sabato 31 agosto 2024

“Alla ricerca dell’unità perduta. Perché Oriente e Occidente cristiani devono tornare a dialogare e a incontrarsi” di Davide Romano, giornalista

 




C’è qualcosa di irresistibile nel fascino dell’Oriente Cristiano, una sorta di incanto che mi prende ogni volta che mi immergo nella storia e nella spiritualità di quei luoghi antichi e misteriosi. È un’attrazione che nasce non solo dalla bellezza delle liturgie, dalle icone che sembrano vivere, o dai canti che risuonano come un eco dell’eternità, ma da un senso di profondità spirituale che, purtroppo, abbiamo in gran parte perduto qui in Occidente.

L'Oriente Cristiano è una finestra aperta sull'infinito, una porta socchiusa che lascia intravedere il mistero di Dio e la bellezza della fede incarnata. Eppure, questa ricchezza spirituale non è un tesoro esclusivo, riservato a pochi eletti. Anzi, è un patrimonio che appartiene all'intera cristianità, a quella Chiesa che, come ci ricorda San Paolo, è “un solo corpo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione” (Efesini 4:4).

Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché questo senso di separazione, di distanza, tra Oriente e Occidente? Perché quella che era una sola Chiesa, unita nella fede e nei sacramenti, è stata spezzata, frammentata, da divisioni che sembrano insormontabili?

Qui, forse, si cela la tragedia della storia umana, quella tendenza innata dell'uomo a creare barriere, a erigere muri anziché costruire ponti. Eppure, l’attrazione per l’Oriente Cristiano non è soltanto il richiamo di una bellezza antica, ma anche la nostalgia di un'unità perduta, il desiderio di ricomporre ciò che l’orgoglio e l’incomprensione hanno spezzato.

“La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio,” scriveva Sant’Ireneo di Lione, uno dei grandi Padri della Chiesa. E in questa visione di Dio, non c’è distinzione tra Oriente e Occidente, tra Greco e Latino, tra Romano e Bizantino. Tutti sono chiamati a contemplare il volto di Cristo, tutti sono invitati a partecipare alla sua gloria. Ma per farlo, occorre superare le divisioni, ritrovare l’unità che era il segno distintivo della Chiesa primitiva.

Pensiamo, per esempio, alla profondità teologica dell'Oriente, alla sua capacità di penetrare nei misteri divini con una finezza e una sensibilità che spesso mancano all'Occidente, troppo spesso concentrato su aspetti più razionali e giuridici della fede. L'Oriente ci ricorda che la teologia non è solo una scienza, ma una forma di preghiera, un atto di adorazione. “La vera teologia è quella che si fa in ginocchio,” diceva Evagrio Pontico, uno dei grandi monaci del deserto. E questa teologia in ginocchio, questo approccio contemplativo e mistico alla fede, è qualcosa di cui l'Occidente ha un bisogno disperato.

Ma l'Occidente non ha solo da ricevere. Ha anche molto da offrire. Ha sviluppato una spiritualità dell'incarnazione, dell'azione, del coinvolgimento nel mondo, che è altrettanto importante e complementare alla spiritualità orientale. San Benedetto da Norcia, con il suo “Ora et labora,” ha dato vita a un modello di vita cristiana che unisce preghiera e lavoro, contemplazione e azione, creando una sintesi che ha plasmato la civiltà occidentale. E questa sintesi, questa capacità di unire cielo e terra, è qualcosa che potrebbe arricchire profondamente anche l'Oriente.

C'è una bellezza particolare nel pensiero che l'Oriente e l'Occidente, come due polmoni di un unico corpo, possano respirare insieme, ognuno apportando all'altro ciò che gli manca. “Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero” (Matteo 11:30), dice il Signore, e forse è proprio questo il giogo che dobbiamo accettare: il giogo dell'unità, che non è uniformità, ma comunione nelle diversità.

I Padri della Chiesa avevano una visione profondamente unitaria della fede cristiana. San Giovanni Crisostomo, la cui Divina Liturgia è il cuore della spiritualità bizantina, parlava dell'Eucaristia come del “vincolo della carità”, il sacramento che unisce i cristiani in un solo corpo. E Sant'Agostino, dall'altra parte dell'Impero, predicava che “dove c’è carità e amore, lì c’è Dio.” Questi due giganti della fede, pur appartenendo a tradizioni diverse, erano uniti nella convinzione che l'amore è il fondamento della Chiesa e che solo nell'amore si può ritrovare l'unità.

L'Oriente Cristiano, con la sua resistenza contro le intemperie della storia, contro le invasioni, le persecuzioni, i tentativi di omologazione, ci offre una lezione preziosa: quella della perseveranza nella fede. “Siate saldi e irremovibili, sempre abbondanti nell’opera del Signore” (1 Corinzi 15:58), ci esorta San Paolo, ricordandoci l'importanza di non cedere di fronte alle difficoltà.

L'Occidente, con la sua capacità di riflessione teologica, la sua spiritualità dell'incarnazione, può offrire all'Oriente un aiuto prezioso per affrontare le sfide del presente. Ma solo se entrambi i mondi sanno riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, e accettano di imparare l'uno dall'altro.

Ricomporre l’unità perduta tra Oriente e Occidente non è solo un imperativo ecumenico, ma una necessità spirituale per la Chiesa del terzo millennio. “Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te; siano anch'essi uno in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17:21). Queste parole di Gesù, pronunciate durante l’Ultima Cena, sono un richiamo potente a ritrovare quell'unità che è il segno distintivo del cristianesimo.

Il cammino verso l'unità non sarà facile. Richiederà umiltà, pazienza, e soprattutto, una grande capacità di ascolto reciproco. Ma ne vale la pena. Perché solo unendo le ricchezze spirituali dell'Oriente e dell'Occidente potremo riscoprire la pienezza della fede cristiana, quella fede che, come diceva San Basilio, “è il dono più prezioso che l'uomo può ricevere da Dio.”

