giovedì 6 giugno 2024

Morto a 98 anni Jürgen Moltmann, gigante della teologia contemporanea

 


Dalla Teologia della Speranza alla riflessione teologica sulla croce, dall’ecumenismo fino all’impegno ecologico e molto altro in una vita colma di riflessioni e incontri

«Nella vita cristiana la priorità appartiene alla fede, ma il primato alla speranza. Senza la conoscenza di Cristo che si ha per la fede, la speranza diverrebbe un’utopia sospesa in aria. Ma, senza la speranza, la fede decade divenendo tiepida e poi morta. Per mezzo della fede l’uomo trova il sentiero della vera vita, ma soltanto la speranza ve lo mantiene» (“Teologia della Speranza”, 1964).

 

È morto a Tubinga in Germania lunedì 3 giugno, e la famiglia lo ha comunicato ieri, Jürgen Moltmann,  uno dei più grandi teologi del nostro tempo. La sua “Teologia della speranza“, pubblicata nel 1964, è stata tradotta in numerose lingue e ha influenzato i cristiani di tutto il mondo. Aveva 98 anni.

L’attuale presidente del consiglio della Chiesa evangelica in Germania (Ekd), Kirsten Fehrs, ha elogiato Moltmann come un «dono unico» per la Chiesa protestante.  «La Chiesa deve a Moltmann una quantità infinita di doni ricevuti: ampiezza di cuore ecumenica, una buona dose di radicalismo scientifico, coraggio politico e speranza illimitata».

«Io stessa ho sempre ammirato il suo modo speciale di entrare in altri contesti in modo del tutto semplice e di rendere comprensibile la teologia in mondi a lui estranei», ha aggiunto Fehrs. 

 

Moltmann era nato ad Amburgo l’8 aprile 1926, figlio di una famiglia di insegnanti, ed è stato prima pastore a Brema e poi professore di storia dogmatica all’Università ecclesiale di Wuppertal prima di essere nominato a Bonn nel 1963. Dal 1967 fino al suo pensionamento nel 1994 ha insegnato a Tubinga. Era sposato con la teologa femminista Elisabeth Moltmann-Wendel, morta nel 2016.

La sua prima opera “Teologia della speranza” del 1964 è stata considerata una svolta nella teologia dell’epoca.

 

«Con il suo lavoro teologico Jürgen Moltmann ha influenzato la Chiesa e la società a livello internazionale – recita il sito della Chiesa evangelica in Germania -. Soprattutto la “Teologia della speranza” ha influenzato numerosi teologi sin dalla sua pubblicazione negli anni ’60 e ha innescato dibattiti che si sono irradiati ben oltre la Chiesa protestante. Basata sulla speranza cristiana della risurrezione, la teologia di Moltmann, potente sia nel pensiero che nel linguaggio, continua ancora oggi a fornire impulsi per un concreto impegno di emancipazione. Successivamente, tra l’altro, diede importanti contributi per una teologia ecumenica sul Creato e la sua tutela.

Per l’occasione riprendiamo una biografia scritta dal professor Fulvio Ferrario,  docente di teologia sistematica alla Facoltà valdese di teologia di Roma.

Il testo è tratto dal sito www.credereoggi.it:

 

Moltmann nasce nel 1926 ad Amburgo in una famiglia protestante liberale alquanto secolarizzata, nella quale, a suo dire, Lessing (1729-1781), Goethe (1749-1832) e persino Nietzsche (1844-1900) sono più letti della Bibbia. I suoi interessi culturali adolescenziali vertono soprattutto sulla fisica.

Prima però di potersi iscrivere all’università viene arruolato nella Wehrmacht e nel luglio 1943 vive, come addetto a una batteria contraerea, il violento bombardamento di Amburgo. Il commilitone che gli è accanto cade ucciso, esperienza questa spesso menzionata negli scritti autobiografici della maturità e che determina riflessioni drammatiche.

 

Dopo un’esperienza al fronte, viene fatto prigioniero nel 1945 e trascorre tre anni nei campi di concentramento alleati, prima in Belgio e poi in Scozia. Nei tre anni di prigionia nasce e si approfondisce l’interesse per la fede cristiana, naturalmente articolato intorno alle grandi domande sulla vita e la morte, la colpa individuale e collettiva, la presenza di Dio nella storia. Legge intensamente la Bibbia, dialoga con compagni di prigionia e cristiani britannici, matura una vocazione cristiana.

 

Rientrato in Germania nel 1948, si iscrive alla facoltà di teologia di Gottinga e matura la decisione di diventare pastore evangelico, pur non avendo alle spalle l’educazione ecclesiastica e la frequentazione della chiesa allora normali tra i candidati al ministero. A Gottinga conosce Elizabeth Wendel (1926-2016), come lui studentessa in teologia e che diverrà sua moglie, nonché partner decisiva del suo itinerario teologico. Tra i docenti sono particolarmente importanti le figure di Otto Weber (1902-1966), discepolo di Karl Barth (1886-1968), e di Hans Joachin Iwand (1899-1960), esponente di rilievo della chiesa confessante negli anni del nazionalsocialismo.

