lunedì 16 settembre 2024

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano



L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese degli scrittori. Perché scrivere, in Italia, sembra piacere molto più che leggere. Non importa che il nostro amato Dante si rigiri nella tomba: siamo un popolo di aspiranti autori, ma di libri letti neanche l'ombra.

Prendiamo per esempio i dati dell'ISTAT: meno del 40% degli italiani ha letto un libro nell'ultimo anno. Tuttavia, se si dovesse chiedere quanti abbiano provato a scriverne uno, probabilmente ci troveremmo di fronte a un’altra statistica sorprendente. Siamo un popolo che ama parlare, e oggi, grazie ai social, anche scrivere. Blog, post su Facebook, storie Instagram, poesie improvvisate su TikTok... gli italiani amano lasciare il segno. Ma leggere? Beh, quello è un altro discorso.

 

Scrivere sì, leggere no: il paradosso italiano

Italo Calvino ci aveva già visto lungo, ironizzando su questa tendenza: "Scrivere è sempre un lavoro da dilettanti, leggere è una professione". In Italia, però, sembra che la professione del lettore non interessi a molti. Al massimo, qualche poesia di circostanza al matrimonio dell’amico, un aforisma su un biglietto d'auguri, oppure la lista della spesa.

Montanelli, dal suo pulpito di polemiche sagaci, era chiaro: “In Italia, chi legge è una minoranza e chi scrive è una moltitudine. Il guaio è che i secondi non leggono neanche i primi.” Ma perché leggere, quando si può benissimo passare il tempo a scrivere l'ennesima autobiografia di una vita che nessuno ha chiesto di conoscere? E così ci ritroviamo con centinaia di nuovi titoli nelle librerie, che nessuno sfoglia, ma che tutti vogliono pubblicare.

 

La "tragedia" della lettura

Se pavese diceva che "un paese che non legge è un paese senza futuro", potremmo aggiungere che un paese che scrive senza leggere è un paese schizofrenico. Antonio Gramsci, con il suo spirito critico, ci avrebbe probabilmente bacchettati: “Formare una coscienza critica richiede lettura e riflessione, non solo parole.” Eppure, il mondo editoriale italiano è invaso da aspiranti scrittori che si credono il nuovo Proust. Il problema? Non hanno mai letto nemmeno Alla ricerca del tempo perduto. E come potrebbero? Il tempo perduto è tutto impiegato a postare selfie letterari su Instagram.

Norberto Bobbio, filosofo di grande levatura, avrebbe detto che questa carenza di lettori mina la stessa democrazia. Perché la lettura è confronto, apertura mentale. Scrivere senza leggere, invece, è solo un monologo infinito, una gara a chi urla più forte.

 

Librerie deserte, bacheche piene

Nel frattempo, le librerie italiane continuano a chiudere. Più di 700 hanno serrato le porte nell'ultimo anno, e chi resta aperto deve fare i conti con clienti che entrano solo per chiedere dove si trova l'angolo caffè. Umberto Eco, che dei libri aveva fatto una missione di vita, avrebbe probabilmente alzato le mani al cielo: "La televisione è diventata un elettrodomestico, i libri no". Se avesse vissuto l'epoca degli e-book, probabilmente sarebbe stato più pessimista.

E mentre gli italiani continuano a ignorare i libri, il numero di autopubblicazioni cresce. Si aprono gruppi Facebook di aspiranti scrittori, si avviano start-up editoriali per chiunque voglia vedere il proprio nome in copertina. Ma la verità, citando Woody Allen, è che "chi non legge, non ha niente da dire". Eppure, in Italia, tutti sembrano avere qualcosa da scrivere.

 

Una razza in via d'estinzione?

Così, ci ritroviamo a essere il Paese di scrittori che non legge. Un paradosso degno di Luigi Pirandello, che sarebbe perfetto per un suo dramma moderno: personaggi in cerca di un autore, ma senza mai averne letto uno. Forse è questo il destino della nostra cultura: estinguere i lettori e moltiplicare gli scrittori, in una spirale infinita di parole senza peso.

Medio Oriente, Romano (Compagnia del Vangelo) lancia la sottoscrizione di un appello a Israele: “Fermatevi, la vostra storia vi chiama alla pace”.

 




Davide Romano, giornalista di lungo corso e fondatore della Compagnia del Vangelo, un gruppo ecumenico informale che ha come scopo il dialogo e il servizio ai più poveri, lancia un appello deciso e diretto al popolo d'Israele: “Fermatevi, la vostra storia non può essere quella di una guerra eterna con i palestinesi.” Romano, impegnato da anni nel dialogo interreligioso ed ecumenico, non si perde in retorica, ma va dritto al punto: Israele deve fermarsi e riflettere, perché la pace non è un’opzione tra tante, è l’unica via per uscire dal baratro.

Romano richiama con forza le radici storiche e culturali del popolo israeliano. “Il Talmud ci insegna: ‘Chi salva una vita, salva il mondo intero.’ E quante vite si stanno perdendo oggi?”. Con queste parole, il giornalista sottolinea il peso morale che grava sulle spalle di Israele. Per un popolo che ha conosciuto il dolore dell’esilio e l’orrore della Shoah, Romano sottolinea che non si può permettere che quelle stesse ferite giustifichino nuove ingiustizie. “La violenza porta solo altra violenza”, scrive Romano, senza lasciare spazio a interpretazioni.

 

Una storia che non può essere ignorata

Nell’appello, pubblicato sul blog della Compagnia del Vangelo (https://lacompagniadelvangelo.blogspot.com), Romano cita figure storiche come Martin Buber e Shimon Peres, ma lo fa per lanciare un messaggio senza fronzoli. “Il vero dialogo non è tra amici, ma tra nemici”, afferma, ricordando che la pace si costruisce con fatica e compromessi, non con le armi. L'appello si rivolge non solo ai leader politici, ma anche al popolo comune, a chi vive quotidianamente il conflitto e deve trovare il coraggio di guardare negli occhi chi è dall'altra parte.

 

Un invito aperto a tutti

Romano non si ferma a un generico richiamo morale. Invita chiunque, istituzioni e cittadini comuni, a sottoscrivere il suo appello per la pace. Per aderire basta inviare una mail a lacompagniadelvangelo@yahoo.com, un gesto semplice che può fare la differenza. La convinzione di Romano è chiara: “Ogni piccolo atto di sostegno al dialogo è un passo verso la pace, e ignorare questo appello significa restare complici della violenza e dell'indifferenza”.

 

La scelta obbligata

In un contesto internazionale sempre più polarizzato, Romano chiude il suo appello con una riflessione amara ma inevitabile: “O scegliamo la pace, o ci condanniamo a vivere in un futuro di sangue e distruzione”. Non c’è spazio per esitazioni: il tempo per agire è adesso, e il percorso verso la pace non può più essere rimandato.

Per Romano, la pace non è solo un desiderio o un’aspirazione, ma una scelta obbligata. “Israele deve ricordare il suo passato per costruire un futuro diverso”, conclude il giornalista, “perché la vera forza non sta nel brandire le armi, ma nel trovare il coraggio di deporle e dialogare”.

