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lunedì 16 settembre 2024

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano



L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese degli scrittori. Perché scrivere, in Italia, sembra piacere molto più che leggere. Non importa che il nostro amato Dante si rigiri nella tomba: siamo un popolo di aspiranti autori, ma di libri letti neanche l'ombra.

Prendiamo per esempio i dati dell'ISTAT: meno del 40% degli italiani ha letto un libro nell'ultimo anno. Tuttavia, se si dovesse chiedere quanti abbiano provato a scriverne uno, probabilmente ci troveremmo di fronte a un’altra statistica sorprendente. Siamo un popolo che ama parlare, e oggi, grazie ai social, anche scrivere. Blog, post su Facebook, storie Instagram, poesie improvvisate su TikTok... gli italiani amano lasciare il segno. Ma leggere? Beh, quello è un altro discorso.

 

Scrivere sì, leggere no: il paradosso italiano

Italo Calvino ci aveva già visto lungo, ironizzando su questa tendenza: "Scrivere è sempre un lavoro da dilettanti, leggere è una professione". In Italia, però, sembra che la professione del lettore non interessi a molti. Al massimo, qualche poesia di circostanza al matrimonio dell’amico, un aforisma su un biglietto d'auguri, oppure la lista della spesa.

Montanelli, dal suo pulpito di polemiche sagaci, era chiaro: “In Italia, chi legge è una minoranza e chi scrive è una moltitudine. Il guaio è che i secondi non leggono neanche i primi.” Ma perché leggere, quando si può benissimo passare il tempo a scrivere l'ennesima autobiografia di una vita che nessuno ha chiesto di conoscere? E così ci ritroviamo con centinaia di nuovi titoli nelle librerie, che nessuno sfoglia, ma che tutti vogliono pubblicare.

 

La "tragedia" della lettura

Se pavese diceva che "un paese che non legge è un paese senza futuro", potremmo aggiungere che un paese che scrive senza leggere è un paese schizofrenico. Antonio Gramsci, con il suo spirito critico, ci avrebbe probabilmente bacchettati: “Formare una coscienza critica richiede lettura e riflessione, non solo parole.” Eppure, il mondo editoriale italiano è invaso da aspiranti scrittori che si credono il nuovo Proust. Il problema? Non hanno mai letto nemmeno Alla ricerca del tempo perduto. E come potrebbero? Il tempo perduto è tutto impiegato a postare selfie letterari su Instagram.

Norberto Bobbio, filosofo di grande levatura, avrebbe detto che questa carenza di lettori mina la stessa democrazia. Perché la lettura è confronto, apertura mentale. Scrivere senza leggere, invece, è solo un monologo infinito, una gara a chi urla più forte.

 

Librerie deserte, bacheche piene

Nel frattempo, le librerie italiane continuano a chiudere. Più di 700 hanno serrato le porte nell'ultimo anno, e chi resta aperto deve fare i conti con clienti che entrano solo per chiedere dove si trova l'angolo caffè. Umberto Eco, che dei libri aveva fatto una missione di vita, avrebbe probabilmente alzato le mani al cielo: "La televisione è diventata un elettrodomestico, i libri no". Se avesse vissuto l'epoca degli e-book, probabilmente sarebbe stato più pessimista.

E mentre gli italiani continuano a ignorare i libri, il numero di autopubblicazioni cresce. Si aprono gruppi Facebook di aspiranti scrittori, si avviano start-up editoriali per chiunque voglia vedere il proprio nome in copertina. Ma la verità, citando Woody Allen, è che "chi non legge, non ha niente da dire". Eppure, in Italia, tutti sembrano avere qualcosa da scrivere.

 

Una razza in via d'estinzione?

Così, ci ritroviamo a essere il Paese di scrittori che non legge. Un paradosso degno di Luigi Pirandello, che sarebbe perfetto per un suo dramma moderno: personaggi in cerca di un autore, ma senza mai averne letto uno. Forse è questo il destino della nostra cultura: estinguere i lettori e moltiplicare gli scrittori, in una spirale infinita di parole senza peso.

Medio Oriente, Romano (Compagnia del Vangelo) lancia la sottoscrizione di un appello a Israele: “Fermatevi, la vostra storia vi chiama alla pace”.

 




Davide Romano, giornalista di lungo corso e fondatore della Compagnia del Vangelo, un gruppo ecumenico informale che ha come scopo il dialogo e il servizio ai più poveri, lancia un appello deciso e diretto al popolo d'Israele: “Fermatevi, la vostra storia non può essere quella di una guerra eterna con i palestinesi.” Romano, impegnato da anni nel dialogo interreligioso ed ecumenico, non si perde in retorica, ma va dritto al punto: Israele deve fermarsi e riflettere, perché la pace non è un’opzione tra tante, è l’unica via per uscire dal baratro.

Romano richiama con forza le radici storiche e culturali del popolo israeliano. “Il Talmud ci insegna: ‘Chi salva una vita, salva il mondo intero.’ E quante vite si stanno perdendo oggi?”. Con queste parole, il giornalista sottolinea il peso morale che grava sulle spalle di Israele. Per un popolo che ha conosciuto il dolore dell’esilio e l’orrore della Shoah, Romano sottolinea che non si può permettere che quelle stesse ferite giustifichino nuove ingiustizie. “La violenza porta solo altra violenza”, scrive Romano, senza lasciare spazio a interpretazioni.

 

Una storia che non può essere ignorata

Nell’appello, pubblicato sul blog della Compagnia del Vangelo (https://lacompagniadelvangelo.blogspot.com), Romano cita figure storiche come Martin Buber e Shimon Peres, ma lo fa per lanciare un messaggio senza fronzoli. “Il vero dialogo non è tra amici, ma tra nemici”, afferma, ricordando che la pace si costruisce con fatica e compromessi, non con le armi. L'appello si rivolge non solo ai leader politici, ma anche al popolo comune, a chi vive quotidianamente il conflitto e deve trovare il coraggio di guardare negli occhi chi è dall'altra parte.

 

Un invito aperto a tutti

Romano non si ferma a un generico richiamo morale. Invita chiunque, istituzioni e cittadini comuni, a sottoscrivere il suo appello per la pace. Per aderire basta inviare una mail a lacompagniadelvangelo@yahoo.com, un gesto semplice che può fare la differenza. La convinzione di Romano è chiara: “Ogni piccolo atto di sostegno al dialogo è un passo verso la pace, e ignorare questo appello significa restare complici della violenza e dell'indifferenza”.

 

La scelta obbligata

In un contesto internazionale sempre più polarizzato, Romano chiude il suo appello con una riflessione amara ma inevitabile: “O scegliamo la pace, o ci condanniamo a vivere in un futuro di sangue e distruzione”. Non c’è spazio per esitazioni: il tempo per agire è adesso, e il percorso verso la pace non può più essere rimandato.

Per Romano, la pace non è solo un desiderio o un’aspirazione, ma una scelta obbligata. “Israele deve ricordare il suo passato per costruire un futuro diverso”, conclude il giornalista, “perché la vera forza non sta nel brandire le armi, ma nel trovare il coraggio di deporle e dialogare”.

 

venerdì 13 settembre 2024

“La Chiesa Luterana tra modernità e tradizione. Analisi di una crisi” di Davide Romano, giornalista




Se guardiamo ai numeri, la crisi della Chiesa Luterana, uno dei pilastri della Riforma protestante, appare in tutta la sua drammaticità. Un tempo simbolo di ribellione contro il centralismo romano e l’autoritarismo papale, oggi la Chiesa Luterana si trova a dover fronteggiare una crisi di identità e numeri che preoccupa i suoi stessi leader. I dati non mentono: secondo un rapporto del Pew Research Center del 2023, in Germania, la patria del Luteranesimo, la partecipazione attiva alle funzioni religiose è scesa al di sotto del 5%. Questo significa che oltre il 95% della popolazione luterana non mette piede in chiesa, se non per occasioni speciali come matrimoni o funerali.

