian Charity” parlò di una "città sulla collina", un’immagine tratta dal Vangelo di Matteo (5:14), che divenne una metafora duratura per la missione divina dell’America.

“Siamo una nazione sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”, recita il Giuramento di fedeltà, aggiunto solo nel 1954, durante la Guerra Fredda, ma che rivela quanto la fede e il senso di destino abbiano sempre marcato la storia americana.

 

La Bibbia come mito fondatore

Alexis de Tocqueville, osservatore acuto della democrazia americana, scrisse nel suo classico “La democrazia in America” (1835): “Non ho mai visto un paese in cui la religione cristiana abbia una tale influenza sulla società quanto negli Stati Uniti. Nessun altro popolo sembra aver intrecciato così strettamente la fede con le sue istituzioni politiche”. Tocqueville notò che la Bibbia non solo era presente nelle case, ma anche nei tribunali, nelle scuole e, naturalmente, nei discorsi politici.

 

Letteratura e Bibbia, un matrimonio secolare

Il potere della Bibbia in America non si limita alla sfera religiosa. Scrittori come Herman Melville, Nathaniel Hawthorne e Mark Twain hanno tutti trovato nella Bibbia una fonte di ispirazione, e talvolta di satira. Melville, nel suo capolavoro Moby Dick, utilizza riferimenti biblici per descrivere la lotta epica tra l’uomo e il destino. L’ossessivo capitano Achab, nella sua caccia alla balena bianca, diventa un moderno Giobbe, ribellandosi contro un Dio silenzioso e crudele.

Mark Twain, sempre pungente, ironizzò: “La Bibbia contiene tesori inestimabili e le migliori cure per l’immaginazione, ma è come il vino di buona annata, deve essere presa con moderazione”. Twain era consapevole dell’influenza della Bibbia sulla cultura popolare, ma allo stesso tempo ne criticava l’uso strumentale da parte della politica.

 

La Bibbia come strumento politico

In effetti, pochi libri hanno avuto un peso così determinante nella politica americana quanto la Bibbia. Come osserva il politologo Kevin Kruse nel suo libro “One Nation Under God” (2015), la Bibbia è stata spesso usata per giustificare politiche di ogni sorta. Durante la Guerra Civile, sia i nordisti che i sudisti trovavano nelle Scritture giustificazioni per le loro rispettive cause. Abraham Lincoln, uno dei presidenti più legati alla fede, disse nel suo Secondo discorso inaugurale (1865): “Entrambe le parti leggono la stessa Bibbia e pregano lo stesso Dio, e ciascuno invoca il Suo aiuto contro l'altro”.

Ma se Lincoln usava la Bibbia per cercare una riconciliazione morale, altri hanno spesso usato il testo sacro per fini meno nobili. Franklin D. Roosevelt, in uno dei momenti più drammatici della Seconda Guerra Mondiale, citò il Salmo 91 in un discorso radiofonico del 1941, per rafforzare la fiducia della nazione nella vittoria: “Non temerai il terrore della notte, né la freccia che vola di giorno”. La Bibbia, dunque, non era solo un testo religioso, ma un potente strumento retorico.

 

Religione e diritti civili

Se la Bibbia è stata usata per giustificare la schiavitù, è anche vero che è stata l’arma più potente dei leader dei diritti civili. Martin Luther King Jr., pastore battista e leader del movimento, attingeva costantemente alle Scritture per sostenere la giustizia razziale. In uno dei suoi discorsi più noti, “I Have a Dream” (1963), King invocò l'immagine biblica di “ogni valle sarà colmata e ogni montagna e colle saranno abbassati” (Isaia 40:4), prefigurando una nuova era di uguaglianza e giustizia.

James Baldwin, scrittore afroamericano, in “The Fire Next Time” (1963), denunciò come la Bibbia fosse stata usata sia come strumento di oppressione che di liberazione. “L’eredità biblica è quella di un popolo in esilio”, scrisse Baldwin, suggerendo che la lotta degli afroamericani per i diritti civili fosse simile alla lotta del popolo ebraico per la liberazione.

 

Il declino della Bibbia?

E oggi? L’influenza della Bibbia nella cultura americana sembra diminuire in un’epoca di secolarizzazione crescente. Eppure, come osserva l’editorialista del New York Times Ross Douthat, “anche quando la fede si indebolisce, il linguaggio e i simboli della Bibbia restano profondamente radicati nella coscienza americana”. Anche la cosiddetta “guerra culturale” moderna, che vede contrapposti progressisti e conservatori, trova le sue radici in interpretazioni diverse del testo sacro.

La Bibbia, con le sue storie di creazione, distruzione e redenzione, è stata e rimane un pilastro della cultura americana. Ralph Waldo Emerson, filosofo e saggista del XIX secolo, scrisse: “La Bibbia è una delle opere più profonde e universali mai scritte, capace di parlare a ogni epoca e a ogni condizione umana”. Che venga letta con fede o con scetticismo, resta un testo imprescindibile per comprendere l'anima americana. E, come la nazione stessa, continua a suscitare dibattiti, ispirare sogni e, talvolta, alimentare conflitti.

 

Palermo sabato 2 novembre, “Gesù è la Buona Notizia”. Corso di giornalismo per cristiani intraprendenti e curiosi

  In un mondo inondato da informazioni, spesso false e fuorvianti, c'è chi desidera riportare la verità al centro della comunicazione. E...