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sabato 7 settembre 2024

“Popolo d'Israele, la tua storia ti chiama alla pace. Un appello” di Davide Romano



Popolo d'Israele, figlio di una storia plurimillenaria di sofferenza, esilio e speranza, oggi ti trovi in un crocevia che mette alla prova la tua anima e il tuo futuro. La guerra con i palestinesi, il sangue che scorre nelle strade di Gaza e della Cisgiordania, non può essere la tua eredità. Il Talmud dice: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Quante vite si stanno spegnendo ora, mentre le cicatrici della tua stessa storia ci ricordano il dolore dell'ingiustizia e dell'oppressione?

 

In questi giorni bui, risuonano le parole di Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah, che ci ammoniva: “Il contrario dell'amore non è l'odio, è l'indifferenza”. Noi non possiamo essere indifferenti alla sofferenza, alle lacrime delle madri, alle grida dei figli. Non possiamo distogliere lo sguardo pensando che la guerra e la violenza possano in qualche modo essere una soluzione, quando in realtà non fanno altro che perpetuare cicli di vendetta e disperazione.

 

Popolo d'Israele, sei nato dal fuoco della persecuzione, dall’orrore di un genocidio. Gli ebrei della diaspora hanno cercato per secoli un rifugio, un luogo di pace. Ma come può la pace germogliare dal sangue versato su una terra condivisa? Martin Buber, uno dei tuoi più grandi filosofi, ci ha insegnato che il rapporto con l’altro deve essere di dialogo, non di scontro: “Il vero dialogo implica il riconoscimento reciproco, e questo è l'inizio della pace”.

 

Oggi, il mondo ti osserva. Non con l’odio, ma con una speranza che riposa sulle tue spalle. Ricorda le parole di Abraham Joshua Heschel, il rabbino che marciò con Martin Luther King: “Poiché la libertà è il dono più grande che Dio ha dato all'umanità, non possiamo mai giustificare l'oppressione o la sofferenza imposta agli altri”. Popolo d'Israele, sei stato schiavo in Egitto, hai conosciuto la sofferenza dell’esilio e dell’oppressione. Non permettere che il tuo dolore diventi la ragione per infliggerne altro.

 

Non possiamo ignorare la paura e il dolore che hai vissuto, le sirene che risuonano, la minaccia costante di razzi e attentati. Ma è proprio da questo dolore condiviso, da questa comune umanità ferita, che può sorgere un nuovo patto di convivenza. Shimon Peres, uno dei padri fondatori di Israele, disse: “Non ci sono vincitori in una guerra. O perdiamo tutti o vinciamo insieme”. Il vero trionfo non sarà militare, ma la capacità di costruire un futuro di coesistenza.

 

La Bibbia, cuore pulsante della tua storia, grida per la giustizia. Isaia, il profeta della pace, proclamava: “Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci; nessuna nazione alzerà la spada contro un'altra nazione, e non impareranno più la guerra”. Questo è il tuo destino, non la guerra, non la distruzione, ma la costruzione di un futuro di pace.

 

Il dialogo deve nascere tra la gente comune, tra te e i palestinesi che vivono fianco a fianco, nonostante tutto. Amos Oz, scrittore e voce della tua coscienza, affermava: “La pace non è il matrimonio di due amanti; è piuttosto un compromesso tra due nemici”. Questo è il coraggio richiesto: non di impugnare le armi, ma di abbassarle, guardando negli occhi chi ti sembra nemico e cercando un terreno comune.

 

Popolo d'Israele, sei una nazione costruita sulla speranza, sulla promessa di un futuro diverso. Non lasciare che questa promessa venga spezzata dalla violenza. Ricorda le parole del tuo stesso Talmud: “Non devi completare il lavoro, ma non sei libero di abbandonarlo”. La pace è un cammino lungo, difficile, ma necessario. Se non ora, quando?

 

La tua storia ti chiama a essere un modello per l'umanità, a dimostrare che anche nelle terre più contese, nelle situazioni più disperate, la pace è possibile. Io ti supplico: non dimenticare chi sei, non dimenticare da dove vieni. E soprattutto, non dimenticare dove sei diretto.


mercoledì 10 aprile 2024

Le lezioni ignorate del genocidio in Ruanda

 


di Francesca Sibani, giornalista di Internazionale

 

Dal 7 aprile i ruandesi ricorderanno il genocidio di trent’anni fa con una settimana di eventi commemorativi, a partire dalla visita del presidente Paul Kagame al memoriale del genocidio di Kigali, costruito sulle fosse comuni in cui furono seppellite 250mila vittime dei massacri. Seguirà una settimana di lutto nazionale, con le bandiere a mezz’asta, processioni, trasmissioni tv dedicate essenzialmente a film sul genocidio, racconta il sito Okayafrica.