 

venerdì 13 settembre 2024

“La Chiesa Luterana tra modernità e tradizione. Analisi di una crisi” di Davide Romano, giornalista




Se guardiamo ai numeri, la crisi della Chiesa Luterana, uno dei pilastri della Riforma protestante, appare in tutta la sua drammaticità. Un tempo simbolo di ribellione contro il centralismo romano e l’autoritarismo papale, oggi la Chiesa Luterana si trova a dover fronteggiare una crisi di identità e numeri che preoccupa i suoi stessi leader. I dati non mentono: secondo un rapporto del Pew Research Center del 2023, in Germania, la patria del Luteranesimo, la partecipazione attiva alle funzioni religiose è scesa al di sotto del 5%. Questo significa che oltre il 95% della popolazione luterana non mette piede in chiesa, se non per occasioni speciali come matrimoni o funerali.

 

Il crollo delle vocazioni e la perdita di fedeli

Le vocazioni sacerdotali sono ai minimi storici. Nel 2022, in tutta Europa, solo il 2% dei pastori luterani era sotto i 40 anni, segno di un clero sempre più anziano e scollegato dalle nuove generazioni. Se confrontiamo questi dati con quelli di qualche decennio fa, vediamo una caduta vertiginosa: nel 1950, i pastori luterani sotto i 40 anni costituivano il 25% del totale. Il teologo tedesco Jürgen Moltmann, uno dei pensatori luterani contemporanei più rispettati, scomparso da poco, qualche tempo fa ha commentato amaramente: “La Chiesa Luterana sembra aver perso la capacità di parlare al cuore delle persone. La nostra teologia, che un tempo ispirava ribellione e cambiamento, oggi è percepita come sterile e lontana dalla realtà sociale”.

Non solo in Germania, ma anche nei Paesi scandinavi, tradizionalmente roccaforti del Luteranesimo, la situazione non è migliore. In Svezia, dove oltre il 60% della popolazione si identifica ancora come luterana, la partecipazione attiva alle funzioni religiose è scesa al 2%. Per dare un’idea del cambiamento, negli anni ‘70, questa cifra era intorno al 15%. Lo scrittore svedese Jonas Jonasson, nel suo libro L'analfabeta che sapeva contare, ironizza su questo declino, descrivendo la Chiesa Luterana come “un’antica nave senza vento, alla deriva nell’oceano della modernità”.

 

La sfida del secolarismo

Molti studiosi concordano nel dire che la crisi della Chiesa Luterana è strettamente legata all’avanzare del secolarismo. Le società moderne, soprattutto quelle europee, hanno sempre più allontanato la religione dalle loro vite quotidiane. In Germania, ad esempio, il 40% dei giovani tra i 18 e i 29 anni si dichiara ateo o agnostico. Il sociologo Max Weber aveva già previsto questo fenomeno con il concetto di disincanto del mondo, secondo il quale il progresso scientifico e tecnologico avrebbe portato alla perdita di significato delle credenze religiose nella vita delle persone.

Lutero stesso, con la sua radicale riforma, aveva cercato di semplificare il rapporto tra l’uomo e Dio, eliminando la mediazione ecclesiastica e promuovendo una fede personale e diretta. Ma in un mondo dove la tecnologia e la scienza sembrano fornire risposte immediate e concrete ai problemi dell’esistenza, la proposta luterana appare per molti come obsoleta. La Chiesa Cattolica, con la sua struttura gerarchica e rituale solenne, resiste meglio a questa tendenza, riuscendo a mantenere un legame più stretto con le tradizioni e, paradossalmente, a offrire un rifugio a chi cerca stabilità spirituale.

 

Divisioni interne e contrasti dottrinali

Un altro aspetto della crisi è la frammentazione interna. La Chiesa Luterana non è mai stata monolitica, ma negli ultimi anni le divisioni si sono accentuate. Da un lato, vi è una corrente progressista, rappresentata da figure come il teologo statunitense Nadia Bolz-Weber, che promuove un’apertura verso le tematiche LGBTQ+ e una riforma radicale del ruolo della donna nella Chiesa. Dall’altro, esistono gruppi conservatori che vedono in queste aperture un tradimento della tradizione. Il pastore danese Henrik Svenning, noto per le sue posizioni conservatrici, ha recentemente dichiarato che “la Chiesa Luterana sta per perdere la sua anima nel tentativo di rincorrere la modernità”.

Queste tensioni dottrinali hanno portato a spaccature non solo all’interno delle singole comunità, ma anche tra le diverse chiese luterane nazionali. Negli Stati Uniti, ad esempio, la Evangelical Lutheran Church in America (ELCA) ha adottato posizioni progressiste su molte questioni sociali, mentre altre chiese luterane, come la Lutheran Church-Missouri Synod, mantengono una visione più tradizionale.

 

La perdita di influenza politica

Sul fronte politico, la Chiesa Luterana ha visto ridurre drasticamente la sua influenza. Se fino alla metà del XX secolo, in paesi come la Germania, la Svezia e la Norvegia, i partiti cristiano-democratici e conservatori avevano forti legami con la Chiesa Luterana, oggi questo rapporto si è allentato. L’ex cancelliere tedesco Angela Merkel, figlia di un pastore luterano, ha incarnato per anni una connessione tra religione e politica, ma con il suo ritiro dalla scena politica, anche questo simbolo di unione sembra destinato a scomparire.

Oggi, i partiti principali in Europa, anche quelli di centrodestra, tendono a mantenere le questioni religiose ai margini del dibattito politico. La globalizzazione e la crescente pluralità religiosa hanno fatto sì che il Luteranesimo, un tempo motore di rivoluzioni politiche e sociali, oggi sia relegato a una posizione marginale nella sfera pubblica.

 

Un futuro molto incerto

Il futuro della Chiesa Luterana è molto incerto. Da un lato, vi sono voci che chiedono un rinnovamento radicale, che la renda più attraente per le nuove generazioni; dall’altro, c’è chi teme che questo possa snaturare completamente la sua identità. Come ha scritto recentemente lo storico britannico Diarmaid MacCulloch nel suo libro Christianity: The First Three Thousand Years, “la sfida per il Luteranesimo non è solo sopravvivere in un mondo secolare, ma trovare una nuova ragione d'essere”.

In questo contesto, la Chiesa Luterana si trova davanti a un bivio: continuare a cercare un compromesso con la modernità o riscoprire le proprie radici storiche e dottrinali per rimanere fedele al messaggio originale di Lutero. Ma in un mondo sempre più distante dalla spiritualità, il rischio è che qualsiasi scelta si riveli insufficiente.

“La Chiesa Anglicana fra tradimenti e silenzi” di Davide Romano, giornalista

 


“Quando la Chiesa dimentica di essere la casa della verità e si preoccupa solo di conservare il proprio potere, diventa complice del peccato che avrebbe dovuto denunciare”. Le parole di Hans Küng, teologo svizzero e acuto critico delle istituzioni religiose, sembrano descrivere perfettamente la crisi che ha travolto la Chiesa Anglicana, una delle colonne spirituali della Gran Bretagna, che è stata scossa da numerosi scandali che l'hanno allontanata dalla missione di Cristo. 

In questa analisi, cercheremo di capire come questa crisi sia esplosa e perché la Chiesa d'Inghilterra sembri sempre più lontana dal risorgere. Come ammoniva il Vangelo di Luca: “Non c'è nulla di nascosto che non sarà rivelato, né di segreto che non sarà conosciuto” (Luca 12:2). E i segreti, nel caso della Chiesa Anglicana, sono ormai in bella vista.