 

Diventato pastore, Moltmann presta servizio nella comunità di Bremen-Wasserhorst. I cinque anni di pastorato determinano l’attenzione nei confronti di quella che egli chiama «teologia del popolo», cioè delle esigenze spirituali della cosiddetta «gente comune», allora particolarmente provata dalla guerra e dalle sue conseguenze. Moltmann sottolinea spesso che la sua successiva produzione teologica rimarrà legata all’esperienza pastorale: egli non appartiene a quel tipo di teologi che intende separare la cattedra dal pulpito, il che non è senza rapporto col dato di fatto che i suoi sono tra i testi teologici più letti in assoluto in tutto il mondo. Il lavoro pastorale non gli impedisce di conseguire il dottorato in teologia e, nel 1958, egli accetta l’incarico di docente nella facoltà ecclesiastica (non appartenente, cioè, a un’università statale) riformata di Wuppertal.

 

Qui nasce l’opera che lo renderà famoso, la Teologia della speranza: un testo audace e innovatore che, egli afferma, non avrebbe potuto essere scritto nell’ambiente accademicamente più pretenzioso delle facoltà statali. In questi anni Moltmann si confronta con la «teologia dell’Antico Testamento» di Gerhard Von Rad (1901-1971), Walther Zimmerli (1907-1983), Hans Walter Wolff (1911-1993), Hans-Joachim Kraus (1918-2000) e, naturalmente, con il pensiero di Rudolf Bultmann (1884-1976), allora dominante.

Ma è soprattutto nel discepolo e critico di Bultmann, Ernst Käsemann (1906-1998), che egli trova le idee esegetiche fondamentali per la sua opera teologica. Secondo Käsemann l’apocalittica, lungi dall’essere un’escrescenza mitologica sul terreno dell’annuncio cristiano, pone la domanda teologicamente decisiva, quella della signoria di Dio in questo mondo, sottolineando così la valenza drammaticamente politica dell’escatologia.

 

Decisivo è poi l’incontro con il pensiero di Ernst Bloch (1885-1977), mediante un’intensa lettura estiva del Principio speranza, opera che lo affascina al punto di impedirgli la contemplazione delle montagne svizzere tra le quali trascorreva la vacanza. Nel 1963 accetta una chiamata all’università di Tubinga, dove rimarrà fino al termine dell’insegnamento.

 

Il lavoro accademico, che si condensa soprattutto nelle due opere Il Dio crocifisso (1972) e La chiesa nella forza dello Spirito (1975) è nutrito da una serie di esperienze culturali e spirituali. Menzioniamo anzitutto il dialogo tra cristiani e marxisti, nel quale viene approfondita la valenza politica della fede cristiana, tema al quale Moltmann era già in precedenza molto sensibile; in questo quadro si colloca anche l’incontro con Johann-Baptist Metz (1928-), cattolico e allievo di Karl Rahner (1904-1984): insieme a lui Moltmann elabora una «teologia politica» europea.

Essa è in dialogo serrato, ma non acritico, con le teologie della liberazione latinoamericana, nera e con la teologia minju sudcoreana. Più tardi diventerà centrale anche il confronto con il femminismo, che per Moltmann comincia in famiglia. La grande simpatia del teologo nei confronti di queste esperienze di pensiero provenienti da altri contesti non gli risparmia critiche anche piuttosto aspre in quanto, gli si dice, egli, con tutto il suo progressismo, rimarrebbe un teologo accademico del mondo ricco, non inserito in quella che ci si compiace di chiamare «la concretezza della prassi di liberazione». Moltmann reagisce con compostezza, anche se a volte non senza dispiacere, semplicemente rilevando che, se nessuno può sfuggire alla propria storia, si può tuttavia fare in modo che essa si lasci interrogare criticamente.

 

Molto importante inoltre il confronto interconfessionale, condotto anche in quanto membro della commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC). In tale ambito Moltmann incontra e approfondisce, oltre a quella cattolica, la teologia ortodossa (in particolare nella persona del rumeno Dumitru Stǎniloae [1903-1993]), che influenzerà profondamente la seconda fase della sua produzione.

Importante anche il dialogo con il pensiero ebraico (Franz Rosenzweig [1886-1929], Gershom Scholem [1897-1982], Schalom Ben-Chorin [1913-1999], Pinchas Lapide [1922-1997] soprattutto), in vista dell’elaborazione di una teologia «dopo Auschwitz». Mi permetto di ribadire a questo punto un elemento già menzionato: questa molteplicità di orizzonti mutuati dalla storia (liberazione, ecumenismo, ecologia, ebraismo) può far pensare a un’affannosa e un po’ patetica rincorsa dell’attualità. Non è il caso. Certo, il rapporto di Moltmann con le sollecitazioni storiche non è consapevolmente (e polemicamente) implicito, come ad esempio quello della teologia di Barth, bensì assolutamente vistoso e ripetutamente dichiarato e tematizzato. Tuttavia l’autonomia del pensiero teologico è garantita da una competenza di altissimo livello e la sintesi di «militanza» e «scientificità» è in qualche modo lo specifico dell’autore.


Nel 1980 inizia quella che possiamo definire la seconda fase del pensiero moltmanniano. Se fino ad allora il teologo aveva svolto «l’intera teologia in un punto focale» (di volta in volta: l’escatologia, la croce, un’ecclesiologia pneumatica), ora egli propore una «teologia in movimento, dialogo, conflitto», percorrendo alcuni punti nodali della dogmatica cristiana in quelli che egli chiama «Contributi sistematici di teologia», una serie di sei volumi dedicati rispettivamente: alla dottrina trinitaria, alla creazione, alla cristologia, alla pneumatologia, all’escatologia e al metodo teologico.