In un mondo sempre più disorientato e privo di punti di riferimento, riscoprire l’Oriente Cristiano è un po’ come ritrovare una bussola perduta. Ma non basta. È necessario anche riconciliare quella bussola con le tradizioni occidentali, creando un dialogo vivo e fecondo che possa arricchire entrambe le parti. Solo così potremo sperare di ricomporre l’unità perduta, di guarire le ferite del passato e di costruire una Chiesa che, pur nelle sue diversità, sia veramente una, santa, cattolica e apostolica.

 

martedì 27 agosto 2024

“Quando incontrai Madre Teresa di Calcutta” di Davide Romano, giornalista

Avevo circa vent'anni quando incontrai per la prima volta Madre Teresa di Calcutta, un incontro quasi casuale, ma che avrebbe lasciato un segno profondo nella mia vita. Ero uno studente a Roma, immerso nei miei studi, sempre alla ricerca di risposte tra le pagine dei libri. Un giorno, mentre mi trovavo al monastero del Celio, dove le suore avevano una casa, ebbi l’opportunità di incontrare questa donna straordinaria. Piccola di statura, quasi fragile, ma con una presenza che riempiva l'intera stanza, Madre Teresa mi colpì subito per la sua umiltà e serenità. Le sue parole erano semplici ma cariche di un significato che andava oltre la loro apparente banalità: “Non è tanto quello che facciamo, ma quanto amore mettiamo nel farlo”. Da quel momento, capii che c'era una profondità nella vita che i libri non potevano insegnare.


Ma quell'incontro non fu il solo. Roma, con le sue chiese e i suoi luoghi di culto, era spesso teatro di cerimonie religiose alle quali, da buon studente curioso, partecipavo. E fu in queste occasioni che i miei cammini si incrociarono nuovamente con quelli di Madre Teresa. Era presente a diverse celebrazioni, sempre con quella sua straordinaria capacità di passare inosservata e allo stesso tempo riempire l’ambiente con la sua aura di santità.


Ricordo una messa solenne in particolare, celebrata in una chiesa vicino al Vaticano. La chiesa era gremita di fedeli, eppure, nonostante la folla, Madre Teresa sembrava riuscire a raggiungere ognuno di noi con il suo sguardo. Dopo la cerimonia, ebbi la fortuna di scambiare qualche parola con lei. Questa volta, mi disse: “La pace comincia con un sorriso”. Non era solo un invito a vivere con leggerezza, ma un richiamo profondo a cercare la serenità in ogni gesto, anche il più piccolo. Le sue parole erano un balsamo per l'anima, un promemoria che anche nelle piccole cose si trova la vera essenza della vita.


Ogni volta che la incontravo, che fosse in una messa, una funzione o una semplice preghiera, Madre Teresa aveva sempre una parola di conforto, una frase che rimaneva impressa nella mia mente. In una delle ultime cerimonie a cui partecipai, mi avvicinai di nuovo a lei, e lei, riconoscendomi, mi disse: “Fai le piccole cose con grande amore”. Quel semplice consiglio, apparentemente insignificante, divenne per me una guida nel mio cammino personale e professionale.


Con il passare degli anni, ho capito quanto questi incontri siano stati importanti per la mia crescita. Madre Teresa non era solo una figura lontana, una santa in vita, ma una presenza tangibile che, attraverso le sue parole e il suo esempio, mi ha insegnato il vero valore dell’umiltà, dell’amore e del servizio agli altri. Anche oggi, ripensando a quei momenti, sento la forza di quei suoi insegnamenti, e mi rendo conto di quanto siano stati fondamentali nel formare la persona che sono diventato.


Roma, con i suoi monumenti e le sue antiche tradizioni, è stata testimone di questi incontri. Ma più di ogni altra cosa, è stata la cornice in cui ho avuto il privilegio di incontrare una delle anime più luminose del nostro tempo. Quei ricordi, le sue parole, rimarranno per sempre impressi nella mia memoria, come un faro che illumina il cammino nei momenti di dubbio e difficoltà.


“Perché, in fondo, a noi la mafia ci piace!” di Davide Romano, giornalista




Alla fine del meraviglioso film "I cento passi" su Peppino Impastato, c’è una frase che mi colpisce ogni volta che vedo un politico, di quelli in odor di mafia – un fetore che, chissà perché, nessuno sembra più sentire – che si pavoneggia davanti alle telecamere. È lo sfogo di Salvo Vitale, amico di Peppino, in diretta su Radio Aut, subito dopo l’assassinio di quest'ultimo. La sua dichiarazione ha una crudezza che risuona ancora oggi: “E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Non perché ci fa paura, ma perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia! E tu, Peppino, non sei stato altro che un povero illuso! Sei stato un ingenuo, un 'nuddu miscato cu' niente!'”

Questa frase squarcia il velo di ipocrisia con una brutalità disarmante, mettendo a nudo un’amara verità: in fondo, la mafia è un’istituzione ben accetta e consolidata nella nostra cultura, e i tentativi di combatterla spesso sembrano scontrarsi con un’ampia complicità di fondo e, purtroppo, non solo in Sicilia ma nell’interno Paese.

Benvenuti nel paradosso italiano, dove la mafia è un po' come il vino: più invecchia, più diventa pregiata. Nella nostra terra di santi e di eroi, di commemorazioni e di festeggiamenti, c’è un bel mistero da svelare. Mentre innalziamo monumenti e celebriamo con fervore le vittime della mafia, ci troviamo a eleggere, con una disinvoltura da far invidia al miglior prestigiatore, personaggi con legami più o meno nascosti con il crimine organizzato. Che meraviglia di coerenza, non è vero

Ogni anno, le celebrazioni per le vittime della mafia sono quasi religiose. Le strade si riempiono di manifestazioni, le scuole parlano di loro come di santi, e i media si scatenano in reportage agiografici. Gli eroi caduti sono celebrati con una solennità che farebbe impallidire persino i protagonisti delle più epiche storie bibliche. Ma, ironicamente, questo culto di superficie sembra servire più a sollevarci dalla nostra coscienza collettiva che a promuovere un vero cambiamento. Come ha scritto Roberto Saviano, “Abbiamo costruito un mausoleo per le vittime, ma i veri templi di culto sono le urne elettorali dove scegliamo i loro assassini”.