 

Il crollo morale e il caso degli abusi

Uno dei capitoli più devastanti riguarda gli abusi sessuali. Il Rapporto IICSA del 2019 ha sollevato il velo su decenni di orrori nascosti all'interno della Chiesa Anglicana. Tra il 1940 e il 2018, furono identificate almeno 384 vittime di abusi sessuali. Le accuse non si limitano a semplici membri del clero, ma coinvolgono alte gerarchie che, invece di intervenire, hanno scelto di coprire gli abusi per proteggere la reputazione dell’istituzione. Come il profeta Isaia scriveva: “Le tue mani sono piene di sangue” (Isaia 1:15). Quel sangue simbolico è ora davanti agli occhi di tutti.

Un esempio drammatico è stato il caso di Peter Ball, vescovo di Gloucester, condannato per aver abusato di giovani ragazzi. Nonostante le accuse fossero state sollevate già negli anni ’90, la Chiesa lo difese, garantendogli protezione, persino tramite membri della famiglia reale. Lo storico Adrian Hastings scrisse in quel periodo che “l’arroganza del potere ecclesiastico sembra prevalere sull’umiltà della fede,” un’osservazione che si rivela tristemente profetica. Come dice San Paolo: “I vescovi devono essere irreprensibili” (Tito 1:7), ma in questo caso, l'irreprensibilità è stata sacrificata sull’altare dell’omertà.

 

Il declino della fede: i numeri di un disastro spirituale

Al di là degli scandali morali, la Chiesa Anglicana è minata da un progressivo abbandono della fede da parte dei suoi fedeli. Secondo un sondaggio di YouGov del 2020, solo il 12% degli inglesi si dichiara ancora anglicano, un crollo impressionante rispetto al 40% del 1980. Ma il dato più allarmante è la partecipazione attiva: meno del 2% della popolazione britannica partecipa regolarmente alle funzioni religiose.

Philip Jenkins, noto storico della religione, ha sottolineato che "le istituzioni religiose che cercano di adattarsi troppo velocemente alla modernità, paradossalmente, perdono sia il senso della tradizione che la fiducia dei fedeli". La Chiesa Anglicana, con i suoi tentativi di rimanere rilevante di fronte a una società sempre più secolarizzata, ha progressivamente perso di vista il suo mandato spirituale. Si ripete così il monito del Vangelo: “Il sale ha perso il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato?” (Matteo 5:13).

 

Corruzione e gestione delle proprietà: il denaro sopra la fede?

Altro grande nodo riguarda la gestione del patrimonio immobiliare della Chiesa. Si stima che la Chiesa Anglicana possieda asset per un valore di circa 8.7 miliardi di sterline, ma le continue vendite di chiese e terreni stanno alimentando critiche per una gestione miope. Lord George Carey, ex arcivescovo di Canterbury, ha commentato in merito: “La Chiesa sta vendendo la sua anima per far fronte a una crisi economica, ma la crisi è spirituale”.

Le vendite di edifici storici, spesso trasformati in alberghi di lusso o residenze private, sono state duramente criticate anche da esponenti laici. L’economista David McWilliams ha definito questa operazione “una svendita del patrimonio spirituale dell’Inghilterra”. Il filosofo Alasdair MacIntyre ha poi riflettuto sul declino delle istituzioni religiose occidentali, osservando che “il capitalismo moderno corrompe le strutture tradizionali, compresa la Chiesa, dove il profitto diventa il fine anziché il mezzo”.

 

Le divisioni sui diritti civili: una chiesa spaccata

Le questioni morali hanno ulteriormente diviso la Chiesa. Il dibattito sull’ordinazione di vescovi omosessuali e il matrimonio tra persone dello stesso sesso ha creato uno scisma. Durante la Lambeth Conference del 2022, molti vescovi provenienti da paesi africani, dove la Chiesa Anglicana è particolarmente influente, si sono opposti violentemente alle aperture progressiste della leadership britannica. John Sentamu, arcivescovo emerito di York, ha osservato con amarezza: “Questa non è più la Chiesa unita che una volta portava il Vangelo in tutto il mondo”.

Le province africane, come la Nigeria e l’Uganda, hanno minacciato di abbandonare la Comunione anglicana, ritenendo che la Chiesa britannica abbia tradito i valori tradizionali. In merito, G.K. Chesterton, noto scrittore cristiano, diceva: “La Chiesa non ha bisogno di cambiare per rimanere fedele, ma di rimanere fedele per cambiare il mondo”.

 

Riflessioni bibliche sul futuro della chiesa

Il futuro della Chiesa Anglicana appare incerto. L’abbandono dei fedeli, le divisioni interne e il tradimento dei principi fondamentali lasciano molti a chiedersi se l’istituzione possa ancora recuperare la sua posizione di guida morale. “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono in me, è meglio per lui che gli sia appesa al collo una macina” (Matteo 18:6). Le parole di Cristo echeggiano sinistramente nel contesto di oggi. La Chiesa, una volta faro morale del Regno Unito, sembra aver perso la sua strada.

La domanda finale rimane: c’è ancora spazio per il pentimento e la riforma? San Paolo scriveva: “Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Romani 5:20), ma tale grazia deve essere cercata con un sincero ritorno alla verità. Il tempo dirà se la Chiesa Anglicana sarà in grado di risollevarsi, o se affonderà definitivamente nel suo declino.

 

Fonti:

•        Independent Inquiry into Child Sexual Abuse (IICSA), 2019

•        YouGov, 2020-2022

•        Chesterton, G.K. "Orthodoxy", 1908

•        Jenkins, Philip. "The Next Christendom", 2002

•        Alasdair MacIntyre. "After Virtue", 1981

 

“L’ultimo guardiano della verità (o quasi). Il giornalista tra vocazione e realtà” di Davide Romano

 


“Il giornalismo è stampa scritta in fretta, ma pensata per sempre”, diceva Arthur Miller. Mi piacerebbe davvero tanto che fosse così. La realtà però, caro Miller, oggi è che lo scriviamo in fretta, lo leggiamo ancora più in fretta e ci dimentichiamo di averlo letto prima di finire il caffè. Nel mare tumultuoso della società contemporanea, il giornalista dovrebbe essere l'ultimo baluardo della verità, ma ahimè, finisce più spesso come il primo a essere sbattuto fuori dalla porta della redazione quando arrivano gli sponsor.

Non è un mestiere per deboli di cuore, questo no. George Orwell lo aveva capito benissimo: “In un'epoca di inganni universali, dire la verità è un atto rivoluzionario”. E in effetti, dire la verità è quasi diventato uno sport estremo, con il giornalista che si trasforma in un moderno funambolo, camminando su una corda tesa fra l’idealismo e la bancarotta personale.

La stampa viene ancora definita il "quarto potere", ma a ben vedere, oggi pare più il "quarto debito". La crisi economica e la necessità di ingraziarsi questo o quel potente hanno trasformato molti giornalisti in autori di bollettini aziendali o, peggio, di manifesti elettorali camuffati. Ma Indro Montanelli ci aveva avvertiti: "Il giornalista non deve mai essere di sinistra, di destra o di centro. Deve solo essere dalla parte dei fatti". Parole dure e chiare come il suo sigaro. Eppure, oggi il giornalista sembra essere un povero cronista intrappolato in un castello di carte in rovina, costretto a servire troppe cause, tranne quella della verità.

Albert Camus, dal canto suo, vedeva nel giornalismo una missione etica: “Una stampa libera può, ovviamente, essere buona o cattiva, ma senza libertà, la stampa non sarà mai altro che cattiva”. Una verità scomoda, che però fa sbadigliare più di qualcuno, soprattutto nelle sale di redazione, dove le preoccupazioni ruotano più attorno ai click che ai contenuti. La libertà di stampa? Beh, quella la trovi ancora, ma nei vecchi archivi polverosi. O, se proprio va bene, nei libri di storia.