Si tratta di opere al tempo stesso molto dense e assai leggibili, non destinate soltanto al pubblico degli addetti ai lavori, pur non rifuggendo dagli aspetti tecnici del lavoro teologico.

 

L’interesse politico e quello ecumenico si arricchiscono di nuovi orizzonti, come quello ecologico, e sono organizzati intorno alla centralità del pensiero trinitario. La produzione scientifica del teologo è accompagnata da un’intesa attività di conferenziere e dall’appassionata partecipazione alle vicende del proprio tempo: dalla contestazione studentesca, durante la quale egli critica la legislazione di emergenza introdotta in Germania, alle lotte di liberazione, all’evoluzione dei rapporti Est-Ovest fino al crollo del muro di Berlino, fino, come si è detto, all’imporsi del movimento delle donne e del femminismo.

 

La pastora valdese Sara Heinrich solo pochi anni fa in occasione del convegno organizzato alla Evangelische Akademie a Bad Boll in occasione del 95° compleanno di Moltmann ci ha ricordato che  «La Teologia della speranza è nata negli anni 60 come proposta cristiana per realizzare un mondo capace di resistere ai sistemi totalitari mettendo al centro la questione della giustizia e della pace, ed è diventata punto di riferimento per un’intera generazione. Ancora a 95 anni Jürgen Moltmann ci tiene a ricordare che è stato consacrato di fronte al testo della Dichiarazione teologica di Barmen. Moltmann afferma, anche durante il convegno, «La speranza è la fondamentale forza della resistenza».

 

Il contesto socio-politico in cui è nata la Teologia della speranza è senza dubbio diverso dal contesto di oggi, ma comunque il bisogno di una teologia della speranza che riesca a resistere alle fake news, alle teorie del complotto e ai dualismi semplicistici del populismo non è venuto meno.

 

È stato il presidente del Consiglio della Chiesa evangelica tedesca (Ekd) Heinrich Bedford-Strohm a indicare nella sua predicazione su Matteo 5, 38-48 uno dei campi concreti in cui la Teologia della speranza può e deve dare orientamento per il nostro agire. Ha parlato della situazione nel mare Mediterraneo dove i governi europei tollerano la morte di uomini, donne e bambini, come anche della violenza che subiscono i migranti ai confini del Europa. Si potrebbero aggiungere ancora altre crisi del nostro tempo, come il cambiamento climatico, che richiede un nostro agire deciso e coraggioso, come lo descrive Jürgen Moltmann nella sua Teologia della speranza: «Il regno di Cristo risorto che sta per avvenire non si può solo sperare ed attendere. Questa speranza e attesa caratterizza la vita, l’agire e soffrire nella storia della società umana […] Non diventare uguale a questo mondo non significa solo cambiare dentro noi stessi ma significa anche cambiare il mondo nella resistenza e nella attesa creatrice in cui crediamo, speriamo e amiamo».

 

A questo link è disponibile l’intervista che il capo redattore della trasmissione televisiva Protestantesimo Marco Davite fece a Moltmann nel 2018, quando il teologo si trovava in Italia per partecipare al convegno ecumenico “Un Creato da custodire”. Qui di seguito un piccolo estratto:

Lei è padre della teologia della speranza. Se ci guardiamo intorno, ci sono poche ragioni per essere ottimisti: c’è ancora spazio per la speranza oggi?

«Se noi guardiamo al “contesto” attuale, non c’è speranza. Ma se siamo credenti, allora dobbiamo guardare al “Testo”, quello con la T maiuscola, la Bibbia. Quel testo è pieno di promesse e di speranza. È la speranza di una nuova creazione, che non è proiettata nell’al di là ma è iniziata con la resurrezione di Cristo. Lo Spirito della vita viene versato su tutta l’umanità, e la speranza guarda al nuovo cielo, alla nuova terra e alla giustizia. Ed è con questa speranza che vogliamo impegnarci per difendere la natura dalla distruzione, dal riscaldamento globale, che non sommergerà solo il Myanmar ma anche la mia città natale, Amburgo. È questa speranza che ci spinge a fare tutto quello che è nelle nostre possibilità per permettere ai nostri figli, e ai figli dei figli, di vivere».

 

L’edizione italiana della «Teologia della speranza»

L’edizione italiana della Teologia della speranza uscì per i tipi dell’editrice cattolica Queriniana (1970) nella traduzione del pastore valdese Aldo Comba, come ha opportunamente ricordato anche Marco Ventura nel supplemento «La lettura» del Corriere della sera (24 marzo).

 

Aldo Comba, a cui si deve anche la traduzione del Lutero di R. Bainton (Einaudi, 1960) e la prima edizione italiana dell’Etica di D. Bonhoeffer (Bompiani, 1969), ricorda quel lavoro nelle pagine del suo racconto autobiografico Finestre sul mondo (a c. di M. G. Borgarello, Claudiana, 2017): «Il tedesco di Moltmann non era particolarmente difficile da tradurre (…), ma il suo pensiero è denso e profondo, quindi il problema è di renderlo in un italiano leggibile e scorrevole, che inviti il lettore a proseguire (…) L’edizione italiana della Teologia della speranza ha poi ottenuto, verso il 1970, il premio letterario “Isola d’Elba” e Moltmann, fraternamente, mi ha detto: “Se l’edizione italiana ha vinto il premio, sarà anche merito del traduttore!”, e ha condiviso con me il premio».