La retorica e la pompa delle celebrazioni sono più uno sport nazionale che un impegno reale. La nostra predilezione per il rito del ricordo ci permette di addormentarci sul cuscino della nostra apparente moralità, mentre il vero lavoro – combattere la mafia in modo incisivo e costante – viene rimandato a un futuro indefinito.

E qui viene il bello. Per ogni commemorazione di un martire della mafia, abbiamo una schiera di candidati con amici poco raccomandabili o con carriere torbide. Un fenomeno così unico che quasi ci si aspetterebbe un premio Nobel per la coerenza nella schizofrenia politica. D’altra parte, è anche un fatto curioso che mentre sventoliamo bandiere per le vittime, molte elezioni locali e nazionali vedono l’elezione di personaggi notoriamente imparentati con la criminalità organizzata. La Sicilia, regina incontrastata di questa contraddizione, è un caso emblematico.

Daniele Luttazzi ha descritto questa situazione con un lampo di saggezza sarcastica: “In Italia, il culto dei martiri e la promozione dei mafiosi non sono semplicemente compatibili; sono complementari. L'uno senza l'altro non potrebbe esistere”. Certo, mentre stringiamo la mano ai familiari delle vittime e cantiamo in coro “Bella ciao”, è incredibile vedere come lo stesso elettorato voti per quelli che hanno forse studiato il manuale di come ingrassare il potere mafioso.

Siamo un popolo straordinario: adoriamo le vittime e facciamo di tutto per dimenticare i complici. Questo sistema di doppio standard è un trionfo di ipocrisia, una forma d’arte che ci ha resi famosi in tutto il mondo. Non solo accettiamo i mafiosi nella politica, ma ci troviamo anche a sorprenderci quando le elezioni non vanno esattamente come ce lo saremmo aspettati. È come se avessimo un occhio per la condanna pubblica e l’altro per il segreto appoggio a chi la mafia la fa funzionare. Che bellezza!

Tiziana Ferrario ha catturato perfettamente l’essenza di questa paradossale commedia: “La mafia in Italia è come un virus che non solo infetta il corpo politico, ma che trova anche terreno fertile in una società che applaude i suoi martiri e chiude un occhio sui suoi attivi sostenitori”. Questo è il trucco di magia più ingegnoso: un popolo che canta “Libertà” e si preoccupa di sistemare tutto il resto con la stessa nonchalance con cui si aggiusta una cravatta.

I media italiani sono maestri nell’arte del dramma e della distorsione. I film e i programmi televisivi che glorificano la mafia non fanno altro che perpetuare la visione romantica del crimine organizzato. Non è solo una questione di raccontare storie; è un modo per rendere il crimine sexy, affascinante, quasi irresistibile. La mafia diventa una sorta di anti-eroe, e il pubblico, complice inconsapevole, continua a tifare per il cattivo che ama a dispetto della sua malvagità.

Leonardo Sciascia non ha risparmiato critiche a questa deformazione: “Il vero danno è che la mafia non solo corrompe, ma si glorifica attraverso una narrazione che la trasforma da mostro in mito”. I media non solo raccontano il crimine, ma lo vendono come se fosse il miglior prodotto sul mercato, mentre la nostra società, affascinata e distratta, continua a credere nella farsa.

In conclusione, il nostro Paese vive una commedia dell’assurdo dove la celebrazione delle vittime e la promozione dei complici della mafia sono due facce della stessa medaglia. Questa schizofrenia collettiva non è solo un fastidioso paradosso; è una tragedia che riflette il nostro fallimento nel confrontarci con la realtà. Se vogliamo davvero onorare le vittime della mafia, dobbiamo smettere di eleggere i loro assassini. È tempo di svegliarsi e di smettere di accontentarci di una coscienza pulita che, in realtà, è sporca di compromessi e ipocrisie.

Dobbiamo smettere di applaudire i martiri mentre tacitamente accettiamo i loro avversari. Solo allora potremo sperare di costruire una società che non sia solo brava a piangere sui morti, ma anche capace di combattere e vincere contro il male che continua a corromperla.

 

lunedì 26 agosto 2024

“Fufu e polenta. Perché a tavola nessuno è straniero”. Un racconto di Davide Romano, giornalista

 



 

A Borgo Vecchio, un minuscolo paese circondato da colline verdi e filari di viti, non succedeva mai nulla di straordinario. Le giornate scorrevano tranquille, tra il campanile che batteva le ore e il profumo del pane appena sfornato che si diffondeva per le strade strette. Era un posto dove le novità arrivavano come il treno del pomeriggio: lentamente e con molte fermate.

Eppure, un mattino di fine estate, il tranquillo equilibrio del paese venne sconvolto dall'arrivo di una famiglia "straniera". Straniera, per i paesani, voleva dire chiunque venisse da più lontano di Parma, ma questa volta, il forestiero era addirittura un uomo dalla pelle scura, con una moglie dagli occhi a mandorla e due bambini che parlavano una lingua musicale e misteriosa.

Il sindaco, il ragionier Bertolini, che aveva ereditato la carica come si eredita un vecchio ombrello bucato, venne subito assalito da richieste e lamentele. La maestra Loredana, con un tono che non ammetteva repliche, voleva sapere come avrebbe dovuto gestire quei bambini "esotici" nella sua aula; il parroco, Don Peppino, si chiedeva se avrebbe dovuto insegnare loro il catechismo; e il macellaio, il signor Amadeo, era preoccupato che avrebbero chiesto carne "strana", compromettendo la reputazione della sua macelleria.

Ma fu l'oste del paese, il buon vecchio Pinuccio, a riassumere il pensiero comune con una frase semplice: "Qua la gente ha già abbastanza problemi con i forestieri di Milano, figuriamoci con quelli che vengono dall'altro lato del mondo!"

Il giorno successivo, alle otto in punto, il ragionier Bertolini si presentò davanti alla scuola, tirato a lucido come per la festa del patrono. La famiglia straniera, Amadou e Mei con i loro due figli, era stata convocata per un colloquio ufficiale. Amadou, alto e sorridente, vestito con una giacca che sembrava fatta di un tessuto mai visto prima in paese, strinse la mano del sindaco con un calore che il ragionier Bertolini trovò quasi imbarazzante.