Nonostante tutto, qualcuno ancora resiste. Ci sono quelli come Anna Politkovskaja, che hanno pagato il prezzo più alto per difendere il diritto di raccontare la verità. Loro ci ricordano che il giornalista dovrebbe essere un eroe tragico, e invece spesso si ritrova a interpretare il ruolo dell'eroe comico, cercando di salvare il salvabile tra una telefonata del capo e l'ennesima richiesta del marketing.

Ah, la dignità del mestiere! Ciò che Hannah Arendt definiva come la "sfera pubblica", quel luogo sacro in cui l'informazione dovrebbe essere corretta, verificata, accessibile a tutti. Oggi, quella sfera è stata trasformata in un palloncino pubblicitario, gonfiato di falsità e pronto a scoppiare al primo contatto con la realtà. Ma il vero giornalista? Lui resiste. O almeno ci prova, finché qualcuno non gli fa notare che la verità non paga l'affitto.

Eppure, non dobbiamo cadere nel cinismo. Gabriel García Márquez amava dire che “il giornalismo è il miglior lavoro del mondo”. Certo, Gabriel, ma prova a dirlo a chi si ritrova a scrivere pezzi su come perdere peso in dieci giorni perché è il contenuto che "funziona meglio online". Il giornalista dovrebbe essere un costruttore di storie, un interprete di quel caos che chiamiamo realtà. Ma oggi, è più probabile che venga trasformato in un compilatore di liste o in un commentatore di meme.

Ryszard Kapuściński ammoniva: “Per essere un buon giornalista, devi essere una brava persona”. Verissimo, ma oggi la lista dei requisiti include anche: saper usare i social media, conoscere almeno un algoritmo, e soprattutto avere un contratto a tempo indeterminato. Cosa? Il contratto? Ah, scusate, quello era un sogno.

Il giornalismo dovrebbe essere una vocazione, come diceva Honoré de Balzac, una "grande catapulta preparata per andare più lontano". Eppure oggi sembra una fionda malandata, tesa tra la necessità di sopravvivere e la speranza di raccontare, ogni tanto, qualcosa che abbia un briciolo di verità.

E allora, come ci ricorda Joseph Pulitzer, “un giornalista è colui che può vedere nel buio”. Sì, certo, e con un po' di fortuna, potrà anche pagare la bolletta della luce.

 


“Da Washington a Biden, la fede dei presidenti Usa una bussola o un’arma politica?” di Davide Romano

 



L’America, che ha scritto il principio di separazione tra Stato e Chiesa nella sua Costituzione, non ha mai smesso di intrecciare la politica con la religione. Se ieri il giuramento dei presidenti avveniva con la mano su una Bibbia, la stessa scena si è ripetuta con Joe Biden, il secondo cattolico alla Casa Bianca, dopo John F. Kennedy. Ma cosa significa, oggi, parlare di fede in politica? E quanto è reale la devozione dei presidenti moderni?

 

Biden, cattolicesimo e compassione sociale

Partiamo dal presente. Joe Biden, presidente che non ha mai nascosto la sua profonda fede cattolica, si è trovato a guidare un’America più polarizzata che mai. La sua storia personale, segnata da lutti familiari e tragedie, lo ha avvicinato al lato umano e compassionevole del cattolicesimo. Non è raro vederlo partecipare alla messa o fare riferimento alla sua fede in discorsi pubblici. “La fede mi ha dato speranza e conforto quando ho perso mio figlio”, ha detto più volte.

Ma c’è chi accusa Biden di ipocrisia: mentre professa una fede profonda, il suo approccio politico su temi come l’aborto e i diritti LGBTQ è in conflitto con le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica. Qui emerge la tensione tra il cattolico Biden e il politico Biden, costretto a navigare tra le sue convinzioni personali e le richieste di un elettorato progressista.

 

Trump, l’evangelismo politico

Se Biden rappresenta il cattolicesimo compassionevole, Donald Trump è il campione del movimento evangelico conservatore, un gruppo che ha avuto un ruolo cruciale nel portarlo alla Casa Bianca. Eppure, la fede personale di Trump è sempre stata motivo di perplessità. Poche volte lo si è visto in chiesa, e raramente ha fatto riferimenti spirituali autentici.

Ma Trump ha saputo usare la religione come strumento politico. Con un linguaggio che mescolava patriottismo e fede, si è presentato come il difensore della “città sulla collina”, un riferimento biblico caro agli evangelici. “Nessuno ha fatto più di me per i cristiani in questo paese”, dichiarò una volta, enfatizzando le sue politiche anti-aborto e la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema. Se fosse autentica convinzione o pura strategia elettorale, è difficile dirlo. Di certo, la sua presidenza ha cementato l’alleanza tra la politica repubblicana e la destra religiosa.

 

Obama, fede personale, ma laica

Prima di Trump, Barack Obama, il primo presidente afroamericano, portò una visione più laica, ma comunque radicata nella fede. Anche se raramente si definiva un fervente praticante, Obama trovò nelle Scritture ispirazione per i suoi discorsi pubblici, spesso citando la Bibbia per parlare di giustizia sociale. “Sono il custode di mio fratello e di mia sorella ”, ripeteva, facendo eco al cristianesimo sociale che aveva appreso frequentando la chiesa di Chicago.

Ma la sua fede fu messa in dubbio sia da destra che da sinistra. La destra lo accusava di non essere abbastanza cristiano, insinuando addirittura che fosse segretamente musulmano, mentre la sinistra criticava il suo uso della religione per giustificare interventi sociali e militari. Obama camminava su un filo sottile: un presidente che parlava di fede, ma che cercava di tenere quella stessa fede fuori dalle sue decisioni politiche.

 

Bush e il ritorno della religione in politica

L’ascesa di George W. Bush segnò un punto di svolta nella storia recente della fede presidenziale. Bush, un convertito evangelico, un "nato di nuovo", fece della sua religione una parte integrante della sua politica. “Ho trovato Dio nei momenti di difficoltà”, dichiarò più volte, parlando della sua lotta con l’alcolismo e della sua rinascita spirituale.

Ma la sua fede non si fermava alla vita privata. Durante la presidenza, Bush invocò il nome di Dio per giustificare decisioni politiche cruciali, come la guerra in Iraq. “Il male deve essere sconfitto”, dichiarò, usando un linguaggio quasi biblico per definire la lotta al terrorismo. Tuttavia, la sua fusione tra religione e politica suscitò non poche critiche, anche tra i suoi stessi alleati, che temevano una deriva teocratica.

 

La fede dei presidenti

La fede dei presidenti americani, da Washington a Biden, passando per Trump e Obama, rimane una questione complessa e ambigua. È stata, per alcuni, una guida sincera nella vita e nella politica, per altri, uno strumento di potere. Sant’Agostino scriveva: “La fede è credere in ciò che non vedi; la ricompensa della fede è vedere ciò che credi”. Ma per i presidenti americani, quanta parte della loro fede è stata vera convinzione, e quanta semplice necessità elettorale?

Nell’America di oggi, sempre più divisa, la fede resta una bussola morale per alcuni e un’arma politica per altri.

“La Bibbia nella cultura americana, tra sacro e profano, un mito fondante” di Davide Romano

 



Se c’è un testo che ha influenzato profondamente la cultura americana, dalla politica alla letteratura, passando per la musica e il cinema, è la Bibbia. In un paese fondato su princìpi di libertà religiosa, paradossalmente la Bibbia ha attraversato ogni aspetto della vita pubblica e privata. Non si tratta solo di un testo religioso: per molti americani è un simbolo di identità nazionale, una bussola morale, e talvolta, uno strumento politico.