 

Il crollo delle vocazioni e la perdita di fedeli

Le vocazioni sacerdotali sono ai minimi storici. Nel 2022, in tutta Europa, solo il 2% dei pastori luterani era sotto i 40 anni, segno di un clero sempre più anziano e scollegato dalle nuove generazioni. Se confrontiamo questi dati con quelli di qualche decennio fa, vediamo una caduta vertiginosa: nel 1950, i pastori luterani sotto i 40 anni costituivano il 25% del totale. Il teologo tedesco Jürgen Moltmann, uno dei pensatori luterani contemporanei più rispettati, scomparso da poco, qualche tempo fa ha commentato amaramente: “La Chiesa Luterana sembra aver perso la capacità di parlare al cuore delle persone. La nostra teologia, che un tempo ispirava ribellione e cambiamento, oggi è percepita come sterile e lontana dalla realtà sociale”.

Non solo in Germania, ma anche nei Paesi scandinavi, tradizionalmente roccaforti del Luteranesimo, la situazione non è migliore. In Svezia, dove oltre il 60% della popolazione si identifica ancora come luterana, la partecipazione attiva alle funzioni religiose è scesa al 2%. Per dare un’idea del cambiamento, negli anni ‘70, questa cifra era intorno al 15%. Lo scrittore svedese Jonas Jonasson, nel suo libro L'analfabeta che sapeva contare, ironizza su questo declino, descrivendo la Chiesa Luterana come “un’antica nave senza vento, alla deriva nell’oceano della modernità”.

 

La sfida del secolarismo

Molti studiosi concordano nel dire che la crisi della Chiesa Luterana è strettamente legata all’avanzare del secolarismo. Le società moderne, soprattutto quelle europee, hanno sempre più allontanato la religione dalle loro vite quotidiane. In Germania, ad esempio, il 40% dei giovani tra i 18 e i 29 anni si dichiara ateo o agnostico. Il sociologo Max Weber aveva già previsto questo fenomeno con il concetto di disincanto del mondo, secondo il quale il progresso scientifico e tecnologico avrebbe portato alla perdita di significato delle credenze religiose nella vita delle persone.

Lutero stesso, con la sua radicale riforma, aveva cercato di semplificare il rapporto tra l’uomo e Dio, eliminando la mediazione ecclesiastica e promuovendo una fede personale e diretta. Ma in un mondo dove la tecnologia e la scienza sembrano fornire risposte immediate e concrete ai problemi dell’esistenza, la proposta luterana appare per molti come obsoleta. La Chiesa Cattolica, con la sua struttura gerarchica e rituale solenne, resiste meglio a questa tendenza, riuscendo a mantenere un legame più stretto con le tradizioni e, paradossalmente, a offrire un rifugio a chi cerca stabilità spirituale.

 

Divisioni interne e contrasti dottrinali

Un altro aspetto della crisi è la frammentazione interna. La Chiesa Luterana non è mai stata monolitica, ma negli ultimi anni le divisioni si sono accentuate. Da un lato, vi è una corrente progressista, rappresentata da figure come il teologo statunitense Nadia Bolz-Weber, che promuove un’apertura verso le tematiche LGBTQ+ e una riforma radicale del ruolo della donna nella Chiesa. Dall’altro, esistono gruppi conservatori che vedono in queste aperture un tradimento della tradizione. Il pastore danese Henrik Svenning, noto per le sue posizioni conservatrici, ha recentemente dichiarato che “la Chiesa Luterana sta per perdere la sua anima nel tentativo di rincorrere la modernità”.

Queste tensioni dottrinali hanno portato a spaccature non solo all’interno delle singole comunità, ma anche tra le diverse chiese luterane nazionali. Negli Stati Uniti, ad esempio, la Evangelical Lutheran Church in America (ELCA) ha adottato posizioni progressiste su molte questioni sociali, mentre altre chiese luterane, come la Lutheran Church-Missouri Synod, mantengono una visione più tradizionale.

 

La perdita di influenza politica

Sul fronte politico, la Chiesa Luterana ha visto ridurre drasticamente la sua influenza. Se fino alla metà del XX secolo, in paesi come la Germania, la Svezia e la Norvegia, i partiti cristiano-democratici e conservatori avevano forti legami con la Chiesa Luterana, oggi questo rapporto si è allentato. L’ex cancelliere tedesco Angela Merkel, figlia di un pastore luterano, ha incarnato per anni una connessione tra religione e politica, ma con il suo ritiro dalla scena politica, anche questo simbolo di unione sembra destinato a scomparire.

Oggi, i partiti principali in Europa, anche quelli di centrodestra, tendono a mantenere le questioni religiose ai margini del dibattito politico. La globalizzazione e la crescente pluralità religiosa hanno fatto sì che il Luteranesimo, un tempo motore di rivoluzioni politiche e sociali, oggi sia relegato a una posizione marginale nella sfera pubblica.

 

Un futuro molto incerto

Il futuro della Chiesa Luterana è molto incerto. Da un lato, vi sono voci che chiedono un rinnovamento radicale, che la renda più attraente per le nuove generazioni; dall’altro, c’è chi teme che questo possa snaturare completamente la sua identità. Come ha scritto recentemente lo storico britannico Diarmaid MacCulloch nel suo libro Christianity: The First Three Thousand Years, “la sfida per il Luteranesimo non è solo sopravvivere in un mondo secolare, ma trovare una nuova ragione d'essere”.

In questo contesto, la Chiesa Luterana si trova davanti a un bivio: continuare a cercare un compromesso con la modernità o riscoprire le proprie radici storiche e dottrinali per rimanere fedele al messaggio originale di Lutero. Ma in un mondo sempre più distante dalla spiritualità, il rischio è che qualsiasi scelta si riveli insufficiente.

“La Chiesa Anglicana fra tradimenti e silenzi” di Davide Romano, giornalista

 


“Quando la Chiesa dimentica di essere la casa della verità e si preoccupa solo di conservare il proprio potere, diventa complice del peccato che avrebbe dovuto denunciare”. Le parole di Hans Küng, teologo svizzero e acuto critico delle istituzioni religiose, sembrano descrivere perfettamente la crisi che ha travolto la Chiesa Anglicana, una delle colonne spirituali della Gran Bretagna, che è stata scossa da numerosi scandali che l'hanno allontanata dalla missione di Cristo. 

In questa analisi, cercheremo di capire come questa crisi sia esplosa e perché la Chiesa d'Inghilterra sembri sempre più lontana dal risorgere. Come ammoniva il Vangelo di Luca: “Non c'è nulla di nascosto che non sarà rivelato, né di segreto che non sarà conosciuto” (Luca 12:2). E i segreti, nel caso della Chiesa Anglicana, sono ormai in bella vista.

 

Il crollo morale e il caso degli abusi

Uno dei capitoli più devastanti riguarda gli abusi sessuali. Il Rapporto IICSA del 2019 ha sollevato il velo su decenni di orrori nascosti all'interno della Chiesa Anglicana. Tra il 1940 e il 2018, furono identificate almeno 384 vittime di abusi sessuali. Le accuse non si limitano a semplici membri del clero, ma coinvolgono alte gerarchie che, invece di intervenire, hanno scelto di coprire gli abusi per proteggere la reputazione dell’istituzione. Come il profeta Isaia scriveva: “Le tue mani sono piene di sangue” (Isaia 1:15). Quel sangue simbolico è ora davanti agli occhi di tutti.

Un esempio drammatico è stato il caso di Peter Ball, vescovo di Gloucester, condannato per aver abusato di giovani ragazzi. Nonostante le accuse fossero state sollevate già negli anni ’90, la Chiesa lo difese, garantendogli protezione, persino tramite membri della famiglia reale. Lo storico Adrian Hastings scrisse in quel periodo che “l’arroganza del potere ecclesiastico sembra prevalere sull’umiltà della fede,” un’osservazione che si rivela tristemente profetica. Come dice San Paolo: “I vescovi devono essere irreprensibili” (Tito 1:7), ma in questo caso, l'irreprensibilità è stata sacrificata sull’altare dell’omertà.