"Buongiorno, signor sindaco!" disse Amadou in un italiano impeccabile ma con un accento che lasciava indovinare la sua provenienza. Mei, più riservata, fece un leggero inchino, mentre i due bambini, Kofi e Amina, guardavano il sindaco con occhi curiosi e vivaci.

Il ragionier Bertolini, per quanto abituato a fare discorsi solenni, si trovò per un attimo senza parole. In paese si parlava molto di accoglienza, ma nessuno si era mai aspettato di doverla mettere in pratica davvero.

"Buongiorno a voi, benvenuti a Borgo Vecchio," riuscì a dire infine, con un tono che cercava di essere caloroso. "Ehm... Siamo un piccolo paese, ma cerchiamo di fare del nostro meglio per accogliere chiunque venga qui."

Amadou annuì, ancora sorridente. "Ne sono certo, signor sindaco. Siamo molto felici di essere qui. Io lavorerò nella fabbrica a pochi chilometri da qui, e mia moglie... beh, è un'ottima cuoca. Forse potrete assaggiare qualcosa della nostra cucina."

 

La parola "cucina" fece breccia nei pensieri del sindaco. Già si immaginava i commenti dei paesani di fronte a piatti dai nomi impronunciabili. Ma Bertolini, nel suo cuore, era un uomo buono. E poi, come sua madre diceva sempre, "Una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso."

Quella sera, su invito di Pinuccio, la famiglia di Amadou si recò all'osteria del paese. L’oste, che era uomo di spirito e di pancia generosa, li accolse con un certo riserbo, ma colto da curiosità, decise di offrire loro il suo miglior piatto: tortelli di zucca, seguiti da un brasato con polenta.

Amadou e Mei assaporarono ogni boccone, e i bambini si comportarono in maniera impeccabile, nonostante Kofi avesse guardato con sospetto la polenta gialla, così diversa dal riso a cui era abituato.

A un certo punto, però, Amadou si avvicinò al bancone e disse: "Pinuccio, questa polenta è davvero buona. Mi ricorda un piatto che faceva mia nonna in Africa. Sai, potremmo preparare qualcosa insieme, una sera? Io potrei cucinare il nostro 'fufu' e tu la tua polenta. Potremmo fare una serata di scambio."

L’oste, colpito da quell'idea, scoppiò a ridere. "Ah, ma questa sì che è buona! Uno scambio culturale a Borgo Vecchio! Chissà cosa dirà la gente!"

"Magari impareremo qualcosa di nuovo, no?" rispose Amadou con una luce negli occhi.

Pinuccio si grattò la testa, pensieroso. "Forse hai ragione. Facciamolo, Amadou. Vediamo cosa ne viene fuori."

La notizia della serata "Fufu e Polenta" si diffuse come il vento. All'inizio, molti erano scettici, ma la curiosità vinse su ogni resistenza. Quella sera, l’osteria di Pinuccio era gremita come non mai. C'era chi era venuto per assaggiare, chi per criticare, ma tutti, in fondo, erano lì per partecipare a qualcosa di nuovo.

Amadou, con un grembiule legato in vita, preparò il fufu con una tale destrezza che persino la signora Margherita, la più severa delle cuoche del paese, si fermò a guardare con ammirazione. Mei intanto serviva piccoli assaggi di un dolce di cocco e zenzero che fece leccare i baffi a più di uno.

Quando fu il turno di Pinuccio di servire la sua polenta, accompagnata da brasato, Amadou e Mei applaudirono per primi, seguiti dagli altri paesani. E poi, successe qualcosa di straordinario: Kofi e Amina, i due piccoli, iniziarono a giocare con i figli di Pinuccio e degli altri presenti. Risate, corse e giochi si mischiarono come in una grande festa.

Da quella sera, a Borgo Vecchio, il "fufu e polenta" divenne un appuntamento fisso, un simbolo di unione e amicizia. Il paese non cambiò improvvisamente, certo, ma piano piano, il colore della pelle, l'accento diverso, e le tradizioni lontane persero importanza di fronte alla bontà di una tavola condivisa.

Il ragionier Bertolini, il giorno dopo, passeggiando per il paese, notò che la vita continuava come sempre, ma con un leggero, quasi impercettibile cambiamento nell'aria. Una consapevolezza che, forse, accogliere il nuovo non era poi così spaventoso, e che, in fondo, eravamo tutti parte della stessa grande famiglia.

E mentre il sole tramontava sulle colline, si poteva sentire l’eco delle risate dei bambini che giocavano insieme, senza più barriere.

sabato 24 agosto 2024

“L'Italia e la democrazia. Un matrimonio difficile e assai turbolento” di Davide Romano, giornalista



Ogni volta che il centrodestra o la destra, fate voi, va al governo del Paese, ecco ergersi allarmati i soliti intellettuali da talk e compagnia varia assortita a gridare che la democrazia è in pericolo o che siamo ormai in una dittatura. Il Fascismo è tornato seppure in forme più scintillanti e seduttive! Questo almeno fino al successivo argomento di “attualità” – guerra di Medio Oriente o in Ucraina, manovra finanziaria, dichiarazioni di questo di quel presunto leader politico, lunghezza delle gonne, etc. - su cui correre generosamente i cento metri delle opinioni più banali e scontate in una contrapposizione, che non è mai veramente tale perché funzionale a un certo copione da avanspettacolo. È il circo dei media o sono i media del circo che è ormai il nostro Paese. Chissà.

Ma c’è una scena che non mi tolgo dalla testa ed è quella di un matrimonio. Non il classico matrimonio da favola, con sposi sorridenti e invitati festosi, ma uno di quei matrimoni un po’ tirati, dove si capisce subito che la convivenza non sarà semplice. Sto parlando del matrimonio fra l’Italia e la democrazia. Un’unione che è cominciata con un gran fracasso – quello della Seconda Guerra Mondiale – e che non ha mai smesso di dare segni di crisi.

Guardiamoci in faccia, italiani. La democrazia, qui da noi, non è mai stata un amore a prima vista. Non siamo mica come gli inglesi, che con la democrazia ci sono cresciuti e l’hanno affinata come una vecchia ricetta di famiglia. No, noi l’abbiamo accolta come si accoglie un parente venuto da lontano, con cui non si ha molta confidenza ma che, si dice, porterà vantaggi. La verità, però, è che l’Italia ha sempre avuto una relazione ambivalente con la democrazia. La guarda con rispetto, certo, ma anche con una certa diffidenza, come si fa con un oggetto prezioso ma difficile da maneggiare.

