“Vi spiego perché l'Islam non è quello che credete. Viaggio controcorrente nella religione più incompresa dell'Occidente, dove i mistici servono in cucina e i banchieri prestano soldi ai poveri” di Davide Romano
Vi devo confessare una cosa: ogni volta che sento parlare di
Islam e pace come se fossero due concetti agli antipodi, mi viene da sorridere.
Non di quel sorriso saccente di chi la sa lunga, ma di quello un po' amaro di
chi vede quanto sia profondo il fossato tra realtà e percezione. Permettetemi
di accompagnarvi in un viaggio che, ve lo prometto, vi sorprenderà.
Partiamo dall'inizio, da quella parola che tutti pronunciano
ma pochi comprendono davvero: Islam. Deriva dalla radice "s-l-m", la
stessa da cui viene "salam", pace. Ma attenzione: non significa
semplicemente "pace" come la intendiamo noi occidentali. Significa
"sottomissione", "abbandono" alla volontà di Allah. È una
pace che nasce dalla consonanza con il divino, non dalla semplice assenza di
conflitto.
Il Corano ne parla chiaro: "O voi che credete, entrate
tutti nella pace" (2:208). Ma quale pace? Non quella dei pacifisti da
salotto, ma quella di chi ha fatto i conti con la natura umana in tutte le sue
contraddizioni. È una pace che si costruisce mattone dopo mattone, giorno dopo
giorno, attraverso quello che i mistici musulmani chiamano "il grande
jihad": la lotta contro il proprio ego.
E qui entra in gioco il sufismo, questa straordinaria
tradizione mistica che dell'Islam rappresenta il cuore pulsante. Vi racconto un
aneddoto. Anni fa, durante un viaggio in Turchia, mi capitò di assistere a una
cerimonia dei dervisci Mevlevi, quelli che voi chiamate "dervisci
rotanti". Sapete qual è la prima cosa che imparano questi mistici
danzatori? Non è la danza, come potreste pensare. È il servizio in cucina.
Rumi, il loro maestro spirituale, quello stesso poeta che
oggi va tanto di moda citare nei salotti occidentali, scriveva: "Al di là
del giusto e dello sbagliato c'è un campo. Ti incontrerò là." Non è poesia
da quattro soldi, è teologia profonda. È l'essenza di quella che Ibn 'Arabi, il
più grande maestro del sufismo, chiamava "la religione dell'Amore".
Ma attenzione a non cadere nella trappola di pensare che
tutto questo sia pura contemplazione. L'Islam ha una caratteristica unica: la
capacità di trasformare la spiritualità più elevata in azione concreta. La
"zakat", che troppo spesso viene tradotta semplicemente come
"elemosina", è in realtà un sofisticato sistema di giustizia sociale.
È uno dei cinque pilastri dell'Islam, allo stesso livello della preghiera.
E qui viene il bello. Sapete quando è nato il primo ospedale
pubblico della storia? Nell'809 d.C., a Baghdad, sotto il califfo Al-Walid. E
sapete perché? Perché il Corano insegna che "chi salva una vita, è come se
avesse salvato l'umanità intera" (5:32). Non è retorica, è storia
documentata.
Vi racconto una cosa che i libri di storia spesso
dimenticano di menzionare. Il "waqf", l'istituto della donazione
perpetua, ha creato nel mondo islamico un sistema di welfare quando in Europa
ancora si discuteva se i poveri avessero un'anima. Non sto esagerando. A
Istanbul c'era persino un waqf che pagava qualcuno per camminare di notte per
le strade con un mestolo pieno d'acqua, per dare da bere ai gatti randagi.
Al-Ghazali, quel genio persiano che nel XI secolo
rivoluzionò il pensiero islamico, diceva che il cuore è come uno specchio: può
riflettere il divino solo se è pulito. E come si pulisce? Attraverso il
servizio disinteressato, attraverso quello che in arabo si chiama
"ihsan", l'eccellenza spirituale che si manifesta nell'azione.
Ma la pace nell'Islam ha anche una dimensione comunitaria
imprescindibile. La "umma", la comunità dei credenti, non è un
concetto astratto. È una rete di relazioni, di responsabilità, di cure
reciproche. Il Corano insiste: "I credenti sono fratelli: ristabilite la
pace tra i vostri fratelli" (49:10).
È interessante notare come i grandi imperi islamici del
passato abbiano spesso gestito la convivenza tra diverse fedi con una
tolleranza che l'Europa cristiana dell'epoca si sognava. La Spagna musulmana,
al-Andalus, ne è l'esempio più citato, ma non l'unico.