Si stima che nel genocidio dei tutsi e degli hutu moderati, durato circa cento giorni, siano state uccise tra le 800mila e il milione di persone. Ancora oggi si continuano a trovare fosse comuni che erano state ben nascoste, come quella rinvenuta lo scorso ottobre nel distretto di Huye, con dentro 119 corpi.

Mai come quest’anno il passato sembra tutt’altro che sepolto, non solo per i ruandesi, ma anche per il resto del mondo. La parola “genocidio” (cos’è, come si annuncia, come prevenirlo) è tornata al centro del dibattito pubblico. Da Gaza al Sudan, infatti, il numero delle uccisioni di massa registrate è il più alto degli ultimi vent’anni, scrive l’Economist.

Molti tornano a guardare indietro, ad analizzare ancora una volta gli errori commessi per capire perché non si siano imparate le lezioni del passato. In un articolo intitolato “Perché l’occidente si rifiutò di fermare il genocidio ruandese”, Roméo Dallaire, che nel 1994 era il comandante della missione dei caschi blu Unamir in Ruanda, torna sulle accuse che dalla prima ora aveva rivolto alle Nazioni Unite e alle potenze mondiali. Sul magazine canadese The Walrus scrive che “per la maggior parte degli osservatori esterni, l’Africa era teatro di crisi sociali ed economiche generalizzate, accentuate da carestie, guerre civili e atrocità di massa. I paesi occidentali consideravano l’Africa un continente da compatire, non una fonte di potenziale; di certo non era una priorità”. Difficile sostenere che oggi l’Africa sia vista in modo molto diverso.

Dallaire bacchetta anche l’incapacità dell’Onu di intervenire. Solo dopo sei settimane e cinquecentomila morti, il consiglio di sicurezza approvò l’invio di cinquemila caschi blu di rinforzo per fermare quello che si era deciso a considerare un genocidio. Ma le prime truppe misero piede in Ruanda solo ad agosto, dopo la fine dei massacri.

Inoltre, anche allora la comunità internazionale dimostrò di applicare due pesi e due misure a seconda del colore della pelle delle vittime, sostiene Dallaire, secondo il quale ci si mobilitò con più decisione per l’ex Jugoslavia che per il Ruanda, dove “furono stuprate, uccise e sfollate più persone in tre mesi che in quattro anni di guerra in Bosnia”.

“Un genocidio dovrebbe essere importante. Dovremmo preoccuparci. Ma nessuna nazione volle investire le risorse per fermare il bagno di sangue. A quanto pare, alcuni esseri umani non sono degni delle protezioni offerte dalle convenzioni sui diritti umani elaborate dai paesi ricchi, che invece dovrebbero essere applicate universalmente”, conclude Dallaire.

La parola “genocidio” appare molte volte anche nelle lettere, negli appelli e negli articoli scritti in quegli anni dalla ricercatrice e attivista statunitense Alison De Forges, che era la referente dell’ong Human rights watch in Africa. De Forges era in contatto costante con persone sul campo in Ruanda e cercò di far capire al resto del mondo che si stava preparando un disastro.

Di recente l’organizzazione in difesa dei diritti umani ha pubblicato un archivio di materiali sul genocidio in Ruanda, molti dei quali raccolti e prodotti dalla ricercatrice. Hrw insiste sul tema della responsabilità e della giustizia: “Il trentesimo anniversario del genocidio ruandese è il momento opportuno per fare il punto sui progressi compiuti, a livello sia nazionale sia internazionale, nel chiamare a rispondere le persone sospettate di aver pianificato, ordinato ed eseguito le atrocità. È urgente accelerare questi sforzi visto che alcune delle menti dietro il genocidio non ci sono più e uno – Félicien Kabuga, finanziatore della famigerata radio Mille Collines – è stato dichiarato non idoneo a sostenere un processo”.

C’è infine un altro motivo per cui non possiamo considerare storia passata il genocidio del Ruanda: quell’evento ha innescato un conflitto enorme che continua ancora oggi nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Secondo il ricercatore Christoph Vogel, questa crisi “sta entrando nel quarto e forse più pericoloso decennio, con il forte rischio di un’escalation regionale.

Il conflitto, che attualmente coinvolge un centinaio di gruppi armati diversi, ha causato milioni di morti e sfollati nel corso degli anni. Dal 2021 è entrato in una nuova fase, segnata dal ritorno dei ribelli del Movimento 23 marzo (M23, che secondo il governo congolese e alcuni rapporti dell’Onu sono sostenuti da Kigali). Compagnie di sicurezza private e stati confinanti si sono uniti alla mischia e la vasta gamma di combattenti si è divisa su due fronti ben definiti: uno allineato con Kinshasa, l’altro con l’M23. La situazione deteriora di giorno in giorno e le prospettive di pace sono più lontane che mai”.

Questo testo è tratto della newsletter Africana.

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