 

Sul testo di Moltmann, in particolare, il pastore Comba aggiunge: «A me sembra che il tema della speranza non soltanto sia esplicitato in questo lavoro, ma sottenda in un certo senso tutta l’opera di Moltmann. È un tema estremamente evangelico (…). Quando, talvolta, nelle celebrazioni funebri, si parla della “speranza certa della vita eterna”, non c’è una contraddizione tra speranza e certezza: la vita eterna è una certezza che non hai ancora toccato con mano. La speranza è dunque uno degli elementi fondamentali della spiritualità e della vita cristiana. Per Moltmann il fondamento della speranza è il Risorto. E su questo punto insiste a fondo (…). Meditare sulle pagine di Moltmann aiuta, senza dubbio, ad avere una più chiara visione di certi aspetti essenziali della fede e della vita cristiana. Molti credenti farebbero bene a riprendere questo volume e a leggerlo senza fretta, riflettendo con calma su quanto esposto». 

 

Fra gli altri libri del teologo

Oltre alla Teologia della speranza, l’editrice Queriniana ha pubblicato nel 1973 Il Dio crocifisso, uscito in Germania l’anno precedente; al filosofo Ernst Bloch (autore del Principio speranza, ultima ed. italiana Garzanti 1994), che aveva compiuto 90 anni nel 1975, Moltmann dedicò In dialogo con Ernst Bloch (1975); seguono ancora L’avvento di Dio. Escatologia cristiana (Queriniana 1998); Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia (1999); Scienza e sapienza. Scienza e teologia in dialogo (2002/2003), mentre il tema centrale nella sua teologia, ripreso con Nella fine l’inizio. Una piccola teologia della speranza (2003/2004) ritorna poi ancora con Etica della speranza (2010/2011).

 

Un’autobiografia di Jürgen Moltmann è uscita nel 2006 in originale, e tre anni dopo in italiano, sempre per Queriniana, con il titolo Vasto spazio. Storia di una vita. La casa editrice Claudiana ha pubblicato nel 1986 un saggio dal titolo Diaconia. Il servizio cristiano nella prospettiva del Regno di Dio, e Passione per Dio. Teologia a due voci (2005), scritto con la moglie Elisabeth Moltmann-Wendel e, in ultimo, Teologia politica del mondo moderno (2022). Un bello studio dedicato al teologo si deve a Daria Dibitonto: Dio nel mondo e il mondo in Dio. Jürgen Moltmann tra teologia e filosofia, per conto del Centro studi “Luigi Pareyson” di Torino (Trauben, 2007).

 

 

FOTO: BY MAETERLINCK – OWN WORKCC BY-SA 4.0, HTTPS://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG/W/INDEX.PHP?CURID=47596265

(Fonte: https://riforma.it/2024/06/05/morto-a-98-anni-jurgen-moltmann-gigante-della-teologia-contemporanea/)

Roma domenica 16 giugno, Si presenta il volume “Ritratto di Agostino in trenta pennellate” di padre Gabriele Ferlisi oad

 


 

Appuntamento domenica 16 giugno, alle 19 e 30, presso la chiesa di Santa Maria della Consolazione, in piazza Ottavilla 1, a Roma, per la presentazione del volume del padre agostiniano scalzo Gabriele Ferlisi, “Ritratto di Agostino in trenta pennellate”, mandato in questi giorni in libreria dalla casa editrice ‘Ancora. L’incontro sarà preceduto dalla celebrazione della sanata messa, alle ore 18 e 30, presieduta dallo stesso autore.

 

Trenta brevi capitoli, trenta «pennellate» per dipingere il ritratto umano e spirituale di un grande protagonista della storia del cristianesimo e del pensiero occidentale. Ne è autore un «figlio di sant’Agostino» che ha dedicato tutta la vita allo studio e alla divulgazione appassionata del lascito di Agostino per l’uomo di oggi: «Queste pennellate – scrive padre Ferlisi – saranno certamente poche a confronto di quelle che servirebbero per delineare in maniera più definita il ritratto di Agostino uomo, convertito, monaco, mistico, pastore, teologo, padre; comunque spero che queste trenta riescano a far amare di più quest’uomo che l’iconografia rappresenta con un cuore fiammeggiante trafitto dalla freccia della Parola di Dio, e che è universalmente riconosciuto come uno straordinario dono di Dio alla Chiesa e all’umanità».

«Non sono un pittore e non ho mai preso un pennello in mano, ma ora ci voglio provare, perché ardo dal desiderio di abbozzare un ritratto di sant’Agostino come lo immagino io: bello, luminoso, umano, vicino a ciascuno per sussurrargli al cuore la parola giusta che incoraggia, conforta, consiglia, ammonisce». (Gabriele Ferlisi)

Gabriele Ferlisi è sacerdote agostiniano scalzo. Ha conseguito la licenza in Filosofia e la laurea in Teologia dogmatica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Direttore della rivista «Presenza agostiniana», è autore di numerosi saggi sul pensiero e la spiritualità di sant’Agostino.

 

Davide Romano,

giornalista

 

domenica 5 maggio 2024

“Accogliere senza giudicare. La forza della compassione e dell'empatia” di Davide Romano, giornalista

Nell'ampio spettro della convivenza umana, la diversità brilla come una gemma dai molteplici colori. Ogni individuo è unico nel suo insieme di esperienze, valori e prospettive. Accogliere senza giudicare diventa, quindi, una virtù imprescindibile, un atto di gentilezza che illumina il cammino della convivenza armoniosa. Come disse la scrittrice Maya Angelou, “Possiamo essere l'unica nota di conforto in un mondo di caos e confusione. E non c'è niente di più confortante che essere accolti con gentilezza”.