 

Il declino della fede: i numeri di un disastro spirituale

Al di là degli scandali morali, la Chiesa Anglicana è minata da un progressivo abbandono della fede da parte dei suoi fedeli. Secondo un sondaggio di YouGov del 2020, solo il 12% degli inglesi si dichiara ancora anglicano, un crollo impressionante rispetto al 40% del 1980. Ma il dato più allarmante è la partecipazione attiva: meno del 2% della popolazione britannica partecipa regolarmente alle funzioni religiose.

Philip Jenkins, noto storico della religione, ha sottolineato che "le istituzioni religiose che cercano di adattarsi troppo velocemente alla modernità, paradossalmente, perdono sia il senso della tradizione che la fiducia dei fedeli". La Chiesa Anglicana, con i suoi tentativi di rimanere rilevante di fronte a una società sempre più secolarizzata, ha progressivamente perso di vista il suo mandato spirituale. Si ripete così il monito del Vangelo: “Il sale ha perso il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato?” (Matteo 5:13).

 

Corruzione e gestione delle proprietà: il denaro sopra la fede?

Altro grande nodo riguarda la gestione del patrimonio immobiliare della Chiesa. Si stima che la Chiesa Anglicana possieda asset per un valore di circa 8.7 miliardi di sterline, ma le continue vendite di chiese e terreni stanno alimentando critiche per una gestione miope. Lord George Carey, ex arcivescovo di Canterbury, ha commentato in merito: “La Chiesa sta vendendo la sua anima per far fronte a una crisi economica, ma la crisi è spirituale”.

Le vendite di edifici storici, spesso trasformati in alberghi di lusso o residenze private, sono state duramente criticate anche da esponenti laici. L’economista David McWilliams ha definito questa operazione “una svendita del patrimonio spirituale dell’Inghilterra”. Il filosofo Alasdair MacIntyre ha poi riflettuto sul declino delle istituzioni religiose occidentali, osservando che “il capitalismo moderno corrompe le strutture tradizionali, compresa la Chiesa, dove il profitto diventa il fine anziché il mezzo”.

 

Le divisioni sui diritti civili: una chiesa spaccata

Le questioni morali hanno ulteriormente diviso la Chiesa. Il dibattito sull’ordinazione di vescovi omosessuali e il matrimonio tra persone dello stesso sesso ha creato uno scisma. Durante la Lambeth Conference del 2022, molti vescovi provenienti da paesi africani, dove la Chiesa Anglicana è particolarmente influente, si sono opposti violentemente alle aperture progressiste della leadership britannica. John Sentamu, arcivescovo emerito di York, ha osservato con amarezza: “Questa non è più la Chiesa unita che una volta portava il Vangelo in tutto il mondo”.

Le province africane, come la Nigeria e l’Uganda, hanno minacciato di abbandonare la Comunione anglicana, ritenendo che la Chiesa britannica abbia tradito i valori tradizionali. In merito, G.K. Chesterton, noto scrittore cristiano, diceva: “La Chiesa non ha bisogno di cambiare per rimanere fedele, ma di rimanere fedele per cambiare il mondo”.

 

Riflessioni bibliche sul futuro della chiesa

Il futuro della Chiesa Anglicana appare incerto. L’abbandono dei fedeli, le divisioni interne e il tradimento dei principi fondamentali lasciano molti a chiedersi se l’istituzione possa ancora recuperare la sua posizione di guida morale. “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono in me, è meglio per lui che gli sia appesa al collo una macina” (Matteo 18:6). Le parole di Cristo echeggiano sinistramente nel contesto di oggi. La Chiesa, una volta faro morale del Regno Unito, sembra aver perso la sua strada.

La domanda finale rimane: c’è ancora spazio per il pentimento e la riforma? San Paolo scriveva: “Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Romani 5:20), ma tale grazia deve essere cercata con un sincero ritorno alla verità. Il tempo dirà se la Chiesa Anglicana sarà in grado di risollevarsi, o se affonderà definitivamente nel suo declino.

 

Fonti:

•        Independent Inquiry into Child Sexual Abuse (IICSA), 2019

•        YouGov, 2020-2022

•        Chesterton, G.K. "Orthodoxy", 1908

•        Jenkins, Philip. "The Next Christendom", 2002

•        Alasdair MacIntyre. "After Virtue", 1981

 

“L’ultimo guardiano della verità (o quasi). Il giornalista tra vocazione e realtà” di Davide Romano

 


“Il giornalismo è stampa scritta in fretta, ma pensata per sempre”, diceva Arthur Miller. Mi piacerebbe davvero tanto che fosse così. La realtà però, caro Miller, oggi è che lo scriviamo in fretta, lo leggiamo ancora più in fretta e ci dimentichiamo di averlo letto prima di finire il caffè. Nel mare tumultuoso della società contemporanea, il giornalista dovrebbe essere l'ultimo baluardo della verità, ma ahimè, finisce più spesso come il primo a essere sbattuto fuori dalla porta della redazione quando arrivano gli sponsor.

Non è un mestiere per deboli di cuore, questo no. George Orwell lo aveva capito benissimo: “In un'epoca di inganni universali, dire la verità è un atto rivoluzionario”. E in effetti, dire la verità è quasi diventato uno sport estremo, con il giornalista che si trasforma in un moderno funambolo, camminando su una corda tesa fra l’idealismo e la bancarotta personale.

La stampa viene ancora definita il "quarto potere", ma a ben vedere, oggi pare più il "quarto debito". La crisi economica e la necessità di ingraziarsi questo o quel potente hanno trasformato molti giornalisti in autori di bollettini aziendali o, peggio, di manifesti elettorali camuffati. Ma Indro Montanelli ci aveva avvertiti: "Il giornalista non deve mai essere di sinistra, di destra o di centro. Deve solo essere dalla parte dei fatti". Parole dure e chiare come il suo sigaro. Eppure, oggi il giornalista sembra essere un povero cronista intrappolato in un castello di carte in rovina, costretto a servire troppe cause, tranne quella della verità.

Albert Camus, dal canto suo, vedeva nel giornalismo una missione etica: “Una stampa libera può, ovviamente, essere buona o cattiva, ma senza libertà, la stampa non sarà mai altro che cattiva”. Una verità scomoda, che però fa sbadigliare più di qualcuno, soprattutto nelle sale di redazione, dove le preoccupazioni ruotano più attorno ai click che ai contenuti. La libertà di stampa? Beh, quella la trovi ancora, ma nei vecchi archivi polverosi. O, se proprio va bene, nei libri di storia.

Nonostante tutto, qualcuno ancora resiste. Ci sono quelli come Anna Politkovskaja, che hanno pagato il prezzo più alto per difendere il diritto di raccontare la verità. Loro ci ricordano che il giornalista dovrebbe essere un eroe tragico, e invece spesso si ritrova a interpretare il ruolo dell'eroe comico, cercando di salvare il salvabile tra una telefonata del capo e l'ennesima richiesta del marketing.

Ah, la dignità del mestiere! Ciò che Hannah Arendt definiva come la "sfera pubblica", quel luogo sacro in cui l'informazione dovrebbe essere corretta, verificata, accessibile a tutti. Oggi, quella sfera è stata trasformata in un palloncino pubblicitario, gonfiato di falsità e pronto a scoppiare al primo contatto con la realtà. Ma il vero giornalista? Lui resiste. O almeno ci prova, finché qualcuno non gli fa notare che la verità non paga l'affitto.

Eppure, non dobbiamo cadere nel cinismo. Gabriel García Márquez amava dire che “il giornalismo è il miglior lavoro del mondo”. Certo, Gabriel, ma prova a dirlo a chi si ritrova a scrivere pezzi su come perdere peso in dieci giorni perché è il contenuto che "funziona meglio online". Il giornalista dovrebbe essere un costruttore di storie, un interprete di quel caos che chiamiamo realtà. Ma oggi, è più probabile che venga trasformato in un compilatore di liste o in un commentatore di meme.

