C’è un odore
nauseabondo che si sente spesso nei palazzi del potere italiano, ed è l’odore
del moralismo di facciata. Un fetore che proviene dai tanti che si dichiarano
paladini dell’antimafia, ma che di mafia ne sanno quanto ne saprebbe un pesce
rosso del mare aperto. Sventolano bandiere di legalità, riempiono le piazze di
slogan, ma dietro quei proclami c’è solo l’eco vuota del tornaconto personale. “L’ipocrisia
è l’omaggio che il vizio rende alla virtù”, diceva François de La
Rochefoucauld, e i nostri politici sono veri maestri in quest’arte.
In Italia, dire di
essere antimafia è facile, e soprattutto fa curriculum. Ma essere davvero
antimafia, quello è un altro discorso. C’è una lunga schiera di politici che si
riempie la bocca di parole come “legalità”, “trasparenza”, “giustizia”, e poi,
nell’ombra, intrattiene rapporti ambigui con gli stessi poteri che dovrebbe
combattere. Politici che recitano la parte dell’antimafia perché sanno che, in
questo paese, non essere dalla parte giusta su questo tema significa rischiare
la carriera. E allora eccoli, con le loro medaglie da crociati della legalità,
a fare salamelecchi alle commemorazioni di Falcone e Borsellino, senza nemmeno
arrossire di vergogna.
Le
maschere della legalità
Prendiamo il caso
di certi sindaci, presidenti di regione, ministri che si dichiarano fieri
avversari della mafia, ma che poi, a ben guardare, si circondano di personaggi
più grigi di un giorno di pioggia. “Il potere corrompe, e il potere
assoluto corrompe in modo assoluto”, scriveva il grande storico britannico
Lord Acton. E in Italia, il potere non corrompe solo i politici, ma anche la
causa dell’antimafia. Basta qualche proclama ben calibrato, qualche intervento
accorato in Parlamento, e il gioco è fatto. Antimafia di professione, ma senza
mai alzare un dito davvero.
Ma prendiamo anche
quelli che si autocelebrano come “figli della resistenza antimafiosa”,
e che poi nelle loro giunte includono nomi sospetti, legati a personaggi vicini
alla criminalità organizzata. “La legalità è diventata un’etichetta di
comodo”, ha scritto il filosofo Salvatore Natoli. E così è: per certi
politici, l’antimafia è un business, un brand che si sfrutta per costruire
carriere. Qualche dichiarazione roboante sui social, la partecipazione a
qualche convegno pieno di belle parole, e si ottiene il lasciapassare per la
cosiddetta “moralità”. Ma di reale, dietro, c’è poco o nulla.
I
“professionisti dell’antimafia”
In questo teatro
dell’assurdo, non possiamo non ricordare la denuncia di Leonardo Sciascia
contro i “professionisti dell’antimafia”. Era il 1987 quando Sciascia,
in un articolo su Il Corriere della Sera, puntò il dito contro quei
magistrati e politici che usavano la lotta alla mafia come trampolino di lancio
per la loro carriera. Il suo obiettivo principale era Leoluca Orlando, che
all’epoca incarnava quella politica che si ammantava di antimafia per trarne
vantaggi personali. “Quelli che per professione, per vocazione, e forse
anche per calcolo, si battono contro la mafia”, scriveva Sciascia.
Quell’accusa fece scandalo, ma aveva colpito nel segno.
Oggi, a distanza
di qualche decennio, i professionisti dell’antimafia sono aumentati a
dismisura. Non passa giorno senza che qualche politico si proclami difensore
della legalità, magari a pochi giorni da un’inchiesta che lo vede coinvolto per
aver favorito un imprenditore discutibile. E non dimentichiamoci della
complicità dei media, sempre pronti a esaltare questi “eroi” con toni enfatici,
salvo poi cambiare argomento quando emergono ombre sul loro operato. “La
verità è fragile, la menzogna è comoda”, diceva il filosofo polacco
Zygmunt Bauman. E per molti politici, la menzogna dell’antimafia è comodissima.
La mafia
dentro lo Stato
L’antimafia,
quella vera, non si fa solo a parole. E qui sta il problema: molti dei politici
che si dichiarano antimafia non hanno nessuna intenzione di toccare i veri nodi
del sistema. Si limitano a parlare di legalità come di una questione astratta,
senza mai nominare i legami tra mafia e potere economico, tra mafia e politica.
Parlare di mafia in termini generici, senza mai puntare il dito contro chi
comanda davvero, è il miglior modo per non cambiare nulla. Come diceva Giovanni
Falcone: “La mafia non è affatto invincibile; è un fenomeno umano e come
tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche
una fine. Ma se vogliamo vincerla, non dobbiamo mai separarci dalla realtà”.
E la realtà è che
la mafia non è solo un’organizzazione criminale, ma un sistema che penetra il
tessuto dello Stato. Molti dei politici che si dicono antimafia ne sono
consapevoli, ma preferiscono non andare troppo a fondo. Non vogliono rischiare.
Meglio restare sul vago, meglio usare la retorica. Il grande giornalista Pippo
Fava, assassinato dalla mafia, diceva: “La mafia non è una piovra. La mafia
è una mentalità che permea ogni strato della società”. Ma quanti politici
hanno davvero il coraggio di dirlo? Quanti sono disposti a mettere in
discussione quel sistema che li ha portati al potere?
Conclusione:
l’antimafia di facciata
In Italia,
l’antimafia è spesso un teatro. Ci sono i protagonisti, che recitano la parte
dei difensori della legalità, e ci sono gli spettatori, il pubblico che si beve
ogni parola. Ma dietro le quinte, il sistema resta intatto. Certo, ci sono
stati progressi: alcuni boss sono stati arrestati, alcune reti criminali
smantellate. Ma la mafia, quella vera, continua a vivere nelle pieghe della
società, protetta proprio da quel silenzio complice che molti politici, anche
quelli che si dichiarano antimafia, preferiscono mantenere.
E allora ci
chiediamo: dove sono i veri difensori della legalità? Dove sono i politici che,
come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, hanno il coraggio di dire le cose
come stanno, senza paura di perdere consensi? Sono pochi, troppo pochi. Come
diceva l’economista italiano Emanuele Felice: “L’Italia è un paese dove
tutti sono antimafia, ma pochi sono disposti a combatterla davvero”.
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