 

Le radici bibliche dell’America

La relazione dell’America con la Bibbia risale agli inizi della sua storia. Quando i Padri Pellegrini sbarcarono sulle coste del New England nel 1620, portarono con sé una visione del mondo fortemente influenzata dalle Scritture. John Winthrop, uno dei leader della colonia del Massachusetts, nel celebre sermone “A Model of Christian Charity” parlò di una "città sulla collina", un’immagine tratta dal Vangelo di Matteo (5:14), che divenne una metafora duratura per la missione divina dell’America.

“Siamo una nazione sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”, recita il Giuramento di fedeltà, aggiunto solo nel 1954, durante la Guerra Fredda, ma che rivela quanto la fede e il senso di destino abbiano sempre marcato la storia americana.

 

La Bibbia come mito fondatore

Alexis de Tocqueville, osservatore acuto della democrazia americana, scrisse nel suo classico “La democrazia in America” (1835): “Non ho mai visto un paese in cui la religione cristiana abbia una tale influenza sulla società quanto negli Stati Uniti. Nessun altro popolo sembra aver intrecciato così strettamente la fede con le sue istituzioni politiche”. Tocqueville notò che la Bibbia non solo era presente nelle case, ma anche nei tribunali, nelle scuole e, naturalmente, nei discorsi politici.

 

Letteratura e Bibbia, un matrimonio secolare

Il potere della Bibbia in America non si limita alla sfera religiosa. Scrittori come Herman Melville, Nathaniel Hawthorne e Mark Twain hanno tutti trovato nella Bibbia una fonte di ispirazione, e talvolta di satira. Melville, nel suo capolavoro Moby Dick, utilizza riferimenti biblici per descrivere la lotta epica tra l’uomo e il destino. L’ossessivo capitano Achab, nella sua caccia alla balena bianca, diventa un moderno Giobbe, ribellandosi contro un Dio silenzioso e crudele.

Mark Twain, sempre pungente, ironizzò: “La Bibbia contiene tesori inestimabili e le migliori cure per l’immaginazione, ma è come il vino di buona annata, deve essere presa con moderazione”. Twain era consapevole dell’influenza della Bibbia sulla cultura popolare, ma allo stesso tempo ne criticava l’uso strumentale da parte della politica.

 

La Bibbia come strumento politico

In effetti, pochi libri hanno avuto un peso così determinante nella politica americana quanto la Bibbia. Come osserva il politologo Kevin Kruse nel suo libro “One Nation Under God” (2015), la Bibbia è stata spesso usata per giustificare politiche di ogni sorta. Durante la Guerra Civile, sia i nordisti che i sudisti trovavano nelle Scritture giustificazioni per le loro rispettive cause. Abraham Lincoln, uno dei presidenti più legati alla fede, disse nel suo Secondo discorso inaugurale (1865): “Entrambe le parti leggono la stessa Bibbia e pregano lo stesso Dio, e ciascuno invoca il Suo aiuto contro l'altro”.

Ma se Lincoln usava la Bibbia per cercare una riconciliazione morale, altri hanno spesso usato il testo sacro per fini meno nobili. Franklin D. Roosevelt, in uno dei momenti più drammatici della Seconda Guerra Mondiale, citò il Salmo 91 in un discorso radiofonico del 1941, per rafforzare la fiducia della nazione nella vittoria: “Non temerai il terrore della notte, né la freccia che vola di giorno”. La Bibbia, dunque, non era solo un testo religioso, ma un potente strumento retorico.

 

Religione e diritti civili

Se la Bibbia è stata usata per giustificare la schiavitù, è anche vero che è stata l’arma più potente dei leader dei diritti civili. Martin Luther King Jr., pastore battista e leader del movimento, attingeva costantemente alle Scritture per sostenere la giustizia razziale. In uno dei suoi discorsi più noti, “I Have a Dream” (1963), King invocò l'immagine biblica di “ogni valle sarà colmata e ogni montagna e colle saranno abbassati” (Isaia 40:4), prefigurando una nuova era di uguaglianza e giustizia.

James Baldwin, scrittore afroamericano, in “The Fire Next Time” (1963), denunciò come la Bibbia fosse stata usata sia come strumento di oppressione che di liberazione. “L’eredità biblica è quella di un popolo in esilio”, scrisse Baldwin, suggerendo che la lotta degli afroamericani per i diritti civili fosse simile alla lotta del popolo ebraico per la liberazione.

 

Il declino della Bibbia?

E oggi? L’influenza della Bibbia nella cultura americana sembra diminuire in un’epoca di secolarizzazione crescente. Eppure, come osserva l’editorialista del New York Times Ross Douthat, “anche quando la fede si indebolisce, il linguaggio e i simboli della Bibbia restano profondamente radicati nella coscienza americana”. Anche la cosiddetta “guerra culturale” moderna, che vede contrapposti progressisti e conservatori, trova le sue radici in interpretazioni diverse del testo sacro.

La Bibbia, con le sue storie di creazione, distruzione e redenzione, è stata e rimane un pilastro della cultura americana. Ralph Waldo Emerson, filosofo e saggista del XIX secolo, scrisse: “La Bibbia è una delle opere più profonde e universali mai scritte, capace di parlare a ogni epoca e a ogni condizione umana”. Che venga letta con fede o con scetticismo, resta un testo imprescindibile per comprendere l'anima americana. E, come la nazione stessa, continua a suscitare dibattiti, ispirare sogni e, talvolta, alimentare conflitti.

 

“Il sogno di una nazione guidata dal dovere. Elogio dell’America puritana” di Davide Romano, giornalista

 


Parlare dell'America puritana, oggi, suona come un ossimoro in una nazione che ha fatto della libertà individuale, dell'edonismo e del consumo sfrenato i suoi pilastri. Eppure, alle radici di quel grande esperimento chiamato Stati Uniti d'America, c'è proprio l’etica puritana, la stessa che ha modellato il carattere di una nazione destinata a diventare una superpotenza. Un’etica che, seppur criticata e talvolta derisa, merita un elogio, non fosse altro che per aver forgiato lo spirito di sacrificio, disciplina e responsabilità collettiva che ha reso l’America ciò che è.

 

L’etica del lavoro: “La vocazione come dovere”

Non si può parlare di puritanesimo senza menzionare Max Weber, il filosofo e sociologo tedesco che nella sua opera L'etica protestante e lo spirito del capitalismo scrisse: “La ricerca del successo economico non è immorale, anzi, per i puritani è il segno della grazia divina”. Per i primi coloni puritani sbarcati nel Nuovo Mondo, il lavoro non era semplicemente un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma un dovere sacro, un modo per dimostrare a Dio che la loro vita aveva senso.

La "vocazione", nel senso weberiano, diventa la lente attraverso cui leggere il dinamismo economico e sociale degli Stati Uniti. I puritani non lavoravano per accumulare ricchezza fine a sé stessa, ma per glorificare Dio attraverso il loro impegno quotidiano. E fu proprio questa dedizione assoluta al lavoro a gettare le basi per quella straordinaria cultura imprenditoriale americana che, nel bene e nel male, ha conquistato il mondo.