Ryszard Kapuściński ammoniva: “Per essere un buon giornalista, devi essere una brava persona”. Verissimo, ma oggi la lista dei requisiti include anche: saper usare i social media, conoscere almeno un algoritmo, e soprattutto avere un contratto a tempo indeterminato. Cosa? Il contratto? Ah, scusate, quello era un sogno.

Il giornalismo dovrebbe essere una vocazione, come diceva Honoré de Balzac, una "grande catapulta preparata per andare più lontano". Eppure oggi sembra una fionda malandata, tesa tra la necessità di sopravvivere e la speranza di raccontare, ogni tanto, qualcosa che abbia un briciolo di verità.

E allora, come ci ricorda Joseph Pulitzer, “un giornalista è colui che può vedere nel buio”. Sì, certo, e con un po' di fortuna, potrà anche pagare la bolletta della luce.

 


“Da Washington a Biden, la fede dei presidenti Usa una bussola o un’arma politica?” di Davide Romano

 



L’America, che ha scritto il principio di separazione tra Stato e Chiesa nella sua Costituzione, non ha mai smesso di intrecciare la politica con la religione. Se ieri il giuramento dei presidenti avveniva con la mano su una Bibbia, la stessa scena si è ripetuta con Joe Biden, il secondo cattolico alla Casa Bianca, dopo John F. Kennedy. Ma cosa significa, oggi, parlare di fede in politica? E quanto è reale la devozione dei presidenti moderni?

 

Biden, cattolicesimo e compassione sociale

Partiamo dal presente. Joe Biden, presidente che non ha mai nascosto la sua profonda fede cattolica, si è trovato a guidare un’America più polarizzata che mai. La sua storia personale, segnata da lutti familiari e tragedie, lo ha avvicinato al lato umano e compassionevole del cattolicesimo. Non è raro vederlo partecipare alla messa o fare riferimento alla sua fede in discorsi pubblici. “La fede mi ha dato speranza e conforto quando ho perso mio figlio”, ha detto più volte.

Ma c’è chi accusa Biden di ipocrisia: mentre professa una fede profonda, il suo approccio politico su temi come l’aborto e i diritti LGBTQ è in conflitto con le posizioni ufficiali della Chiesa cattolica. Qui emerge la tensione tra il cattolico Biden e il politico Biden, costretto a navigare tra le sue convinzioni personali e le richieste di un elettorato progressista.

 

Trump, l’evangelismo politico

Se Biden rappresenta il cattolicesimo compassionevole, Donald Trump è il campione del movimento evangelico conservatore, un gruppo che ha avuto un ruolo cruciale nel portarlo alla Casa Bianca. Eppure, la fede personale di Trump è sempre stata motivo di perplessità. Poche volte lo si è visto in chiesa, e raramente ha fatto riferimenti spirituali autentici.

Ma Trump ha saputo usare la religione come strumento politico. Con un linguaggio che mescolava patriottismo e fede, si è presentato come il difensore della “città sulla collina”, un riferimento biblico caro agli evangelici. “Nessuno ha fatto più di me per i cristiani in questo paese”, dichiarò una volta, enfatizzando le sue politiche anti-aborto e la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema. Se fosse autentica convinzione o pura strategia elettorale, è difficile dirlo. Di certo, la sua presidenza ha cementato l’alleanza tra la politica repubblicana e la destra religiosa.

 

Obama, fede personale, ma laica

Prima di Trump, Barack Obama, il primo presidente afroamericano, portò una visione più laica, ma comunque radicata nella fede. Anche se raramente si definiva un fervente praticante, Obama trovò nelle Scritture ispirazione per i suoi discorsi pubblici, spesso citando la Bibbia per parlare di giustizia sociale. “Sono il custode di mio fratello e di mia sorella ”, ripeteva, facendo eco al cristianesimo sociale che aveva appreso frequentando la chiesa di Chicago.

Ma la sua fede fu messa in dubbio sia da destra che da sinistra. La destra lo accusava di non essere abbastanza cristiano, insinuando addirittura che fosse segretamente musulmano, mentre la sinistra criticava il suo uso della religione per giustificare interventi sociali e militari. Obama camminava su un filo sottile: un presidente che parlava di fede, ma che cercava di tenere quella stessa fede fuori dalle sue decisioni politiche.

 

Bush e il ritorno della religione in politica

L’ascesa di George W. Bush segnò un punto di svolta nella storia recente della fede presidenziale. Bush, un convertito evangelico, un "nato di nuovo", fece della sua religione una parte integrante della sua politica. “Ho trovato Dio nei momenti di difficoltà”, dichiarò più volte, parlando della sua lotta con l’alcolismo e della sua rinascita spirituale.

Ma la sua fede non si fermava alla vita privata. Durante la presidenza, Bush invocò il nome di Dio per giustificare decisioni politiche cruciali, come la guerra in Iraq. “Il male deve essere sconfitto”, dichiarò, usando un linguaggio quasi biblico per definire la lotta al terrorismo. Tuttavia, la sua fusione tra religione e politica suscitò non poche critiche, anche tra i suoi stessi alleati, che temevano una deriva teocratica.

 

La fede dei presidenti

La fede dei presidenti americani, da Washington a Biden, passando per Trump e Obama, rimane una questione complessa e ambigua. È stata, per alcuni, una guida sincera nella vita e nella politica, per altri, uno strumento di potere. Sant’Agostino scriveva: “La fede è credere in ciò che non vedi; la ricompensa della fede è vedere ciò che credi”. Ma per i presidenti americani, quanta parte della loro fede è stata vera convinzione, e quanta semplice necessità elettorale?

Nell’America di oggi, sempre più divisa, la fede resta una bussola morale per alcuni e un’arma politica per altri.

“La Bibbia nella cultura americana, tra sacro e profano, un mito fondante” di Davide Romano

 



Se c’è un testo che ha influenzato profondamente la cultura americana, dalla politica alla letteratura, passando per la musica e il cinema, è la Bibbia. In un paese fondato su princìpi di libertà religiosa, paradossalmente la Bibbia ha attraversato ogni aspetto della vita pubblica e privata. Non si tratta solo di un testo religioso: per molti americani è un simbolo di identità nazionale, una bussola morale, e talvolta, uno strumento politico.

 

Le radici bibliche dell’America

La relazione dell’America con la Bibbia risale agli inizi della sua storia. Quando i Padri Pellegrini sbarcarono sulle coste del New England nel 1620, portarono con sé una visione del mondo fortemente influenzata dalle Scritture. John Winthrop, uno dei leader della colonia del Massachusetts, nel celebre sermone “A Model of Christian Charity” parlò di una "città sulla collina", un’immagine tratta dal Vangelo di Matteo (5:14), che divenne una metafora duratura per la missione divina dell’America.

“Siamo una nazione sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”, recita il Giuramento di fedeltà, aggiunto solo nel 1954, durante la Guerra Fredda, ma che rivela quanto la fede e il senso di destino abbiano sempre marcato la storia americana.

 

La Bibbia come mito fondatore

Alexis de Tocqueville, osservatore acuto della democrazia americana, scrisse nel suo classico “La democrazia in America” (1835): “Non ho mai visto un paese in cui la religione cristiana abbia una tale influenza sulla società quanto negli Stati Uniti. Nessun altro popolo sembra aver intrecciato così strettamente la fede con le sue istituzioni politiche”. Tocqueville notò che la Bibbia non solo era presente nelle case, ma anche nei tribunali, nelle scuole e, naturalmente, nei discorsi politici.

 

Letteratura e Bibbia, un matrimonio secolare

Il potere della Bibbia in America non si limita alla sfera religiosa. Scrittori come Herman Melville, Nathaniel Hawthorne e Mark Twain hanno tutti trovato nella Bibbia una fonte di ispirazione, e talvolta di satira. Melville, nel suo capolavoro Moby Dick, utilizza riferimenti biblici per descrivere la lotta epica tra l’uomo e il destino. L’ossessivo capitano Achab, nella sua caccia alla balena bianca, diventa un moderno Giobbe, ribellandosi contro un Dio silenzioso e crudele.