Il nostro matrimonio con la democrazia è stato celebrato nel 1946, con il referendum che ha sancito la nascita della Repubblica. Ma se pensiamo che quel voto è stato l’inizio di una storia d’amore senza intoppi, ci sbagliamo di grosso. Basta sfogliare i giornali di quegli anni – e non solo quelli – per vedere che già allora si intuiva quanto sarebbe stata complicata la convivenza. Gli italiani hanno detto "sì" alla democrazia, ma con la stessa convinzione con cui si dice "sì" a un viaggio verso una meta sconosciuta, spinti più dalla paura di ciò che si lascia alle spalle che dalla voglia di esplorare.

Non è un caso che la nostra democrazia sia sempre stata più formale che sostanziale. Abbiamo adottato la Costituzione più bella del mondo, dicono, ma poi l’abbiamo trattata come una lista di buoni propositi da mettere in pratica solo quando ci fa comodo. Abbiamo eletto i nostri rappresentanti, ma li abbiamo sempre guardati con un misto di sospetto e rassegnazione, come se fossero un male necessario più che i custodi della nostra volontà.

E qui entra il confronto con le altre democrazie. Prendiamo la Gran Bretagna, per esempio. Quella democrazia è cresciuta nel tempo, come una quercia piantata in terreno fertile, radicandosi nelle istituzioni e nelle abitudini della gente. Lì, la democrazia è un fatto di cultura, non solo di legge. Gli inglesi si fidano delle loro istituzioni, e sanno che ogni crisi politica è solo una parentesi temporanea, perché la democrazia tornerà sempre a far valere la sua forza.

Dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, la democrazia è una questione di identità nazionale. Gli americani sono cresciuti con l’idea che la democrazia è ciò che li distingue dal resto del mondo, che è il loro contributo alla storia dell’umanità. Certo, anche lì non mancano le contraddizioni, ma gli americani ci credono davvero, nella loro democrazia. L’hanno difesa a caro prezzo, l’hanno esportata (a volte malamente) e l’hanno fatta diventare il loro biglietto da visita nel mondo. E quando sbagliano, lo fanno in grande, con quella convinzione tipica di chi sa che, alla fine, la democrazia saprà rimediare ai propri errori.

E poi c’è l’Europa continentale. I francesi, con la loro Repubblica, hanno fatto della democrazia quasi una religione laica. Liberté, Égalité, Fraternité non sono solo parole incise sui frontoni dei municipi; sono concetti che, nel bene e nel male, guidano le scelte di un popolo. Certo, anche lì la democrazia ha avuto i suoi alti e bassi, ma i francesi l’hanno sempre difesa con una passione che a noi, spesso, è mancata.

E l’Italia? Noi abbiamo la nostra Costituzione, nata sulle ceneri di un ventennio di dittatura, ma la nostra democrazia è come un abito ancora da portare su misura. Ci avvolge, sì, ma non ci calza a pennello. Gli italiani hanno sempre avuto un rapporto complicato con l’autorità, e questo si riflette nel modo in cui viviamo la democrazia. Da un lato, non ci piace essere comandati, dall’altro abbiamo una tendenza inveterata al compromesso e al trasformismo, che spesso ci porta a trattare la democrazia come una sorta di accordo temporaneo, buono finché non si trova di meglio.

E non è che il nostro matrimonio con la democrazia sia stato del tutto infelice. Ci sono stati momenti in cui l’Italia ha mostrato di poter essere una democrazia vibrante, capace di produrre progresso e stabilità. Ma sono stati momenti fugaci, lampi di speranza in un cielo spesso grigio di incertezze. Quando la crisi bussa alla porta, l’italiano medio torna a guardare con nostalgia a quei sistemi che promettono ordine senza troppe complicazioni, magari dimenticando che, nella storia, questi sistemi hanno spesso portato più guai che benefici.

E poi c’è quel nostro eterno vizio del compromesso, che nella democrazia dovrebbe essere una virtù, ma che da noi diventa spesso un modo per non decidere nulla, per lasciare tutto com’è in attesa che qualcun altro prenda le redini. In questo matrimonio, la democrazia è quella moglie che viene sempre messa in secondo piano, in favore di abitudini più antiche e radicate. Non siamo mai riusciti a darle quel ruolo di protagonista che meriterebbe, preferendo mantenerla in una posizione marginale, buona per le cerimonie ufficiali ma non per la vita di tutti i giorni.

Eppure, nonostante tutto, la democrazia è ancora qui, e forse proprio questa sua resistenza è il segno che, in fondo, l’Italia ha cominciato ad apprezzarla. Magari non l’ama come si ama una passione travolgente, ma la rispetta come si rispetta un compagno di viaggio che ha dimostrato di essere affidabile, anche se non sempre simpatico.

In questo matrimonio, c’è ancora molto da fare. Dobbiamo imparare a vivere la democrazia non solo come un dovere, ma come un’opportunità. Dobbiamo smettere di considerarla un’ospite scomoda e iniziare a trattarla come una parte integrante della nostra identità. E forse, un giorno, potremo dire che questo matrimonio, nato con tante difficoltà, ha finalmente trovato la sua armonia.

 

venerdì 23 agosto 2024

“Valdesi, 850 anni di fedeltà alla Bibbia e alla coscienza” di Davide Romano, giornalista



Quest’anno, in un’Italia spesso smemorata, ricorre un anniversario di quelli che meriterebbero una riflessione attenta: 850 anni di storia valdese. Una celebrazione che non si esaurisce nel riconoscimento della longevità di una comunità religiosa, ma che rende omaggio a una fedeltà incrollabile – alla Bibbia e alla coscienza – che ha guidato i Valdesi attraverso i secoli, tra persecuzioni, esili e rinascite.