 

La città sulla collina: “Una missione divina”

Quando John Winthrop, uno dei padri fondatori della colonia della Baia del Massachusetts, pronunciò nel 1630 il celebre discorso "A Model of Christian Charity", delineò una visione che avrebbe segnato per sempre l’identità americana: "Saremo come una città sulla collina. Gli occhi di tutto il mondo saranno su di noi". Per i puritani, l’America non era solo una terra di opportunità materiali, ma una missione divina. Il Nuovo Mondo doveva diventare un esempio morale per l’umanità, un luogo dove si praticava la giustizia, la carità e il rispetto delle leggi di Dio.

Questa visione millenarista, quasi profetica, ha continuato a riecheggiare nei secoli successivi, influenzando figure politiche come John F. Kennedy e Ronald Reagan, che hanno ripreso la metafora della "città sulla collina" per sottolineare la missione morale degli Stati Uniti nel mondo. Dietro la facciata del pragmatismo e della realpolitik, l'America non ha mai abbandonato l’idea di essere una nazione eccezionale, destinata a guidare il mondo non solo con il potere economico e militare, ma anche con i suoi principi etici.

 

La moralità della libertà: “La legge di Dio e quella degli uomini”

Per i puritani, la libertà era qualcosa di profondamente diverso da quella intesa nelle moderne democrazie liberali. Non era la libertà di fare tutto ciò che si desiderava, ma la libertà di fare ciò che era giusto. Come notò Alexis de Tocqueville nel suo classico La democrazia in America, “i puritani unirono in maniera straordinaria lo spirito della libertà e quello della religione”, creando un sistema in cui la legge civile rifletteva, almeno in teoria, la legge divina. In altre parole, la libertà non era mai disgiunta dal dovere.

Tocqueville rimase affascinato dall'idea che la libertà, per essere sostenibile, dovesse essere ancorata a una solida base morale. Il rischio di una libertà senza freni, ammoniva, sarebbe stata la disintegrazione sociale, un rischio che i puritani avevano ben compreso. La loro severa disciplina morale e religiosa fu, in questo senso, una salvaguardia contro gli eccessi di una libertà mal gestita. E sebbene l'America moderna abbia in gran parte abbandonato questo rigore puritano, la sua influenza si avverte ancora in molte istituzioni, dall'impegno per la giustizia sociale alla devozione per l'ordine costituito.

 

L’ironia del puritanesimo: “Peccatori nella mani di un Dio arrabbiato”

Ma il puritanesimo non era tutto rose e fiori. La severità morale dei padri pellegrini, con il loro ossessivo bisogno di purificare la comunità dai peccati, diede luogo a episodi inquietanti, come i processi alle streghe di Salem del 1692. Nathaniel Hawthorne, discendente di uno dei giudici di Salem, esplorò il lato oscuro del puritanesimo nel suo romanzo La lettera scarlatta, dove la protagonista, Hester Prynne, viene marchiata a vita per un peccato di adulterio. Hawthorne, come molti scrittori americani successivi, fu critico della rigidità puritana, ma al tempo stesso riconosceva che quella stessa rigidità aveva contribuito a costruire una società ordinata e rispettosa delle leggi.

E come dimenticare Jonathan Edwards, uno dei più influenti predicatori puritani del XVIII secolo? Nel suo sermone Peccatori nelle mani di un Dio arrabbiato, Edwards descrisse l’umanità come appesa a un filo sopra le fiamme dell’inferno, trattenuta solo dalla misericordia di un Dio che, per la maggior parte del tempo, sembrava tutto tranne che benevolo. L'ironia del puritanesimo è che, pur predicando la salvezza attraverso la grazia, riusciva a far sentire i fedeli come dei condannati già in vita, costretti a un’esistenza di penitenza e autocontrollo.

 

Il lascito puritano: “Un’eredità complessa”

Eppure, nonostante queste ombre, il lascito del puritanesimo americano è innegabile. Come sottolineò lo storico Perry Miller, "il puritanesimo è stato il motore segreto della cultura americana, una forza che, per quanto criticata e spesso rimossa dalla memoria collettiva, continua a plasmare la coscienza nazionale". L’etica del lavoro, il senso del dovere verso la comunità e la convinzione che l'America abbia una missione morale nel mondo sono tutte radici puritane che affondano nella storia e che, volenti o nolenti, ci accompagnano ancora oggi.

La grandezza dell’America puritana, dunque, non sta solo nelle sue virtù o nei suoi successi economici, ma nella sua capacità di tenere insieme libertà e responsabilità, individualismo e senso del dovere. Un equilibrio che, sebbene fragile, ha permesso alla nazione di crescere e prosperare. Forse è proprio questo che dobbiamo ricordare: l’America puritana non è un ricordo nostalgico di tempi passati, ma una lezione vivente di cosa significa costruire una società dove la libertà si coniuga con il dovere e la religione con la legge.


“Palermo è un ossimoro” di Davide Romano, giornalista

 


Palermo non è solo una città: è un ossimoro vivente, una contraddizione che respira e sopravvive da secoli, tra decadenza e rinascita, splendore e degrado. Se mai un luogo ha incarnato la filosofia dell’assurdo di Albert Camus, è qui, tra i vicoli del centro storico, sotto le cupole arabo-normanne e accanto ai ruderi delle dominazioni passate. Camus scrisse che «il vero atto di ribellione è vivere nonostante l’assurdo», e i palermitani, da millenni, hanno trasformato questa massima in un codice di vita. Palermo è una città che vive nonostante se stessa, nonostante le sue ferite, e forse, proprio per questo, riesce a sopravvivere con una grazia e una bellezza che sfidano ogni logica.

 

La città dove tutto è il contrario di tutto

Palermo è il luogo dove la logica si piega alle regole di una politica tanto complessa quanto ineffabile. Giulio Andreotti diceva che «il potere logora chi non ce l’ha», e qui questa frase suona quasi come un aforisma inscritto nel DNA collettivo. A Palermo, il potere non si logora mai: muta, si adatta, ma resta sempre nelle mani di chi sa come gestirlo, come manipolarlo. Il vero potere, qui, non è una questione di titoli o cariche ufficiali, ma di reti informali, di compromessi segreti, di favori silenziosi scambiati sotto il tavolo.

Eppure, il potere a Palermo non si limita al livello politico. C’è un potere più profondo, più viscerale, che permea ogni aspetto della vita cittadina: il potere dell’abitudine, della rassegnazione, di un sistema che resiste al cambiamento con la forza dell’immobilismo. Leonardo Sciascia, che di Palermo non era ma che della Sicilia conosceva ogni ombra, scriveva: «In Sicilia il potere non si manifesta mai apertamente, ma si insinua come una malattia nascosta, contagia senza che te ne accorga». È proprio questa invisibilità del potere che rende Palermo una città sospesa, dove il cambiamento sembra impossibile e il presente è una perpetua ripetizione del passato.

 

La politica al sapore di cannella e cenere

A Palermo, la politica è un piatto complesso, condito con spezie antiche, aromi che mescolano il profumo dolce della cannella con l’amarezza della cenere. Ogni decisione politica sembra un gioco di prestigio, dove ciò che è visibile non è mai ciò che conta davvero. Ogni riforma è un passo indietro mascherato da progresso, ogni promessa un’illusione destinata a evaporare con il calore del sole siciliano.

Non è un caso che Palermo sia il teatro ideale per osservare la politica italiana in tutta la sua tragicomica complessità. Come disse una volta Benedetto Croce, «la politica è un’arte che deve essere esercitata con grande misura, ma a Palermo sembra essere una farsa recitata senza copione». Una farsa, sì, ma con attori consumati, capaci di trasformare ogni crisi in una nuova occasione per consolidare il proprio potere.