Mark Twain, sempre pungente, ironizzò: “La Bibbia contiene tesori inestimabili e le migliori cure per l’immaginazione, ma è come il vino di buona annata, deve essere presa con moderazione”. Twain era consapevole dell’influenza della Bibbia sulla cultura popolare, ma allo stesso tempo ne criticava l’uso strumentale da parte della politica.

 

La Bibbia come strumento politico

In effetti, pochi libri hanno avuto un peso così determinante nella politica americana quanto la Bibbia. Come osserva il politologo Kevin Kruse nel suo libro “One Nation Under God” (2015), la Bibbia è stata spesso usata per giustificare politiche di ogni sorta. Durante la Guerra Civile, sia i nordisti che i sudisti trovavano nelle Scritture giustificazioni per le loro rispettive cause. Abraham Lincoln, uno dei presidenti più legati alla fede, disse nel suo Secondo discorso inaugurale (1865): “Entrambe le parti leggono la stessa Bibbia e pregano lo stesso Dio, e ciascuno invoca il Suo aiuto contro l'altro”.

Ma se Lincoln usava la Bibbia per cercare una riconciliazione morale, altri hanno spesso usato il testo sacro per fini meno nobili. Franklin D. Roosevelt, in uno dei momenti più drammatici della Seconda Guerra Mondiale, citò il Salmo 91 in un discorso radiofonico del 1941, per rafforzare la fiducia della nazione nella vittoria: “Non temerai il terrore della notte, né la freccia che vola di giorno”. La Bibbia, dunque, non era solo un testo religioso, ma un potente strumento retorico.

 

Religione e diritti civili

Se la Bibbia è stata usata per giustificare la schiavitù, è anche vero che è stata l’arma più potente dei leader dei diritti civili. Martin Luther King Jr., pastore battista e leader del movimento, attingeva costantemente alle Scritture per sostenere la giustizia razziale. In uno dei suoi discorsi più noti, “I Have a Dream” (1963), King invocò l'immagine biblica di “ogni valle sarà colmata e ogni montagna e colle saranno abbassati” (Isaia 40:4), prefigurando una nuova era di uguaglianza e giustizia.

James Baldwin, scrittore afroamericano, in “The Fire Next Time” (1963), denunciò come la Bibbia fosse stata usata sia come strumento di oppressione che di liberazione. “L’eredità biblica è quella di un popolo in esilio”, scrisse Baldwin, suggerendo che la lotta degli afroamericani per i diritti civili fosse simile alla lotta del popolo ebraico per la liberazione.

 

Il declino della Bibbia?

E oggi? L’influenza della Bibbia nella cultura americana sembra diminuire in un’epoca di secolarizzazione crescente. Eppure, come osserva l’editorialista del New York Times Ross Douthat, “anche quando la fede si indebolisce, il linguaggio e i simboli della Bibbia restano profondamente radicati nella coscienza americana”. Anche la cosiddetta “guerra culturale” moderna, che vede contrapposti progressisti e conservatori, trova le sue radici in interpretazioni diverse del testo sacro.

La Bibbia, con le sue storie di creazione, distruzione e redenzione, è stata e rimane un pilastro della cultura americana. Ralph Waldo Emerson, filosofo e saggista del XIX secolo, scrisse: “La Bibbia è una delle opere più profonde e universali mai scritte, capace di parlare a ogni epoca e a ogni condizione umana”. Che venga letta con fede o con scetticismo, resta un testo imprescindibile per comprendere l'anima americana. E, come la nazione stessa, continua a suscitare dibattiti, ispirare sogni e, talvolta, alimentare conflitti.

 

martedì 10 settembre 2024

"La Verità sotto una pila di libri (e dove metterla prima che crolli tutto)" di Davide Romano, giornalista

 


Il mio primo impatto con i libri è stato un incontro fatale, quasi un colpo di fulmine. Mio nonno materno, che non parlava mai di sé, ma lasciava che i suoi libri parlassero per lui, mi aprì le porte della sua biblioteca come un sacerdote che introduce il novizio al mistero. Immaginate scaffali che parevano sostenere l’intera volta celeste, poltrone di pelle consunta da anni di letture e silenzio, e un ragazzino che, piuttosto che correre dietro a un pallone, si trovava incastrato tra tomi più grandi di lui. Se qualcuno mi avesse detto che quel giorno sarebbe stato l'inizio di un'ossessione, non gli avrei creduto. Eppure eccomi qui, con una casa trasformata in una succursale della biblioteca nazionale e il costante problema di dove infilare l’ennesimo volume.

Ogni volta che entro in una libreria – o che ci entravo, perché ora rischio di essere portato via con la camicia di forza – sento lo stesso richiamo di allora. La differenza è che, ai tempi, mio nonno mi regalava i suoi libri; ora invece sono io a sacrificare stipendi, spazi vitali e, talvolta, anche rapporti umani per far entrare in casa l’ennesimo libro. Perché sì, non è mai “un libro in più,” è sempre l’ultimo. Questo mi ripeto, mentre devo decidere se piazzare Kierkegaard sullo sgabello o smontare il lampadario per fare spazio a una nuova pila. D’altronde, diceva Montaigne: "Mi considero felice se ho un libro sotto mano". Io però non ne ho solo uno, ne ho diecimila. Più che felice, ormai sono sepolto.

La cosa ironica è che ogni volume acquistato è frutto di un calcolo, di una necessità quasi metafisica. "Questo mi servirà per capire meglio l’esistenzialismo russo." "Questo altro è perfetto per completare la mia collezione di commentari biblici." "Questo? Beh, non posso non avere questo, no?" Mi giustifico con citazioni bibliche e filosofiche. "Molto studio affatica il corpo" (Ecclesiaste 12:12), ma tanto il corpo lo uso giusto per spostare i libri da un angolo all’altro. L’ultimo episodio comico è stato quando ho dovuto dormire in posizione fetale, circondato da volumi di Heidegger e Sant’Agostino, come un anacoreta circondato dalle sue reliquie. Almeno loro, però, avevano lo spazio per respirare.

Si potrebbe pensare che questa ossessione per la carta sia il segno di una mente smarrita. Non nego che, a tratti, sembra così anche a me. Qualche anno fa, mentre stavo organizzando un’intera sezione della mia biblioteca in base all’ordine alfabetico degli autori – un atto di megalomania pura – mi resi conto di essere diventato una specie di governante della mia follia. Ogni volta che trovo un libro fuori posto, sento un fastidio quasi fisico, come se quel disordine minasse la ricerca della verità che mi perseguita da sempre. E qui entra il paradosso: accumulo libri in cerca di verità, ma ogni volta che ne apro uno, non trovo che nuove domande. "Chi cerca trova", sì, ma qui si trova solo altro da cercare.

E mio nonno? Lui rideva sotto i baffi, lo vedo ancora, mentre mi porgeva quel suo volume di Dante, con un’espressione che sembrava dire: “Ti stai cacciando in un bel guaio, ragazzo.” Aveva ragione. È iniziato tutto con la Divina Commedia, e ora mi trovo in un inferno cartaceo dal quale non riesco più a uscire. Il mio amico Leopardi – che occupa un intero scaffale, tra l’altro – diceva che la felicità è un miraggio, un desiderio che non si realizza mai del tutto. E io, collezionando libri, ho solo ingrandito quel miraggio.

Forse è vero, come dice Pascal, che "non cercheresti Dio se non lo avessi già trovato." Ma tra diecimila libri, Dio lo trovo solo tra le pagine, e ogni volta si nasconde un po’ più in là. Continuo a comprare, continuo a leggere, continuo a cercare. Chissà, forse un giorno troverò la Verità nascosta sotto l’ennesima pila di libri, proprio mentre la mia casa crolla su se stessa sotto il peso di tutto questo sapere. E in fondo, non sarebbe neanche la peggiore delle fini.

lunedì 9 settembre 2024

"Elogio del raccomandato. L'Italiano modello" di Davide Romano, giornalista




C'è una figura, sovente ignorata ma onnipresente, che incarna meglio di qualunque altra l’essenza dell’italiano medio. Un personaggio che non conosce crisi, che si muove con destrezza nel mare torbido della burocrazia, sfuggendo alle secche del merito come un abile navigante. È il raccomandato, l’italiano modello. Colui che è sempre al posto giusto, anche quando non lo merita. Anzi, soprattutto quando non lo merita.