La diversità è la tela su cui dipingiamo il mosaico della nostra società. Ogni individuo, con la sua storia unica, contribuisce ad arricchire il panorama culturale e sociale. Come affermò una volta il filosofo Johann Wolfgang von Goethe, “La diversità nella creazione è il risultato dell'amore infinito di Dio”. Accogliere la diversità significa riconoscere il valore intrinseco di ogni essere umano, indipendentemente da razza, religione, orientamento sessuale o background socio-economico.

Il giudizio, spesso radicato nei preconcetti e negli stereotipi, costituisce una barriera alla vera comprensione e inclusione. “Giudicare una persona non ti definisce; ti definisce come una persona”, affermò una volta la scrittrice e attivista Emma Goldman. Quando ci lasciamo influenzare dai nostri pregiudizi, ci priviamo dell'opportunità di conoscere realmente gli altri e di imparare da loro. Accogliere senza giudicare richiede un atto di volontà consapevole per superare le nostre barriere mentali e aprirci alle esperienze e alle prospettive degli altri.

Le istituzioni sociali, dalle scuole ai luoghi di lavoro, hanno un ruolo fondamentale nell'incoraggiare un ambiente di accettazione e tolleranza. “La vera diversità è poter accettare le persone per chi sono, senza giudicare o etichettare”, sottolineò la psicologa e autrice Ellen J. Langer. Promuovere la diversità e l'inclusione attraverso politiche e pratiche inclusive non solo crea un clima più positivo e produttivo, ma trasmette anche un messaggio importante: tutti sono benvenuti e valorizzati per ciò che sono.

L'empatia, la capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri, è al cuore dell'accoglienza senza giudicare. “L'empatia è vedere con gli occhi degli altri, sentire con il cuore degli altri, e comprendere con la mente degli altri”, disse una volta Alfred Adler, psicologo e psichiatra austriaco. Mettersi nei panni degli altri ci permette di apprezzare le loro esperienze e sfide, e ci aiuta a sviluppare una connessione più profonda e autentica con loro. Praticare l'empatia ci rende più aperti e compassionevoli, e ci avvicina a una visione più inclusiva del mondo.

Accogliere senza giudicare non è solo un atto di gentilezza, ma una necessità morale e sociale. In un mondo spesso diviso da conflitti e divisioni, l'accettazione e il rispetto reciproco sono le fondamenta su cui costruire una società più giusta e solidale. Ogni giorno, possiamo fare la nostra parte per promuovere un ambiente di inclusione e tolleranza, in cui ogni individuo si senta accolto e rispettato per chi è. Come disse una volta il leader spirituale Dalai Lama, “La compassione è la nostra vera natura umana”.



giovedì 2 maggio 2024

Palermo, La Compagnia del Vangelo cerca volontari e cibo per il Boccone del Povero



“Cerchiamo uomini e donne di buona volontà che diano una mano per cucinare e servire i pasti ma anche cibo per la mensa gestita dalle suore Serve dei Poveri del Boccone del Povero di piazza San Marco 8, a Palermo”. È l’appello lanciato dal giornalista Davide Romano, fondatore della Compagnia del Vangelo, un gruppo informale ecumenico di cristiani unito dal solo desiderio di servire il Signore nei suoi poveri.

“In una città che sprofonda ogni giorno di più nella miseria – commenta Romano – sono sempre più numerose le persone che fanno fatica a consumare pasti giornalieri decenti. Se le istituzioni continuano a rimanere indifferenti, non possiamo farlo noi se vogliamo continuare a definirci ancora cristiani”.

“Per questo motivo – continua - invito gli uomini e le donne di buona volontà a venire al convento di San Marco, sito nell’omonima piazzetta, a Palermo, per aiutare le suore Serve dei Poveri che, seguendo l’esempio del loro fondatore, padre Giacomo Cusmano, da anni portano avanti ogni pomeriggio una mensa aperta a tutti poveri della città”.

Per contatti e info: e-mail: bocconedelpoveropa@gmail.com; cell. +39 329 491 9286 (sr. Rosalia)

 


Perduto e ritrovato dall’amore di Dio



Sono nato in una famiglia cattolica come tante. Da bambino ho frequentato l’oratorio dei Salesiani e poi gli scout, il grande amore della mia vita. Dopo il liceo e la lettura di tanti testi religiosi, ho anche studiato teologia. Avevo fame di mondo e di vita. Sono anche diventato giornalista e ho viaggiato molto.

Cercavo di essere un buon cristiano e pensavo di cercare sinceramente il Signore. Ma, in verità, lo cercavo con paura e con rabbia. Forse dentro di me Dio era come mio padre, un uomo di formazione militare. A Dio, come a mio padre, bisognava solo ubbidire e l’obbedienza non era mai perfetta. Ubbidivo a Dio ma non lo amavo. Dentro di me anzi lo detestavo e lo maledicevo.