Questa tradizione continua ancora oggi, anche se i media
preferiscono raccontarci altro. In ogni catastrofe naturale, in ogni crisi
umanitaria, le organizzazioni caritative islamiche sono in prima linea. Dal
Pakistan all'Indonesia, dal Medio Oriente all'Africa, migliaia di volontari
musulmani mettono in pratica quello che Ibn Ata'Allah al-Iskandari chiamava
"la scienza del cuore".
Prendiamo l'esempio delle "cucine della misericordia"
che durante il Ramadan sfamano milioni di persone, non solo musulmani. O i
programmi di microfinanza islamica che, basandosi sui principi della finanza
etica shariatica, hanno aiutato milioni di persone a uscire dalla povertà.
Certo, oggi le cose sono più complicate. Il colonialismo
prima, le guerre per procura poi, il petrolio sempre, hanno creato fratture che
sembrano insanabili. Ma attenzione a non cadere nella trappola del determinismo
storico.
Studiosi contemporanei come Tariq Ramadan e Seyyed Hossein
Nasr insistono sul fatto che l'Islam ha gli strumenti teologici e spirituali
per affrontare la modernità senza perdere la sua essenza. "La pace",
scrive Nasr, "non è l'assenza di conflitto, ma la presenza attiva
dell'armonia divina nella vita umana."
Quello che molti non capiscono è che nell'Islam la
dimensione spirituale e quella sociale sono inseparabili. Il grande poeta e
filosofo Muhammad Iqbal lo esprimeva così: "Il segreto dell'ego è nascosto
nelle parole 'Sii come Dio'". Non un invito all'orgoglio, ma alla
responsabilità divina di prendersi cura del creato.
È questa la chiave per comprendere la pace nell'Islam: non è
un concetto astratto, ma una pratica quotidiana che unisce la più alta
spiritualità al più concreto impegno sociale. È quello che i sufi chiamano
"il ponte tra cielo e terra".
Cosa possiamo imparare da tutto questo? Che la pace, quella
vera, non è mai una conquista definitiva ma un processo continuo. Non è un caso
che il saluto islamico, "as-salamu alaykum", sia un augurio:
"che la pace sia su di voi".
Come mi disse una volta un vecchio derviscio a Istanbul:
"La pace non è una destinazione, è un modo di viaggiare." E forse, in
un mondo sempre più diviso e conflittuale, questa antica saggezza ha qualcosa
di importante da insegnarci.
A patto, naturalmente, di avere occhi per vedere e cuore per
comprendere. Ma questa, cari lettori, è una storia che continua a scriversi
ogni giorno, nelle preghiere dei mistici come nelle azioni dei volontari, nei
centri di accoglienza come nelle moschee, ovunque l'Islam viene vissuto nella
sua essenza più autentica: come via di pace, di misericordia e di servizio
all'umanità.
Profonda e gradevole lettura.
RispondiElimina
RispondiEliminaCome insegnante, non posso che apprezzare la profondità e l'equilibrio di questo articolo, che offre una prospettiva rara e preziosa sull'Islam come religione di pace, nel senso più ampio e autentico del termine. Spesso ci troviamo a confrontarci con stereotipi che riducono culture e religioni millenarie a semplici schemi, privandole della loro complessità e ricchezza. Questo articolo, invece, fa un lavoro eccellente nel restituire dignità e profondità a un tema che merita ben altro rispetto.
Mi colpisce in particolare il concetto di jihad come lotta interiore e ricerca di equilibrio spirituale. È un tema che potrebbe essere integrato nelle scuole, come punto di partenza per educare i giovani a superare le loro paure e pregiudizi, e per insegnare loro che la pace non è assenza di conflitto, ma una costruzione quotidiana, personale e collettiva.
Anche l'attenzione al sufismo e alla dimensione mistica dell'Islam è un invito prezioso a riscoprire una spiritualità che sa coniugare introspezione e impegno concreto nel mondo. Questo dovrebbe far riflettere chiunque, indipendentemente dal credo, su quanto sia fondamentale legare la crescita interiore all’azione per il bene comune.
Infine, l’idea di pace come "modo di viaggiare" è una lezione universale che potremmo insegnare nelle nostre classi: non è mai un traguardo definitivo, ma un cammino da percorrere con consapevolezza e dedizione. Un articolo come questo è un promemoria che, come educatori, abbiamo il dovere di promuovere una comprensione più profonda e autentica delle culture e delle religioni, per formare cittadini del mondo più aperti e rispettosi. Grazie per questa lezione di umanità e saggezza.