Si potrebbe dire che il raccomandato sia l’incarnazione perfetta di una certa filosofia tutta nostrana, che Aristotele avrebbe chiamato “ars opportunitatis”, l’arte dell’opportunismo. Un'arte che, a dispetto di ogni crisi economica o morale, sembra prosperare senza soluzione di continuità. “La felicità è l’essenza stessa dell’opportunità colta al volo”, avrebbe potuto dire qualcuno come Diogene, se fosse vissuto in un'Italia moderna, tra concorsi pubblici truccati e posti in prima fila per gli amici degli amici.

E non illudiamoci: la storia del raccomandato non è recente. Già nell’Italia medievale, con le sue fazioni e i suoi feudi, il raccomandato trovava il proprio posto grazie al signore di turno, colui che “poteva”. Da allora, la raccomandazione ha solo cambiato abito, indossando ora la veste della “segnalazione” – termine elegante e neutro, quasi tecnico. Ma la sostanza rimane: “Non conta cosa sai, conta chi conosci”.

Nel giornalismo italiano, la figura del raccomandato è altrettanto evidente. Basti pensare a certi conduttori e opinionisti televisivi, arrivati in prima serata non tanto per le proprie capacità, quanto per i legami con potenti cordate politiche o economiche. Prendiamo, ad esempio, figure che, magicamente, passano dalle retrovie delle redazioni alle poltrone di direttori, grazie a una telefonata giusta al momento giusto. Senza fare nomi, ma con un pizzico di malizia, ci si potrebbe interrogare su quanti abbiano scalato i vertici di Rai, Mediaset o i principali quotidiani senza mai scrivere un articolo di rilievo o senza aver mai dimostrato vera competenza sul campo.

In fondo, come diceva Ennio Flaiano, “in Italia i raccomandati non hanno bisogno di essere intelligenti, devono solo essere amici di chi conta”. E questa regola vale tanto nelle redazioni quanto nelle università, nelle grandi aziende, persino nelle istituzioni culturali. Non si spiegherebbe altrimenti la longevità di certi giornalisti, che, pur essendo privi di idee nuove, rimangono saldamente ancorati alle proprie poltrone.

Giuseppe Prezzolini, nel suo acuto “Codice della vita italiana”, scriveva: “In Italia il merito non ha merito”. E come dargli torto? Il merito è un’utopia per romantici e illusi. Il raccomandato, invece, è un realista. Lui sa come funziona il mondo, sa che il talento, l’intelligenza e la preparazione sono ornamenti superflui in un sistema che premia la fedeltà a un patrono, piuttosto che l’intraprendenza individuale.

Il peccato della raccomandazione è uno di quelli che nessuno confessa, ma che tutti conoscono. “Nessuno vuole ammettere di essere un raccomandato, ma tutti lo sono stati almeno una volta”, osservava con cinismo Umberto Eco. La raccomandazione è come il peccato originale: invisibile, ma sempre presente, pronta a emergere nei momenti cruciali della vita professionale. Il giornalismo non è esente da questo peccato, e forse è proprio qui che il meccanismo appare più evidente. La segnalazione di un amico influente, una raccomandazione sussurrata in un orecchio durante una cena mondana, e il gioco è fatto. Si apre una porta che per altri rimarrà chiusa a doppia mandata.

San Tommaso d'Aquino, parlando dei peccati, affermava che “ci sono colpe che vengono esposte, altre che rimangono nell’ombra e divorano l’anima”. E la raccomandazione appartiene alla seconda categoria. Non si vede, non si discute, ma lentamente corrode l’essenza stessa della meritocrazia. Perché il problema non è solo che il raccomandato occupi una posizione che non gli spetta, ma che lo faccia a discapito di chi quella posizione avrebbe potuto davvero meritarsela.

Tommaso d’Aquino, forse il più grande dei teologi, ci insegna che “la Grazia eleva la natura”. Ma per il raccomandato italiano, è la raccomandazione a elevare l’individuo. La Grazia divina ha ceduto il posto alla grazia del potente, e ogni ufficio pubblico diventa una sorta di cattedrale dove il beneplacito di un assessore vale più di ogni laurea o esperienza sul campo.

Per Indro Montanelli, il raccomandato era “l’italiano che non cambia mai, l’uomo che sa aspettare che il vento giri a suo favore senza muovere un dito.” Un uomo, insomma, che incarna quella “furbizia” che abbiamo imparato a considerare una dote, piuttosto che un vizio. E come ogni furbizia, porta con sé la sua giustificazione morale: perché faticare, quando c’è un percorso più semplice? Perché cercare l’approvazione del mondo, quando basta un cenno del capocordata?

Papa Francesco ha parlato più volte del “peccato della raccomandazione”, definendola “una forma di corruzione che svilisce la dignità del lavoro e avvelena il tessuto sociale”. In uno dei suoi discorsi più diretti, ha affermato che “la raccomandazione è una forma subdola di ingiustizia, perché tradisce la fiducia di chi si affida al merito e alla giustizia”. Il pontefice, come altri leader morali, ha cercato di scuotere le coscienze, ma la realtà è che la raccomandazione continua a prosperare, immune alle denunce, perché si muove nell'ombra.

E allora, a che serve continuare a lamentarsi? Forse dobbiamo accettare che il raccomandato sia semplicemente il vincitore in questo gioco crudele chiamato Italia. “Non è l’uomo che deve cambiare il sistema, ma il sistema che cambia l’uomo”, direbbe Simone Weil, ricordandoci quanto sia sottile il confine tra sopravvivenza e servilismo.

In fondo, il raccomandato ci insegna qualcosa di molto semplice: l'Italia non è un paese per i migliori, ma per i più furbi.

“Ecco le Chiese fai da te, una risata le seppellirà” di Davide Romano, giornalista

 


 

C’è chi si scomoda a discorrere sul rapporto tra fede e ragione, tra peccato e redenzione, e poi c’è chi, col fare da garzone della spiritualità, decide di fondare la propria chiesa quando viene gentilmente — o meno — accompagnato alla porta di quella cattolica, ortodossa o protestante che sia. Una scena degna del miglior Totò: il pastore, anzi l'ex-pastore o quasi-pastore, che si reinventa imprenditore della fede. Ma la chiesa la “crea lui”, con tanto di dottrina personalizzata, non sia mai che l’umiltà del vangelo possa fare troppa ombra.

L’ironia di Montanelli ci verrebbe a pennello: "Qui, signori, non si tratta di religione. Si tratta di bottega". E che bottega. Questi venditori di salvezza fai-da-te, espulsi dalle comunità ecclesiastiche ufficiali per motivi non propriamente "angelici", si riorganizzano come un rigattiere che, dopo esser stato chiuso dalla polizia per merce contraffatta, riapre sotto falso nome. Ora la domanda è: il mercato c’è? Ahimè sì, e non è piccolo.

 

In principio fu la menzogna

Il problema, caro lettore, è che costoro sanno vendersi bene (alcuni un po’ meno, a giudicare dai numeri). Come diceva il teologo Dietrich Bonhoeffer, “Il peccato più grande è sempre stato il tradimento della verità”. Eppure, in questo nuovo credo fai-da-te, di verità ce n’è ben poca. Certo, il vangelo resta citato qua e là, giusto per non far scadere la sceneggiata in farsa del tutto. Ma è proprio l’uso selettivo e strumentale delle Scritture che rende questo fenomeno una mascherata tragica.