Mio padre era un uomo violento. E per me Dio era come lui. Per quanto mi sforzassi, non avrei mai meritato il suo amore. Mi sono sentito spesso come un cane randagio, costretto a mendicare carezze e cibo. Fuggivo da Dio così come avevo passato l’infanzia e l’adolescenza a fuggire dall’umore imprevedibile di mio padre. Pensavo di conoscere Dio, in fondo avevo studiato teologia! Ma lo conoscevo “per sentito dire”, come Giobbe (42,5). In verità, ero morto dentro. Formalmente un buon cristiano, vivevo una vita disordinata. Priva di amore, in continua e sorda ribellione.

Ma il Signore mi ha messo nel cuore una grande nostalgia e mi ha dato la forza di volgere i miei passi verso di Lui. Nell’estate del 2018 durante un corso di esercizi spirituali ho meditato la parabola del figliol prodigo. Ho urlato a Dio tutta la mia rabbia. Ma all’improvviso mi sono accorto della bellezza che mi circondava: il cielo terso, la luce dorata del sole, il mare e le colline. E ho sentito forte, avvolgente il suo amore che mi sanava il cuore. Scoppiavo di gioia!  Il Signore mi aveva riportato in vita. Mi aveva fatto sentire di essere figlio sempre amato, che Lui c’era sempre stato e che dovevo solo aprirgli la porta perché Lui entrasse nella mia vita e prendesse tutto il mio dolore e la mia rabbia.

Più di trent’anni fa, mio padre era spirato fra le mie braccia chiedendomi di perdonarlo per il male che mi aveva fatto. Lo avevo assistito, fin sulla soglia della morte, combattuto da sentimenti contrastanti. Non ero stato capace di perdonarlo. Solo oggi, a distanza di tanto tempo, posso di dire di averlo veramente perdonato.

Dal giorno della mia conversione, ho desiderato solo vivere e parlare di questo amore. Spero che la mia storia sia una piccola luce per chi ancora vive nelle tenebre della disperazione.

 

Davide Romano, giornalista

(Credere, n. 17, 28 aprile 2024)

giovedì 11 aprile 2024

“L’arte di ricominciare” di Davide Romano, giornalista

 


Scrive il noto biblista don Fabio Rosini: “La vita è una serie infinita di inizi. Talvolta ripartire può diventare difficile. Addirittura si può arrivare a pensare, dopo un fallimento o una dura prova, che ricominciare sia impossibile”. Ma è esattamente il contrario.

L'arte di ricominciare è un concetto che si riferisce alla capacità umana di affrontare e superare le sfide, le difficoltà e i fallimenti nella vita. Si tratta di un processo di rinascita, di rinnovamento e di crescita personale che coinvolge il superamento degli ostacoli e la trasformazione delle esperienze negative in opportunità di apprendimento e di miglioramento.

Ricominciare implica un atto di coraggio e di resilienza. Significa guardare avanti nonostante le delusioni del passato e avere fiducia nelle proprie capacità di affrontare nuove sfide. In questo senso, ricominciare è un'arte perché richiede creatività, determinazione e pazienza.

Uno degli aspetti cruciali dell'arte di ricominciare è la capacità di imparare dagli errori e dalle difficoltà incontrate lungo il percorso. Le esperienze negative possono fornire importanti lezioni di vita e diventare un trampolino di lancio per un nuovo inizio. Invece di lasciarsi abbattere dalle sconfitte, coloro che padroneggiano quest'arte sono in grado di trasformare le avversità in opportunità di crescita e di sviluppo personale.

Inoltre, ricominciare può coinvolgere anche un cambiamento di prospettiva e di atteggiamento nei confronti della vita. Può significare abbracciare la flessibilità, adattarsi ai cambiamenti e aprirsi a nuove possibilità. Spesso, le persone che riescono a ricominciare con successo sono quelle che mantengono una mente aperta e una visione ottimistica del futuro, nonostante le avversità incontrate.

Infine, l'arte di ricominciare può essere un processo continuo e in evoluzione. La vita è piena di alti e bassi, e ogni nuovo inizio può portare con sé nuove sfide e opportunità. Tuttavia, ciò che conta è la capacità di adattarsi, di crescere e di trasformarsi nel corso del tempo, continuando a guardare avanti con speranza e determinazione.

In sintesi, l'arte di ricominciare è un'abilità preziosa che può aiutarci a superare le difficoltà e a vivere una vita piena e significativa. Richiede resilienza, impegno e una mente aperta, ma può portare a una rinascita personale e a un nuovo inizio pieno di speranza e possibilità.

mercoledì 10 aprile 2024

Le lezioni ignorate del genocidio in Ruanda

 


di Francesca Sibani, giornalista di Internazionale

 

Dal 7 aprile i ruandesi ricorderanno il genocidio di trent’anni fa con una settimana di eventi commemorativi, a partire dalla visita del presidente Paul Kagame al memoriale del genocidio di Kigali, costruito sulle fosse comuni in cui furono seppellite 250mila vittime dei massacri. Seguirà una settimana di lutto nazionale, con le bandiere a mezz’asta, processioni, trasmissioni tv dedicate essenzialmente a film sul genocidio, racconta il sito Okayafrica.

Si stima che nel genocidio dei tutsi e degli hutu moderati, durato circa cento giorni, siano state uccise tra le 800mila e il milione di persone. Ancora oggi si continuano a trovare fosse comuni che erano state ben nascoste, come quella rinvenuta lo scorso ottobre nel distretto di Huye, con dentro 119 corpi.