E tuttavia, Palermo è anche il luogo dove si può ancora sognare. Dove, in mezzo alle macerie di una città che pare non voler mai risorgere completamente, si intravede sempre una scintilla di speranza. Lo scrittore e giornalista Mario Praz diceva che «le rovine di una città antica contengono l'anima stessa del passato», e a Palermo le rovine non sono solo quelle materiali, ma anche quelle umane, politiche, sociali. Eppure, in queste rovine, c’è una bellezza che resiste, una dignità che non può essere cancellata.

 

La bellezza insopportabile

Se c’è una cosa che Palermo offre in abbondanza, è la bellezza. Ma è una bellezza che non può essere contemplata senza una certa dose di dolore. Guardare la Cattedrale normanna, con le sue torri arabeggianti e il suo fascino decadente, è come ammirare un’opera d’arte che si sta lentamente sbriciolando sotto i tuoi occhi. Palermo è una città che ti seduce con la sua architettura, ti affascina con i suoi scorci mozzafiato, ma allo stesso tempo ti lascia un senso di perdita, di opportunità mancate.

George Orwell, osservando le rovine della guerra, disse: «Ogni cosa preziosa è sempre sull’orlo della distruzione». A Palermo, questa verità è visibile in ogni angolo. I palazzi storici, magnifici nella loro decadenza, sembrano sempre sull’orlo del crollo. La bellezza a Palermo è una cosa fragile, precaria, ma proprio per questo irresistibile. È una bellezza che ti costringe a fare i conti con la caducità, con l’inevitabile passare del tempo, con la morte che si insinua silenziosamente in ogni pietra.

 

L’arte di sopravvivere al destino

I palermitani, però, sono maestri nell’arte della sopravvivenza. In una città dove tutto sembra costantemente sul punto di cadere a pezzi, c’è una resilienza che sfida ogni previsione. Palermo è una città che si adatta, si reinventa, sopravvive a se stessa. Come scriveva Luigi Pirandello, «l’arte di arrangiarsi è la vera filosofia di vita in Sicilia». Qui, l’arte di arrangiarsi è più che una strategia di sopravvivenza: è una forma di resistenza, un modo di affermare la propria identità in un mondo che sembra volerti cancellare.

Ma a Palermo non ci si limita a sopravvivere: si vive con passione, con un’intensità che è unica nel suo genere. La vita qui è un teatro, e i palermitani sono attori consumati, capaci di improvvisare in ogni situazione. Jean-Paul Sartre avrebbe amato Palermo per il suo spirito esistenziale, per la sua capacità di affrontare l’assurdo con un sorriso ironico e una battuta pronta. Palermo è una città dove nulla è certo, ma dove tutto è possibile.

 

Una conclusione dolce-amara

Eppure, nonostante tutto questo caos, Palermo resta. Resta nei cuori di chi la vive, di chi la ama e di chi la odia. Palermo è una città che ti entra dentro, che ti avvolge con il suo caldo abbraccio e non ti lascia più andare. È una città che ti fa soffrire, ma che, allo stesso tempo, ti fa innamorare della sua complessità, della sua bellezza nascosta, della sua anima tormentata.

Come diceva Leonardo Sciascia: «In Sicilia, il sole splende sempre, ma è un sole che illumina le ombre». Palermo è la città delle ombre, delle contraddizioni, dei paradossi. È una città che ti affascina e ti frustra, che ti riempie di meraviglia e di amarezza. È una città che vive nell’eterno presente, incapace di cambiare, ma sempre pronta a sorprendere.

Palermo è un mistero, una sfida, una promessa non mantenuta. Ma è proprio questa incompiutezza che la rende unica. Come una sinfonia interrotta, una poesia senza finale, Palermo ti lascia sempre con la sensazione che qualcosa di grande, di straordinario, potrebbe ancora accadere. Forse è proprio questo il suo fascino: l’eterna attesa di una rinascita che non arriva mai, ma che, nel suo ritardo, ci regala la struggente bellezza del sogno irrealizzato.

martedì 10 settembre 2024

"La Verità sotto una pila di libri (e dove metterla prima che crolli tutto)" di Davide Romano, giornalista

 


Il mio primo impatto con i libri è stato un incontro fatale, quasi un colpo di fulmine. Mio nonno materno, che non parlava mai di sé, ma lasciava che i suoi libri parlassero per lui, mi aprì le porte della sua biblioteca come un sacerdote che introduce il novizio al mistero. Immaginate scaffali che parevano sostenere l’intera volta celeste, poltrone di pelle consunta da anni di letture e silenzio, e un ragazzino che, piuttosto che correre dietro a un pallone, si trovava incastrato tra tomi più grandi di lui. Se qualcuno mi avesse detto che quel giorno sarebbe stato l'inizio di un'ossessione, non gli avrei creduto. Eppure eccomi qui, con una casa trasformata in una succursale della biblioteca nazionale e il costante problema di dove infilare l’ennesimo volume.

Ogni volta che entro in una libreria – o che ci entravo, perché ora rischio di essere portato via con la camicia di forza – sento lo stesso richiamo di allora. La differenza è che, ai tempi, mio nonno mi regalava i suoi libri; ora invece sono io a sacrificare stipendi, spazi vitali e, talvolta, anche rapporti umani per far entrare in casa l’ennesimo libro. Perché sì, non è mai “un libro in più,” è sempre l’ultimo. Questo mi ripeto, mentre devo decidere se piazzare Kierkegaard sullo sgabello o smontare il lampadario per fare spazio a una nuova pila. D’altronde, diceva Montaigne: "Mi considero felice se ho un libro sotto mano". Io però non ne ho solo uno, ne ho diecimila. Più che felice, ormai sono sepolto.

La cosa ironica è che ogni volume acquistato è frutto di un calcolo, di una necessità quasi metafisica. "Questo mi servirà per capire meglio l’esistenzialismo russo." "Questo altro è perfetto per completare la mia collezione di commentari biblici." "Questo? Beh, non posso non avere questo, no?" Mi giustifico con citazioni bibliche e filosofiche. "Molto studio affatica il corpo" (Ecclesiaste 12:12), ma tanto il corpo lo uso giusto per spostare i libri da un angolo all’altro. L’ultimo episodio comico è stato quando ho dovuto dormire in posizione fetale, circondato da volumi di Heidegger e Sant’Agostino, come un anacoreta circondato dalle sue reliquie. Almeno loro, però, avevano lo spazio per respirare.

Si potrebbe pensare che questa ossessione per la carta sia il segno di una mente smarrita. Non nego che, a tratti, sembra così anche a me. Qualche anno fa, mentre stavo organizzando un’intera sezione della mia biblioteca in base all’ordine alfabetico degli autori – un atto di megalomania pura – mi resi conto di essere diventato una specie di governante della mia follia. Ogni volta che trovo un libro fuori posto, sento un fastidio quasi fisico, come se quel disordine minasse la ricerca della verità che mi perseguita da sempre. E qui entra il paradosso: accumulo libri in cerca di verità, ma ogni volta che ne apro uno, non trovo che nuove domande. "Chi cerca trova", sì, ma qui si trova solo altro da cercare.

E mio nonno? Lui rideva sotto i baffi, lo vedo ancora, mentre mi porgeva quel suo volume di Dante, con un’espressione che sembrava dire: “Ti stai cacciando in un bel guaio, ragazzo.” Aveva ragione. È iniziato tutto con la Divina Commedia, e ora mi trovo in un inferno cartaceo dal quale non riesco più a uscire. Il mio amico Leopardi – che occupa un intero scaffale, tra l’altro – diceva che la felicità è un miraggio, un desiderio che non si realizza mai del tutto. E io, collezionando libri, ho solo ingrandito quel miraggio.

