“Un giorno d'estate a Palermo” di Davide Romano


 

Il sole arriva presto, a Palermo. Non chiede il permesso. Passa dai balconi, colpisce i muri scrostati, picchia sulle lamiere parcheggiate in salita. S’infila nelle fessure dei vicoli come un ladro, ma con la prepotenza di un re. Chi dorme male si sveglia peggio. Chi non ha dormito affatto, tira avanti. Nessuno si lamenta. Palermo ha imparato a ingoiare il caldo come si beve l’acqua del rubinetto: sporca, ma necessaria.

 

È estate. Le panchine di marmo sono vuote fino al tramonto. I vecchi giocano a carte all’ombra dei ficus. I ragazzini urlano in dialetto stretto, troppo veloce per i turisti. Si tuffano dal molo come se il mare fosse ancora loro. Ma non lo è. Il mare cambia padrone ogni giorno. Le barche bianche lo dividono a fette, le navi lo solcano senza salutare. E intanto i pescatori rimasti — quelli veri — tengono in mano più sigarette che pesci.

 

Alle nove, in Piazza Pretoria, i primi gruppi si mettono in fila. La guida parla di fontane e peccato, ride, si asciuga la fronte con un fazzoletto. Non guarda mai in alto. Nessuno guarda mai in alto d’estate, a Palermo. Il cielo acceca. È un occhio enorme che ti giudica, senza dire nulla.

 

Io cammino. Porto i sandali. Il marciapiede mi brucia sotto i piedi. Passo davanti a un forno chiuso, poi a una chiesa aperta. Entro. Dentro è buio e fresco. La pietra è umida. Le candele odorano di fede e di cera. Una donna piange nel primo banco. Un uomo dorme nell’ultimo. Un crocifisso li guarda entrambi.

 

Fuori, il mercato balla. Il Capo, Ballarò, la Vucciria. I nomi sembrano canzoni. Il sudore sa di cipolla e basilico. La carne appesa, il pesce che respira a fatica, la frutta lucida come plastica. Le urla sono teatro. Nessuno vende, tutti recitano. “Signora, le metto anche il prezzemolo”. Sembra che nessuno lo voglia davvero, il prezzemolo. È solo un gesto. Un’estensione della voce.

 

Nel pomeriggio la città si siede. È l’ora del silenzio. Palermo non dorme: resiste. I ventilatori gracchiano, le persiane tremano. Rombano sordi i motori dell’aria condizionata. Si aspetta. Si beve caffè freddo o una limonata. I pochi turisti che camminano sono persi. Nessuna mappa tiene il passo della luce. Il tempo evapora.

 

Mi fermo in un bar. Il ragazzo dietro il bancone ha diciotto anni. Mi serve una granita al caffè con panna. Sorride poco. Lavora troppo. Il padrone lo guarda da dietro, in piedi, con la sigaretta spenta in bocca. È un'estate di apprendistato e sudore.

 

Poi la sera si avvicina. Lo capisci dal vento, non dal cielo. L’aria cambia direzione. Le luci dei lampioni si accendono un secondo prima che serva. La gente esce. Palermo cammina di notte, più che di giorno. Si veste bene, anche per poco. Si siede ai tavolini, si abbraccia, ride, litiga, canta. I motorini passano senza targa. I cani si accucciano accanto ai mendicanti. I gatti si infilano tra i tavoli. Qualcuno legge le carte. Qualcun altro le ha già giocate tutte.

 

In Piazza Marina, le radici dei ficus sono più larghe delle gambe degli uomini. Sembrano dita antiche che tengono la terra ferma. Le luci dei locali si riflettono sui bicchieri. Si parla di politica, di Dio, di calcio. Nessuno ha davvero ragione, ma tutti parlano con passione. Palermo ascolta e non risponde.

 

Verso mezzanotte la città si confessa. I vicoli puzzano di birra e piscio. Le chiese restano mute. I santi dormono. I balconi si aprono. Qualcuno fuma. Qualcuno prega. Qualcuno aspetta. Palermo è fatta di attese.

 

Io mi perdo per il Cassaro. Passo davanti a una libreria chiusa, un teatro abbandonato, una bottega di articoli sacri, paccottiglia in vetrina. Una donna canta in napoletano, dietro una finestra. Il marito ascolta, seduto su una sedia di plastica. Non dice niente. Tiene il tempo con il piede.

 

Quando rientro a casa, le voci si dissolvono nel silenzio, come se la notte le inghiottisse una ad una. I muri sudano. La notte è un’illusione di pace. Ma anche questo è Palermo. Una città che non si riposa, perché non ha mai avuto un giorno intero per sé. Una città che ti guarda da sotto in su, perché da sopra la guardano tutti. Ma chi ci vive sa che la verità è a livello della strada. Nella polvere, nei semini dei gelsi, nel chiacchiericcio dei balconi, nei sogni sfiancati che resistono anche oggi.

 

Un’estate palermitana non si racconta. Si beve a piccoli sorsi. Si respira a pieni polmoni. Si sopporta, e se si è fortunati, si ama.

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