Non c’è nessun Sant’Agostino che si battezza e redime, né Tommaso d'Aquino che si interroga sull’essenza della fede. No, qui ci sono solo abili venditori di illusioni. Il filosofo Søren Kierkegaard li avrebbe chiamati “cavalieri della disperazione”, uomini senza la profondità della fede, ma che sanno far leva sulla paura e sul bisogno di certezze facili. E così nascono i “vescovi” e addirittura i “primati” autoproclamati. Figure grottesche che, senza nessun mandato apostolico, si decorano con titoli altisonanti e croci pettorali, pastorali e zucchetti, come se fosse una maschera di carnevale. E chi osa sfidarli? Gli apostoli di questi circhi religiosi, armati di microfoni e pulpiti improvvisati, o più comodamente della platea beona di Internet e dei social, gridano alla persecuzione appena qualcuno li contraddice. La verità non è solo ignorata, è travisata, calpestata.

 

La religione del low-cost 

E così si fondano chiese, con titoli pomposi: “Chiesa Universale della Redenzione dell’Anima”, “Chiesa Evangelica Unita” o “Ministero della Luce Divina”. Roba che al confronto la “Chiesa del Sacro Cuore” sembra l’ufficio postale di quartiere. Ma come funziona il meccanismo? Semplice. Prima si fa credere di avere ricevuto una rivelazione personale, o una conoscenza assoluta e senza macchia della Verità, della Bibbia, poi si costruisce una dottrina che serve a giustificare il potere del leader (che di solito si autoproclama vescovo o addirittura primate) e infine si radunano i fedeli, pescando tra i più ingenui o disperati. Insomma, un’accolita di allocchi.

E qui emerge il lato economico della faccenda. Questi pastori in esilio non lavorano gratis, ovviamente. In genere, poi a bene vedere, non hanno neppure un vero mestiere secolare. Anzi, la loro chiesa è sempre alla ricerca di donazioni, decime, oblazioni e via discorrendo. E mentre predicano la povertà cristiana, l’assoluta fedeltà al purissimo Evangelo, vivono una vita che, se non è di lusso, vorrebbe diventarlo. Ricordiamo l’acuto G. K. Chesterton, che diceva: “La Bibbia insegna che dobbiamo amare sia Dio sia il nostro prossimo, ma oggi sembra che molti leader religiosi abbiano solo imparato ad amare se stessi".

 

La chiesa che si crede Dio 

Non basta la scomunica, il richiamo all’ordine o la confutazione teologica. Perché questi “vescovi” autoproclamati non temono nemmeno il ridicolo. Anzi, ne fanno un’arma di propaganda. Come diceva il teologo Hans Urs von Balthasar, “Ogni eresia nasce da una verità mal compresa o male applicata”. Qui la verità è non solo fraintesa, ma anche distorta per giustificare l’esistenza di questi teatrini religiosi.

Così, il "primate" di turno si autoproclama salvatore di anime, con tanto di croce pettorale e zucchetto viola, senza dimentica il pastorale e tutto il corredo, mentre la teologia diventa una scusa per legittimare la propria autorità e, infatti, guai a contraddirlo o a mettere in discussione la sua autorità perché allora la sua “sacra ira” si scatena contro il malcapitato che diviene oggetto di vere e proprie contumelie e falsità diffamatorie. Oltre naturalmente a venire espulso, sovente per indegnità (non è più degno, infatti, di stare al cospetto dell’augusto primate).

E il risultato? Una chiesa che non è più chiesa, un pastore che non è più pastore, ma un attore che recita una parte scritta da lui stesso, per un pubblico troppo disperato o ingenuo per accorgersene. Ma che importa, finché il biglietto d’ingresso lo pagano… anche solo quello di nutrire il suo ipertrofico ego. E noi? Seppelliamoli pure con una risata. Che affoghino nel ridicolo!

sabato 7 settembre 2024

“Popolo d'Israele, la tua storia ti chiama alla pace. Un appello” di Davide Romano



Popolo d'Israele, figlio di una storia plurimillenaria di sofferenza, esilio e speranza, oggi ti trovi in un crocevia che mette alla prova la tua anima e il tuo futuro. La guerra con i palestinesi, il sangue che scorre nelle strade di Gaza e della Cisgiordania, non può essere la tua eredità. Il Talmud dice: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Quante vite si stanno spegnendo ora, mentre le cicatrici della tua stessa storia ci ricordano il dolore dell'ingiustizia e dell'oppressione?

 

In questi giorni bui, risuonano le parole di Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah, che ci ammoniva: “Il contrario dell'amore non è l'odio, è l'indifferenza”. Noi non possiamo essere indifferenti alla sofferenza, alle lacrime delle madri, alle grida dei figli. Non possiamo distogliere lo sguardo pensando che la guerra e la violenza possano in qualche modo essere una soluzione, quando in realtà non fanno altro che perpetuare cicli di vendetta e disperazione.

 

Popolo d'Israele, sei nato dal fuoco della persecuzione, dall’orrore di un genocidio. Gli ebrei della diaspora hanno cercato per secoli un rifugio, un luogo di pace. Ma come può la pace germogliare dal sangue versato su una terra condivisa? Martin Buber, uno dei tuoi più grandi filosofi, ci ha insegnato che il rapporto con l’altro deve essere di dialogo, non di scontro: “Il vero dialogo implica il riconoscimento reciproco, e questo è l'inizio della pace”.

 

Oggi, il mondo ti osserva. Non con l’odio, ma con una speranza che riposa sulle tue spalle. Ricorda le parole di Abraham Joshua Heschel, il rabbino che marciò con Martin Luther King: “Poiché la libertà è il dono più grande che Dio ha dato all'umanità, non possiamo mai giustificare l'oppressione o la sofferenza imposta agli altri”. Popolo d'Israele, sei stato schiavo in Egitto, hai conosciuto la sofferenza dell’esilio e dell’oppressione. Non permettere che il tuo dolore diventi la ragione per infliggerne altro.

 

Non possiamo ignorare la paura e il dolore che hai vissuto, le sirene che risuonano, la minaccia costante di razzi e attentati. Ma è proprio da questo dolore condiviso, da questa comune umanità ferita, che può sorgere un nuovo patto di convivenza. Shimon Peres, uno dei padri fondatori di Israele, disse: “Non ci sono vincitori in una guerra. O perdiamo tutti o vinciamo insieme”. Il vero trionfo non sarà militare, ma la capacità di costruire un futuro di coesistenza.

 

La Bibbia, cuore pulsante della tua storia, grida per la giustizia. Isaia, il profeta della pace, proclamava: “Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci; nessuna nazione alzerà la spada contro un'altra nazione, e non impareranno più la guerra”. Questo è il tuo destino, non la guerra, non la distruzione, ma la costruzione di un futuro di pace.

 

Il dialogo deve nascere tra la gente comune, tra te e i palestinesi che vivono fianco a fianco, nonostante tutto. Amos Oz, scrittore e voce della tua coscienza, affermava: “La pace non è il matrimonio di due amanti; è piuttosto un compromesso tra due nemici”. Questo è il coraggio richiesto: non di impugnare le armi, ma di abbassarle, guardando negli occhi chi ti sembra nemico e cercando un terreno comune.

 

Popolo d'Israele, sei una nazione costruita sulla speranza, sulla promessa di un futuro diverso. Non lasciare che questa promessa venga spezzata dalla violenza. Ricorda le parole del tuo stesso Talmud: “Non devi completare il lavoro, ma non sei libero di abbandonarlo”. La pace è un cammino lungo, difficile, ma necessario. Se non ora, quando?

 

La tua storia ti chiama a essere un modello per l'umanità, a dimostrare che anche nelle terre più contese, nelle situazioni più disperate, la pace è possibile. Io ti supplico: non dimenticare chi sei, non dimenticare da dove vieni. E soprattutto, non dimenticare dove sei diretto.


venerdì 6 settembre 2024

“Era la stampa, bellezza! Il giornalismo di un tempo fra nostalgia e rimpianti” di Davide Romano, giornalista

 



C’è una nostalgia che mi perseguita, come una vecchia canzone che non riesco a togliere dalla testa. È la nostalgia per il giornalismo di una volta, quello che oggi sembra diventato un’arte perduta, come la lavorazione del legno a mano o la calligrafia. Parlo di un giornalismo fatto di fatica, di nottate passate alla macchina da scrivere, di articoli battuti con dita consumate e di sigari toscani ridotti in cenere accanto alla Olivetti Lettera 32. Un giornalismo in cui, come diceva Enzo Biagi, "le parole erano pietre," e dietro ogni articolo c’era una vita spesa a cercare la verità, o perlomeno una sua versione accettabile.