Mai come quest’anno il passato sembra tutt’altro che sepolto, non solo per i ruandesi, ma anche per il resto del mondo. La parola “genocidio” (cos’è, come si annuncia, come prevenirlo) è tornata al centro del dibattito pubblico. Da Gaza al Sudan, infatti, il numero delle uccisioni di massa registrate è il più alto degli ultimi vent’anni, scrive l’Economist.

Molti tornano a guardare indietro, ad analizzare ancora una volta gli errori commessi per capire perché non si siano imparate le lezioni del passato. In un articolo intitolato “Perché l’occidente si rifiutò di fermare il genocidio ruandese”, Roméo Dallaire, che nel 1994 era il comandante della missione dei caschi blu Unamir in Ruanda, torna sulle accuse che dalla prima ora aveva rivolto alle Nazioni Unite e alle potenze mondiali. Sul magazine canadese The Walrus scrive che “per la maggior parte degli osservatori esterni, l’Africa era teatro di crisi sociali ed economiche generalizzate, accentuate da carestie, guerre civili e atrocità di massa. I paesi occidentali consideravano l’Africa un continente da compatire, non una fonte di potenziale; di certo non era una priorità”. Difficile sostenere che oggi l’Africa sia vista in modo molto diverso.

Dallaire bacchetta anche l’incapacità dell’Onu di intervenire. Solo dopo sei settimane e cinquecentomila morti, il consiglio di sicurezza approvò l’invio di cinquemila caschi blu di rinforzo per fermare quello che si era deciso a considerare un genocidio. Ma le prime truppe misero piede in Ruanda solo ad agosto, dopo la fine dei massacri.

Inoltre, anche allora la comunità internazionale dimostrò di applicare due pesi e due misure a seconda del colore della pelle delle vittime, sostiene Dallaire, secondo il quale ci si mobilitò con più decisione per l’ex Jugoslavia che per il Ruanda, dove “furono stuprate, uccise e sfollate più persone in tre mesi che in quattro anni di guerra in Bosnia”.

“Un genocidio dovrebbe essere importante. Dovremmo preoccuparci. Ma nessuna nazione volle investire le risorse per fermare il bagno di sangue. A quanto pare, alcuni esseri umani non sono degni delle protezioni offerte dalle convenzioni sui diritti umani elaborate dai paesi ricchi, che invece dovrebbero essere applicate universalmente”, conclude Dallaire.

La parola “genocidio” appare molte volte anche nelle lettere, negli appelli e negli articoli scritti in quegli anni dalla ricercatrice e attivista statunitense Alison De Forges, che era la referente dell’ong Human rights watch in Africa. De Forges era in contatto costante con persone sul campo in Ruanda e cercò di far capire al resto del mondo che si stava preparando un disastro.

Di recente l’organizzazione in difesa dei diritti umani ha pubblicato un archivio di materiali sul genocidio in Ruanda, molti dei quali raccolti e prodotti dalla ricercatrice. Hrw insiste sul tema della responsabilità e della giustizia: “Il trentesimo anniversario del genocidio ruandese è il momento opportuno per fare il punto sui progressi compiuti, a livello sia nazionale sia internazionale, nel chiamare a rispondere le persone sospettate di aver pianificato, ordinato ed eseguito le atrocità. È urgente accelerare questi sforzi visto che alcune delle menti dietro il genocidio non ci sono più e uno – Félicien Kabuga, finanziatore della famigerata radio Mille Collines – è stato dichiarato non idoneo a sostenere un processo”.

C’è infine un altro motivo per cui non possiamo considerare storia passata il genocidio del Ruanda: quell’evento ha innescato un conflitto enorme che continua ancora oggi nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Secondo il ricercatore Christoph Vogel, questa crisi “sta entrando nel quarto e forse più pericoloso decennio, con il forte rischio di un’escalation regionale.

Il conflitto, che attualmente coinvolge un centinaio di gruppi armati diversi, ha causato milioni di morti e sfollati nel corso degli anni. Dal 2021 è entrato in una nuova fase, segnata dal ritorno dei ribelli del Movimento 23 marzo (M23, che secondo il governo congolese e alcuni rapporti dell’Onu sono sostenuti da Kigali). Compagnie di sicurezza private e stati confinanti si sono uniti alla mischia e la vasta gamma di combattenti si è divisa su due fronti ben definiti: uno allineato con Kinshasa, l’altro con l’M23. La situazione deteriora di giorno in giorno e le prospettive di pace sono più lontane che mai”.

Questo testo è tratto della newsletter Africana.

martedì 9 aprile 2024

In libreria: Ernesto Buonaiuti, “Apologia del cattolicesimo”, a cura di Davide Romano, prefazione di Francesco Armetta, Edizioni La Zisa

 


L’Apologia del cattolicesimo venne pubblicata per la prima volta a Roma nel 1923 all’interno della collana Apologie, creata e diretta da Angelo Fortunato Formiggini. L’Apologia e il saggio di apologetica religiosa intitolato Verso la luce, guadagnarono al Buonaiuti la scomunica papale e la messa all’indice di tutte le sue opere. Le argomentazioni, così come affrontate dal Buonaiuti nell’Apologia, non si basavano più sui precetti della filosofia scolastica ma erano impregnate di un misticismo che diede vita ad una sorta di antitetico individualismo dell’anima. È lo stesso Buonaiuti a chiarire sin dall’inizio la sua tesi apologetica: «il movimento religioso, scaturito dalla predicazione del Vangelo, rappresenta la perfezione soprannaturale nello sviluppo della religiosità umana, e che del cristianesimo, sigillato e consacrato dalla luce incontaminata di un divino afflato rivelatore, il cattolicismo costituisce in una completa identità sostanziale la logica realizzazione nella storia».