La storia dei Valdesi comincia nel 1174, quando un mercante di Lione, Pietro Valdo, fa qualcosa di rivoluzionario, per non dire folle, agli occhi dei suoi contemporanei: abbandona tutte le sue ricchezze e si dedica alla predicazione del Vangelo. E non lo fa perché cerca potere o gloria, ma perché è folgorato dalle parole di Cristo: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi" (Matteo 19:21). Da qui nasce un movimento che sfida apertamente l’autorità ecclesiastica, rifiutando ogni dottrina che non trovasse un fondamento nelle Sacre Scritture. Un gesto di disobbedienza? Sì, ma fatto con quella serietà e quel rigore che solo chi è convinto della bontà della sua causa può mostrare.

Per i Valdesi, la Bibbia è stata – e rimane – la loro bussola morale, il loro punto di riferimento in un mondo che, spesso, ha cercato di spegnere quella luce che portavano con sé. Lo storico Giorgio Tourn, che conosce questa storia come pochi, non ha dubbi: "I Valdesi hanno sempre mantenuto un forte legame con la Bibbia, considerandola come la loro unica regola di fede e di vita". Non sono parole leggere. In tempi in cui dichiararsi fedeli alla Bibbia significava rischiare la vita, i Valdesi hanno resistito a crociate, massacri, esili. Pensiamo alle "Pasque Piemontesi" del 1655, un massacro che avrebbe potuto annientare un popolo meno determinato. Ma i Valdesi, come sempre, hanno resistito. Non per ostinazione, ma per una fedeltà che scaturisce da una convinzione profonda.

E questa fedeltà non si limita solo alla Bibbia. C’è un altro elemento che rende unico questo movimento: la coscienza. Mentre il mondo intorno a loro cercava di imporre dogmi dall’alto, i Valdesi sostenevano, con una certa dose di anticipo sui tempi, il libero esame delle Scritture. Non aspettavano la Riforma per dire che "ogni uomo, di qualsiasi condizione, deve esaminare la propria fede alla luce delle Scritture e agire secondo la sua coscienza". Era il Sinodo valdese del 1532 a dirlo, quando in altre parti d’Europa si cominciava appena a sussurrare quello che i Valdesi proclamavano a gran voce. E non erano solo parole: era una dichiarazione di autonomia spirituale, che ha forgiato una comunità pronta a vivere secondo i propri ideali, senza compromessi.

Ecco, allora, che la fedeltà alla coscienza diventa anche una questione sociale. Per i Valdesi, non si trattava solo di salvare l’anima, ma di vivere in modo coerente anche nella società. Non è un caso se sono stati tra i primi a promuovere l’uguaglianza, la giustizia sociale, la difesa dei diritti umani. Questo perché, come ricordava il pastore Paolo Ricca, "la coscienza è l’altare su cui si compie il vero culto a Dio, un culto che richiede autenticità e coerenza, non conformismo". Ecco che la fedeltà alla Bibbia e alla coscienza diventa il perno su cui ruota tutta la loro esistenza, in un mondo che spesso preferisce compromessi e scorciatoie.

Oggi, a 850 anni dalla loro nascita, i Valdesi continuano a essere un esempio di integrità. Non è poco, in un tempo in cui i valori sono spesso messi all’asta. I Valdesi ci ricordano, con la loro storia, che la fedeltà ai principi fondamentali è la chiave per attraversare le tempeste della storia senza perdere la propria identità. Giovanni Miegge, un altro grande valdese, aveva scritto che "la fedeltà è la virtù dei forti", e non si può certo dire che i Valdesi abbiano mancato di forza nel corso dei secoli.

Celebrare questi 850 anni non è solo fare memoria di una storia passata, ma riconoscere l’importanza di una fede vissuta con autenticità, una fede che ha saputo resistere alla tirannia, all’esilio, alla marginalizzazione. I Valdesi sono una testimonianza vivente del potere della fedeltà alla Parola e alla coscienza. "Essere fedeli alla Bibbia e alla coscienza è la sfida di ogni generazione," ha detto Mario Cignoni, storico e, ça va sans dire, valdese. Oggi, come allora, i Valdesi ci mostrano che questa fedeltà non è solo possibile, ma anche indispensabile per costruire una società giusta e solidale.

Questo anniversario, dunque, è un’occasione per celebrare non solo la storia di una comunità, ma anche l’eredità spirituale e morale che essa continua a offrire al mondo. Perché, in un tempo in cui la spiritualità autentica è spesso messa alla prova, i Valdesi ci insegnano che la vera forza risiede nella coerenza tra fede e vita, tra la Parola e la coscienza, valori che, oggi come ieri, rappresentano le fondamenta su cui costruire un futuro di giustizia e di pace.


mercoledì 21 agosto 2024

“La Colombella del Signore” di Davide Romano, giornalista

 


C'era una volta, in un piccolo convento situato tra le colline di un remoto villaggio, una giovane suora chiamata Suor Colombella. Il suo nome le era stato dato dalle sorelle più anziane del convento per il suo spirito dolce e il suo cuore puro. Suor Colombella era una creatura delicata, con un sorriso sempre pronto e una gentilezza che sembrava non conoscere limiti.

Fin da bambina, Colombella aveva sentito una chiamata speciale nel suo cuore. Cresciuta in una famiglia umile, trascorreva le sue giornate aiutando la madre nei campi e curando gli animali. Ma ciò che amava più di tutto era passare del tempo nella piccola chiesa del villaggio, dove si recava ogni giorno per pregare. Sentiva che Dio le parlava nei momenti di silenzio, e il suo desiderio di servirlo cresceva di giorno in giorno.

Quando compì diciotto anni, Colombella decise di consacrare la sua vita al Signore, entrando nel convento di Santa Maria della Pace. Il convento era noto per la sua comunità di suore dedite alla preghiera e alla carità, e Colombella trovò subito il suo posto tra loro. Nonostante la sua giovane età, si distinse per la sua devozione e la sua capacità di ascoltare il prossimo. Era sempre la prima a svegliarsi per le preghiere del mattino e l'ultima a ritirarsi la sera, dopo aver concluso i suoi compiti.