Forse è vero, come dice Pascal, che "non cercheresti Dio se non lo avessi già trovato." Ma tra diecimila libri, Dio lo trovo solo tra le pagine, e ogni volta si nasconde un po’ più in là. Continuo a comprare, continuo a leggere, continuo a cercare. Chissà, forse un giorno troverò la Verità nascosta sotto l’ennesima pila di libri, proprio mentre la mia casa crolla su se stessa sotto il peso di tutto questo sapere. E in fondo, non sarebbe neanche la peggiore delle fini.

“Politici e donne. Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo” di Davide Romano, giornalista


 

Ogni volta che un politico viene coinvolto, a vario titolo, in uno scandalo di natura sessuale, i media ci si buttano a capofitto come se fosse la prima volta. E non mi riferisco soltanto all’affaire  Sangiuliano (non più ministro) – Boccia (giammai consulente).

Se c’è, infatti, una costante nella storia del potere, è il fatto che i politici, uomini spesso di grande influenza e visione, ma anche no, abbiano un punto debole non trascurabile: le donne. L’eterno gioco di seduzione tra politica e femminilità ha prodotto scandali che vanno dall’antica Roma fino alla Casa Bianca. Perché, diciamolo chiaramente: mentre i politici cercano di risolvere i problemi del mondo, spesso i loro veri guai iniziano sotto le lenzuola.

 

Cesare e Cleopatra. Il primo scandalo internazionale

Cominciamo con Giulio Cesare, che non solo si dedicava a conquistare terre e popoli, ma anche cuori. E che cuori! La storia con Cleopatra è uno degli intrighi più famosi della storia. Non si trattava solo di politica: Cesare, uomo di visione e strategia, si trovò affascinato dalla regina egiziana, donna astuta e affascinante. Quando la portò a Roma, l’intera città sussurrava di scandali. Certo, Cesare era già sposato, ma chi avrebbe potuto resistere alla tentazione di una regina che si avvolgeva in un tappeto per entrare nelle sue stanze?

 

Enrico VIII, l’uomo delle sei mogli e delle innumerevoli amanti

Passiamo poi a Enrico VIII d’Inghilterra, un re per cui le donne non erano solo una passione, ma un’ossessione. Il buon Enrico, noto più per il suo appetito sessuale che per le sue capacità diplomatiche, ebbe sei mogli, innumerevoli amanti, ma solo perché continuava a decapitare o divorziare da quelle che non gli piacevano più. Come dimenticare il suo drammatico divorzio da Caterina d'Aragona che portò allo scisma con la Chiesa cattolica? Alla fine, Enrico si ritrovò solo e ingrassato, vittima delle sue stesse pulsioni. L’ironia è che la donna per cui sacrificò tutto, Anna Bolena, finì anch’essa decapitata.

 

Napoleone e Giuseppina, l’imperatore innamorato

Napoleone Bonaparte, che conquistò mezzo mondo e si autoproclamò imperatore, si ritrovava debole come un bambino davanti a Giuseppina. Nonostante la sua pretesa di essere un uomo di ferro, il piccolo corso scriveva lettere infuocate alla sua amata, pieni di una passione quasi adolescenziale. Eppure, Giuseppina non era esattamente l’immagine della fedeltà. Napoleone, dopo averle perdonato tradimenti e bugie, finì per divorziare da lei. “Se non posso avere la sua fedeltà,” avrebbe detto, “avrò almeno la Francia”. La verità è che, anche con una corona in testa, il cuore è sempre più vulnerabile della spada.

 

Kennedy e Marilyn, la caduta del re americano

Arriviamo poi al XX secolo, e qui gli scandali si moltiplicano. John F. Kennedy, il presidente che incarnava il sogno americano, aveva un debole ben noto per le belle donne. Tra tutte, la sua relazione con Marilyn Monroe è la più iconica. Quando la bionda più famosa di Hollywood cantò “Happy Birthday, Mr. President” con una sensualità che si poteva quasi toccare, l’America intera capì che qualcosa bolliva in pentola. Certo, JFK era sposato con la sofisticata Jacqueline, ma si sa: il potere seduce, e il potere assoluto... beh, seduce assolutamente. Il resto della storia si è perso tra le pieghe dei segreti di Stato e le copertine patinate.

 

Clinton e Lewinsky e l’affaire dei sigari

Ma se c’è uno scandalo che ha segnato gli anni '90, è quello di Bill Clinton e Monica Lewinsky. Il presidente democratico, noto per il suo carisma e le sue doti oratorie, si trovò travolto da uno scandalo sessuale che fece tremare la Casa Bianca. “Non ho avuto rapporti sessuali con quella donna,” dichiarò davanti a una nazione intera, solo per essere smentito poco dopo. Un sigaro, un vestito macchiato e un’impeachment sfiorato: questa è la sintesi di uno dei casi più imbarazzanti della politica moderna. E se Clinton alla fine salvò la presidenza, il suo matrimonio non ne uscì altrettanto illeso.

 

Silvio Berlusconi e il bunga bunga nazionale

Ah, e non possiamo certo dimenticare il nostro Silvio nazionale. Berlusconi, l’uomo che ha reso lo scandalo quasi una prassi di governo, è passato alla storia non solo per le sue leggi ad personam, ma soprattutto per le famigerate feste “bunga bunga”. Tra soubrette, starlette e minorenni, Berlusconi ha trasformato Villa San Martino in una sorta di corte rinascimentale, con tanto di harem. “Meglio guardare le belle ragazze che essere gay,” disse una volta, con quell’ironia tutta sua che, se non altro, strappava un sorriso persino ai suoi detrattori. Alla fine, il Cavaliere ha pagato caro il prezzo del suo stile di vita, ma lo scandalo? Quello non lo ha mai scalfito davvero.

 

Macron e Brigitte,  l’amore fuori dalle convenzioni

Non tutti gli scandali, però, riguardano tradimenti o relazioni torbide. Prendiamo il caso di Emmanuel Macron, il giovane presidente francese, e la sua relazione con Brigitte, sua ex insegnante e di 25 anni più grande di lui. La Francia, inizialmente scioccata dalla differenza d’età, ha imparato ad accettare l’idea che un uomo possa innamorarsi di una donna matura senza che questo debba essere considerato uno scandalo. Macron ha sfidato le convenzioni sociali e, in un certo senso, ha dimostrato che anche in politica c’è spazio per amori autentici e fuori dagli schemi. Ma lo scandalo? Quello è rimasto solo nei pettegolezzi di corridoio.

 

Il potere e il fascino del proibito

In fondo, come diceva Montanelli, “Il potere è afrodisiaco”. I politici, così come i grandi conquistatori del passato, non riescono a resistere al fascino delle donne. È una combinazione letale: da una parte la tentazione del proibito, dall’altra l’ebbrezza del potere. Ogni volta che un politico cede alle sue debolezze, la stampa e l’opinione pubblica si scatenano, ma sotto sotto lo sappiamo: non ci stupiamo davvero. Perché, alla fine, l’eterno scandalo tra politici e donne non è altro che una dimostrazione del fatto che, per quanto potenti possano essere, restano sempre e comunque umani, con tutte le loro debolezze e fragilità. Perché alla fine, come dice il proverbio, tira sempre più un capello di donna… 


“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...