 

Ernesto Buonaiuti (1881-1946), illustre esponente della corrente modernista italiana, presbitero e accademico, nei suoi studi indagò ogni aspetto e ogni figura appartenente alla storia cristiana. Oltre all’Apologia possiamo ricordare, tra i suoi scritti più significativi, Lutero e la Riforma religiosa in GermaniaGioacchino da FioreStoria del cristianesimo e l’autobiografia dal titolo Pellegrino di Roma.

lunedì 8 aprile 2024

“Vivere filosoficamente” di Davide Romano, giornalista




Vivere filosoficamente significa adottare un approccio esistenziale alla vita basato sulla riflessione critica, la ricerca di significato e la pratica di virtù etiche. Piuttosto che limitarsi a esistere passivamente, vivere filosoficamente implica un impegno attivo nel comprendere se stessi, il mondo circostante e il significato dell'esistenza umana.

Chi vive filosoficamente tende a porre domande profonde su temi quali la natura della realtà, la conoscenza, l'etica, il senso della vita e il bene comune. Questa ricerca di conoscenza e saggezza non è solo un'esercitazione intellettuale, ma un percorso che guida le azioni quotidiane e le scelte morali.

Vivere filosoficamente richiede un costante esame di sé e del mondo, un'apertura alla diversità di pensiero e un impegno verso la coerenza tra le proprie convinzioni e il proprio comportamento. Implica anche un'attenzione particolare all'etica e alla giustizia sociale, poiché la filosofia non riguarda solo la ricerca della verità, ma anche il perseguimento del bene e della virtù.

Questo modo di vivere può manifestarsi in diverse forme, a seconda delle tradizioni filosofiche e delle convinzioni personali. Alcuni potrebbero trovare ispirazione nel pensiero di filosofi come Socrate, Epitteto o Kant, mentre altri potrebbero seguire tradizioni spirituali o etiche che incoraggiano una vita contemplativa e riflessiva.

In definitiva, vivere filosoficamente significa adottare un approccio consapevole e critico alla vita, cercando di vivere in armonia con i propri valori, di perseguire la saggezza e di contribuire al bene comune. È un impegno continuo verso la crescita personale e il miglioramento del mondo che ci circonda, attraverso la riflessione, l'azione e la compassione.


venerdì 5 aprile 2024

“La scrittura come esercizio spirituale: il potere trascendente della parola” di Davide Romano, giornalista

 



La pratica della scrittura va ben oltre la composizione di semplici parole su carta. Per molti, è un'esperienza profondamente personale e talvolta spirituale che può portare a una maggiore consapevolezza di sé e al benessere mentale. La scrittura come esercizio spirituale è un'antica pratica che trova radici in molte tradizioni culturali e religiose, e continua a essere una fonte di ispirazione e riflessione per molti individui oggi.

 

Espressione del sé

Scrivere può essere un modo potente per esprimere ciò che altrimenti potrebbe rimanere inespresso. Attraverso le parole, siamo in grado di dare forma ai nostri pensieri, sentimenti e esperienze più profonde. La scrittura ci offre uno spazio sicuro per esplorare i nostri desideri, le nostre paure e le nostre speranze in modo intimo e privato. Questo processo di espressione del sé può portare a una maggiore comprensione di chi siamo e di ciò che ci muove nel mondo.

 

Riflessione e consapevolezza

Scrivere può anche fungere da strumento per la riflessione e la contemplazione. Attraverso la scrittura riflessiva, siamo in grado di esplorare i nostri pensieri e le nostre emozioni in modo più approfondito. Questo può aiutarci a sviluppare una maggiore consapevolezza di noi stessi e del mondo che ci circonda. La pratica regolare della scrittura riflessiva può portare a una maggiore chiarezza mentale e a una migliore comprensione delle nostre esperienze di vita.

 

Guarigione e benessere mentale

Per molti, la scrittura può essere anche un mezzo di guarigione e di benessere mentale. Scrivere su esperienze traumatiche o dolorose può essere un modo per elaborare e superare il dolore. La scrittura può anche aiutare a ridurre lo stress e l'ansia, fornendo uno sfogo per le emozioni negative. Molte persone trovano conforto e sollievo nel tenere un diario o nel scrivere poesie o storie che riflettono le loro esperienze di vita.

 

Connessione spirituale

La scrittura può anche essere un mezzo per esplorare la nostra connessione con qualcosa di più grande di noi stessi. Molte tradizioni spirituali insegnano che la scrittura può essere un modo per entrare in contatto con il divino o per esprimere la propria fede e devozione. Scrivere preghiere, meditazioni o riflessioni spirituali può essere un modo per approfondire la nostra pratica spirituale e nutrire la nostra connessione con il sacro.

 

Conclusione

In definitiva, la scrittura come esercizio spirituale può essere un'esperienza trasformativa che porta beneficio al corpo, alla mente e allo spirito. Attraverso la pratica della scrittura, siamo in grado di esprimere noi stessi, di riflettere sulle nostre esperienze e di connetterci con qualcosa di più grande di noi stessi. Che si tratti di tenere un diario personale, di scrivere poesie o di esplorare le proprie credenze spirituali, la scrittura può essere un potente strumento di auto-esplorazione e di crescita personale.

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...