Un giorno, mentre era impegnata nel giardino del convento a coltivare le piante medicinali, Suor Colombella notò un piccolo nido caduto a terra. Al suo interno, c'era una colomba ferita, incapace di volare. Colombella, che aveva un amore particolare per tutte le creature di Dio, prese delicatamente la colomba tra le mani e la portò nella sua cella. Per settimane, si prese cura dell’uccellino, nutrendolo e medicando le sue ferite. Mentre la colomba guariva, tra lei e Suor Colombella si instaurò un legame speciale. La colomba, che la suora chiamò "Pace", divenne la sua compagna silenziosa, seguendola ovunque andasse.

La presenza di Pace sembrava portare con sé una benedizione particolare. Le altre suore notarono che, da quando la colomba era comparsa, nel convento regnava una pace ancora più profonda, e che le difficoltà della vita quotidiana sembravano farsi più leggere. Persino i villaggi vicini cominciarono a parlare delle preghiere potenti di Suor Colombella e del miracolo della colomba guarita.

Un giorno, una grande siccità colpì la regione, mettendo in pericolo i raccolti e la vita di molte persone. I villaggi vicini cominciarono a soffrire la fame, e la paura e la disperazione si diffondevano rapidamente. Le suore, preoccupate, si riunirono in preghiera, chiedendo a Dio di mandare loro un segno, una speranza.

Suor Colombella, con il cuore pesante per il dolore che vedeva intorno a sé, prese Pace tra le mani e uscì nel giardino del convento. Si inginocchiò davanti alla grande croce di pietra che si ergeva al centro e, con lacrime negli occhi, pregò Dio di intervenire. Chiese che, come aveva guarito Pace, guarisse anche la terra arida e riportasse la vita nei campi.

Mentre pregava, un vento dolce cominciò a soffiare tra le colline. Le nuvole si radunarono nel cielo, e presto una pioggia gentile cominciò a cadere. La terra assetata accolse l'acqua come un dono, e i campi ripresero vita. I villaggi furono salvati, e la gente si recò al convento per ringraziare Dio per il miracolo.

Da quel giorno, Suor Colombella fu conosciuta come la "Colombella del Signore", colei che portava la pace e la speranza ovunque andasse. La colomba rimase con lei fino alla fine dei suoi giorni, simbolo di quel legame speciale tra cielo e terra, tra la piccola suora e il suo Dio. Anche dopo la sua morte, la storia di Suor Colombella continuò a essere raccontata come un esempio di fede, amore e compassione senza limiti.

 

martedì 20 agosto 2024

“San Bastiano di Contraddizione” di Davide Romano, giornalista

 



Vita e Paradossi

San Bastiano di Contraddizione nacque nel 1300, nel minuscolo borgo di Assurdo, situato da qualche parte tra il nord e il sud di un regno mai esistito. Fin da bambino, Bastiano mostrò una singolare inclinazione verso la contraddizione in ogni sua forma. Se qualcuno diceva "bianco", Bastiano sosteneva "nero", e se la gente sosteneva che fosse giorno, lui si ostinava a credere che fosse notte. La sua famiglia, esasperata, lo mandò presto in un monastero nella speranza che la vita monastica potesse calmarlo.

Al monastero, Bastiano continuò la sua stravagante condotta. Mentre tutti i monaci pregavano, lui cantava. Quando era tempo di meditare, Bastiano correva intorno al chiostro urlando versetti della Bibbia al contrario. Nonostante (o forse grazie a) questo comportamento, i superiori iniziarono a notare che, ogni volta che Bastiano faceva qualcosa di assurdo, qualcosa di miracoloso accadeva.

Un giorno, durante una terribile carestia, il priore ordinò un digiuno solenne. Bastiano, ovviamente, organizzò un banchetto, mangiando pane e pesce in gran quantità. I monaci, scandalizzati, lo guardarono con disprezzo, ma sorprendentemente, ogni volta che Bastiano spezzava un pezzo di pane, questo si moltiplicava all'infinito, riempiendo i magazzini del monastero. Il priore, non sapendo come spiegare l'evento, decise che forse Bastiano aveva davvero un dono, ma non poteva ammetterlo apertamente, così disse: "Forse il Signore opera per vie contorte".

Un altro episodio celebre nella vita di Bastiano avvenne quando decise di convertire un albero di mele. Sì, un albero. Dichiarò che se un melo poteva produrre mele, avrebbe potuto anche produrre pere. Passò tre giorni e tre notti a discutere con l'albero, sostenendo che la sua vera natura fosse contraria a ciò che mostrava. Alla fine, e contro ogni logica, l'albero cominciò a produrre pere. I contadini del villaggio gridarono al miracolo, ma Bastiano si limitò a dire: "Era solo questione di convinzione!"

San Bastiano divenne rapidamente noto per il suo approccio unico alla santità. Invece di guarire i malati, li faceva ridere fino a dimenticare i propri dolori. Se qualcuno chiedeva un consiglio, lui rispondeva sempre con un aforisma che contraddiceva la domanda. Nonostante, o forse proprio per questa sua natura, la gente cominciò a venerarlo come un santo capace di comprendere le assurdità della vita meglio di chiunque altro.

 

Culto e corollari

Dopo la sua morte, avvenuta in circostanze del tutto normali e quindi assolutamente eccezionali per lui, Bastiano fu canonizzato in una cerimonia che fu sia solenne che burlesca, come era prevedibile. Durante il processo di canonizzazione, ogni miracolo che gli veniva attribuito veniva negato da un cardinale, solo per essere riaffermato da un altro, in un ciclo infinito di affermazioni e smentite. Alla fine, il Papa dichiarò: "Se lo canonizziamo, sarà santo; se non lo canonizziamo, sarà comunque santo, quindi tanto vale farlo."

San Bastiano di Contraddizione è oggi il patrono dei sofisti, dei dibattitori, e di tutti coloro che amano dire "ma" e "però". Il 1° di Aprile, giorno della sua festa, i fedeli si riuniscono per celebrare con processioni che procedono all’indietro e messe dove ogni affermazione del sacerdote viene contraddetta dalla congregazione. Si dice che le sue reliquie siano custodite in una scatola chiusa e sigillata con un'etichetta che recita: "Contiene nulla e tutto insieme".