Non mi fraintendete, non voglio fare il vecchio nostalgico che rimpiange i bei tempi andati solo perché erano i suoi. Ma c’è una differenza sostanziale tra il giornalismo di oggi e quello di ieri, e non è solo una questione di tecnologia. È una questione di spirito, di approccio al mestiere, di rispetto per le parole e per chi quelle parole le avrebbe lette.

Ricordo i tempi in cui un giornalista si guadagnava il pane con le scarpe consumate, non con i tweet. Bisognava andare, vedere, ascoltare, prendere appunti su un taccuino stropicciato, e poi passare ore a scegliere le parole giuste, quelle che avrebbero reso giustizia ai fatti e alle persone coinvolte. Non c’erano scorciatoie. Se volevi raccontare una storia, dovevi conoscerla fino in fondo, dovevi viverla quasi sulla tua pelle. Come scriveva Oriana Fallaci, "il giornalismo è una missione. È un mestiere che ti fa bruciare, che ti fa soffrire, ma che non ti lascia mai".

E poi c’era la responsabilità. Già, perché un giornalista sapeva che le sue parole avevano un peso. Potevano fare male, scatenare reazioni, cambiare le sorti di una carriera, di una vita, persino di un Paese. Come ammoniva Luigi Barzini: "La penna è più forte della spada, ma richiede un polso fermo e una mente chiara". Ogni parola veniva soppesata come si fa con l’oro, mentre oggi le parole volano leggere, spesso senza alcun riguardo per la verità o per le conseguenze che potrebbero avere.

Non c’è più quella cura maniacale per la verifica dei fatti, per il controllo delle fonti. Nel giornalismo di una volta, la notizia non era solo una merce da vendere al miglior offerente. Era un impegno morale, un patto con i lettori. Come diceva Indro Montanelli, "il giornalismo è fare domande. È cercare la verità, e dirla, anche quando fa male". E se si sbagliava, si pagava caro l’errore, perché la credibilità era tutto. Oggi, al contrario, l’errore sembra essere diventato la norma, e se si scopre di aver sbagliato, poco importa: domani ci sarà un’altra notizia a coprire tutto.

Ecco, questo è ciò che mi manca del giornalismo di una volta: il rispetto per la verità, per i fatti, per le persone. C’era una sorta di nobiltà in quel lavoro, un senso di missione che andava al di là del semplice mestiere. Oggi, invece, vedo troppi giornalisti che sembrano più preoccupati di ottenere clic che di raccontare il mondo per quello che è. Si corre dietro all’ultima moda, all’ultimo trend, inseguendo le storie più facili, quelle che fanno rumore senza fare domande scomode. Ma il vero giornalismo non è fatto di rumore, è fatto di silenzio, di riflessione, di domande e di dubbi.

E poi c’era quella cosa chiamata stile. Oggi, leggendo certi articoli, ho l’impressione che il mestiere del giornalista si sia ridotto a una sterile elencazione di fatti e opinioni, senza quel tocco personale che faceva la differenza. Un tempo, ogni giornalista aveva la sua voce, il suo modo di raccontare le cose. Come diceva Eugenio Scalfari, "lo stile è l’uomo" e in quelle righe c’era un’anima. Oggi, invece, troppo spesso le notizie sembrano uscite da un algoritmo, tutte uguali, tutte piatte, tutte senza vita.

Non voglio dire che tutto il giornalismo di oggi sia da buttare. Ci sono ancora, per fortuna, giornalisti che sanno fare il loro mestiere, che sanno raccontare le storie come si deve. Ma sono sempre più rari, sempre più isolati in un mare di superficialità e approssimazione.

E allora, forse, è giusto ricordare quei tempi andati non per mera nostalgia, ma per ritrovare quello spirito, quella passione, quella dedizione che facevano del giornalismo un mestiere nobile. Perché, come diceva Montanelli, "il giornalismo è il diario della storia" e di quel giornalismo, oggi più che mai, abbiamo bisogno come dell’aria.

 

giovedì 5 settembre 2024

"Essere stupidi per essere felici. Un elogio della più democratica delle qualità umane e sono solo" di Davide Romano, giornalista

 


L'elogio della stupidità, signori, è un'impresa che richiede coraggio, e non poco. In un'epoca in cui la saggezza è tanto celebrata e la conoscenza osannata, si rischia di passare per provocatori o, peggio ancora, per pazzi. Ma, come ci ricorda l'amico Voltaire, “È difficile liberare gli sciocchi dalle catene che venerano.” E dunque, armati di una buona dose di ironia e di una certa dose di sana imprudenza, mi accingo a tessere lodi di ciò che tanto spesso viene disprezzato.

Innanzitutto, la stupidità è democratica. È forse la più equamente distribuita tra i beni umani. Non richiede né patrimonio né cultura, né lignaggio né istruzione. È accessibile a tutti, dal nobile al mendicante, dal dottore al contadino. Nessuna barriera di classe, di razza o di religione può contenerla. È, se vogliamo, la forma più pura di uguaglianza. Come osservava Charles Darwin, “L’ignoranza genera più frequentemente fiducia che non la conoscenza.”

La stupidità, lungi dall'essere un difetto, è una forza motrice. Non è forse vero che la storia umana è disseminata di esempi in cui la cieca ostinazione ha portato al progresso? “Perché fermarsi a riflettere quando l’azione ci invita?” sembra sussurrare la stupidità, spingendo l’uomo verso l’ignoto con la baldanza di chi non sa di cosa dovrebbe aver paura. E spesso, è proprio in questo ignorare il rischio che si scoprono nuovi mondi.

Ma la stupidità ha un altro grande pregio: la semplicità. In un mondo complesso e sovraccarico di informazioni, la stupidità offre un rifugio sicuro. È un ritorno all'essenziale, una boccata d’aria fresca nel caos dell’intellettualismo. Blaise Pascal ci avverte che “La maggior parte dei problemi derivano dal fatto che non possiamo stare seduti tranquilli in una stanza.” Ebbene, la stupidità è la madre della tranquillità, la chiave per una vita serena e senza troppi pensieri.

E come non ricordare il caro Oscar Wilde, che con il suo acume ci ricorda: “È meglio essere sciocchi di fronte a una grande idea che saggi di fronte a una banalità.” La stupidità, nella sua forma più nobile, è un’apertura al nuovo, una disposizione d’animo che ci permette di accogliere con candore ciò che altrimenti rigetteremmo per paura o per convenienza.

E poi, non dimentichiamo che la stupidità è anche un grande catalizzatore sociale. Quanto ci unisce, quanto ci fa sorridere e ridere! Nulla crea più complicità di una comune, condivisa stupidità. Quanti legami si sono forgiati su una battuta sciocca, quanti amori sono sbocciati grazie a un piccolo, innocente atto di stupidità! La vita, insomma, sarebbe infinitamente più arida e grigia senza la benedetta stupidità.

Infine, lasciatemi concludere con un pensiero del nostro caro Montaigne, che, nel suo consueto scetticismo, ci ammonisce: “La cosa più saggia che possiamo fare è non far caso alla saggezza.” E forse, in queste parole, troviamo il vero senso dell’elogio della stupidità. Essa ci ricorda che la vita è fatta per essere vissuta, non dissezionata; che l’errore è umano, troppo umano; e che, in fondo, la stupidità è una parte essenziale di quella meravigliosa commedia che è l’esistenza.

Siamo dunque grati alla stupidità, questa umile compagna di viaggio, che, con il suo sorriso ingenuo e la sua tenacia disarmante, ci ricorda che vivere è, prima di tutto, un atto di coraggio e di leggerezza.

“Italia un Paese di scrittori (che non leggono)” di Davide Romano

L'Italia, si dice spesso, è il Paese dei santi, poeti e navigatori. Ma oggi, forse, sarebbe più corretto aggiornarlo così: il Paese de...