Il culto di San Bastiano ricorda a tutti che nella vita nulla è come sembra, e che la verità, per quanto cerchiamo di afferrarla, spesso si presenta sotto le sembianze del suo esatto contrario. Chiunque invochi San Bastiano sa che riceverà una risposta, anche se probabilmente non sarà quella che si aspetta.

lunedì 19 agosto 2024

Papa Francesco al giornalista Davide Romano: "Scorgi con fiducia il disegno del Signore"

In un gesto di profonda attenzione e vicinanza spirituale, Papa Francesco ha recentemente inviato una lettera personale a Davide Romano, giornalista e scrittore siciliano, nonché fondatore della comunità ecumenica La Compagnia del Vangelo. La missiva del Santo Padre è giunta in risposta a una precedente lettera inviata da Romano, nella quale l’autore condivideva la sua vicenda personale, il percorso di fede intrapreso e la continua ricerca di un progetto di vita che rispecchi la volontà divina.

Nella sua lettera, Papa Francesco ha espresso sincera gratitudine per la “filiale fiducia” dimostrata da Romano, sottolineando l’importanza di “scorgere con fiducia quanto il Signore permette per rafforzarci e comprendere quale sia la sua volontà.” Il Papa ha esortato Romano a interpretare gli eventi della vita come strumenti che rafforzano la fede e permettono di comprendere meglio la volontà divina.

Il Pontefice ha inoltre assicurato un ricordo particolare nella preghiera per il giornalista siciliano, auspicando che lo Spirito Santo possa illuminare il suo cammino e aiutarlo ad “accogliere docilmente” ciò che il Signore vorrà indicargli. La lettera si conclude con la Benedizione Apostolica, estesa non solo a Romano ma anche ai suoi cari, come segno tangibile di paterna vicinanza e affetto.ù

Questo gesto di Papa Francesco non solo rappresenta un segno di stima e sostegno per il percorso di discernimento spirituale di Davide Romano, ma riflette anche il profondo rispetto del Pontefice per la ricerca personale di fede. Il messaggio del Papa invita Romano a proseguire “con coraggio e generosità” nella sua ricerca spirituale, riconoscendo le sfide che tale percorso può presentare ma anche l’importanza di affrontarle con fede e determinazione.


Chi è Davide Romano

Davide Romano è un giornalista e scrittore con una lunga carriera alle spalle, attivo anche nel mondo del volontariato e appassionato di studi religiosi. Ha lavorato in vari ambiti della comunicazione politica, culturale, religiosa e sindacale, collaborando con numerose testate giornalistiche tra cui Il Giornale di Sicilia, La Repubblica e Narcomafie.

Romano è autore di numerose pubblicazioni che spaziano dalla narrativa alla saggistica, affrontando tematiche religiose, sociali e culturali. Tra i suoi lavori più noti si annoverano “L’amore maldestro” (2001), “La buriana e altri racconti” (2003) e “Inganno padano. La vera storia della Lega Nord” (2010). Oltre alla sua attività editoriale, ha curato diverse opere e volumi, tra cui quelli di autori come Lev Tolstoj e Girolamo Li Causi.

Fondatore della comunità ecumenica La Compagnia del Vangelo, Romano si è dedicato al servizio degli ultimi, riflettendo il suo impegno non solo attraverso la scrittura ma anche con un'attiva partecipazione al sostegno delle persone più vulnerabili. Questo percorso, intriso di fede e dedizione, ha trovato un importante riconoscimento nelle parole di Papa Francesco, che ha voluto esprimere il suo sostegno e la sua vicinanza a un uomo che ha fatto della sua fede una guida per la propria vita e per il servizio agli altri.

 


domenica 4 agosto 2024

Palermo, Donare il sangue (anche d’estate) è un dovere (morale)

 


Palermo, 4 agosto 2024 - "Sono una mamma affetta da talassemia e d’estate sto male perché le trasfusioni sono sempre in ritardo. Alcuni giorni, tra il caldo e l’emoglobina bassa sono bloccata nel letto e non riesco ad accudire i miei figli". Queste parole toccanti appartengono a una mamma palermitana, la cui vita dipende dalle trasfusioni di sangue ogni quindici giorni. La sua testimonianza è solo una delle tante che emergono durante l'estate, un periodo critico in cui le donazioni di sangue calano drasticamente mentre il bisogno resta costante.

Il problema delle donazioni di sangue durante l'estate non è nuovo, ma ogni anno si ripresenta con la stessa urgenza. Molti donatori regolari interrompono le loro abitudini a causa delle vacanze, causando una diminuzione significativa delle riserve di sangue negli ospedali. Tuttavia, per chi necessita di trasfusioni regolari, come le persone affette da talassemia, emofilia o altre patologie croniche, il bisogno di sangue non conosce stagioni.

L’appello è chiaro: Dona sangue, dona vita. Ogni donazione può contribuire a salvare vite e a migliorare la qualità della vita di chi soffre. La donazione di sangue è un gesto di solidarietà che richiede poco tempo ma ha un impatto enorme.

Se non hai mai donato sangue, il processo è semplice. La prima fase, chiamata pre-donazione, consiste in un colloquio con un medico e un prelievo di sangue per valutare l'idoneità del donatore. Dopo qualche giorno, se idoneo, il donatore viene richiamato per effettuare la donazione vera e propria.

A Palermo, è possibile donare sangue in diversi centri. Gli orari e i contatti sono i seguenti:

  • Ospedale Cervello, Reparto di Medicina Trasfusionale (Edificio B): Aperto dal lunedì al sabato dalle 8:00 alle 12:00.
  • Centro fisso di Via Pecori Giraldi 18 (zona Forum-Sperone): Aperto dal lunedì al sabato dalle 8:00 alle 12:00.

Per informazioni sulle aperture e per prenotazioni, è possibile contattare i numeri:

  • 392/9240662
  • 375/6324280
  • 334/9935216

In un periodo in cui il caldo e le ferie riducono il numero dei donatori, ogni contributo è fondamentale. Donare sangue è un atto di altruismo che non va in vacanza e rappresenta un dovere morale verso chi, come la mamma palermitana affetta da talassemia, lotta quotidianamente per vivere.

🩸DONA SANGUE, DONA VITA

 

#iodonosangue #iodonotuvivi #iodono #rossosangue

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...