“Il gesuita del deserto e il monastero dell'utopia. Breve storia di padre Paolo Dall'Oglio e della comunità di Mar Musa” di Davide Romano
C'è un luogo in Siria dove le pietre parlano una lingua che il fanatismo
non può cancellare. Per raggiungerlo bisogna salire 345 gradini scavati nella
roccia, nel deserto del Qalamun, a ottanta chilometri da Damasco. Lassù, a
milletrecento metri di altitudine, aggrappato alla montagna come un nido
d'aquila, sorge il monastero di Mar Musa al-Habashi, San Mosè l'Abissino. Un
nome che è già un programma: l'etiope che fuggì dal trono per cercare Dio nel
silenzio del deserto siriano, nel VI secolo, quando l'islam non era ancora nato
e il cristianesimo parlava aramaico.
Le rovine che Paolo Dall'Oglio trovò nell'agosto del 1982 raccontavano una
storia millenaria. Era un giovane gesuita romano, figlio della generazione che
credeva impossibile essere cristiani senza battersi per la giustizia. Aveva
ventotto anni, studiava arabo a Damasco, quando salì a quelle rovine per un
ritiro spirituale di dieci giorni. Non immaginava che quel luogo sarebbe
diventato la sua vita, il suo destino, e forse la sua tomba.
L'utopia nel deserto
Dall'Oglio non era un missionario convenzionale, e Mar Musa non sarebbe
diventato un monastero qualunque. Ordinato sacerdote del rito siriaco cattolico
nel 1984, cominciò a ricostruire quelle mura abbandonate dall'ultimo monaco nel
1830. Non da solo: con lui arrivarono architetti, restauratori dell'Istituto
Centrale per il Restauro italiano, volontari, e soprattutto amici musulmani.
Perché questa era l'idea folle che animava il gesuita romano: che cristiani e
musulmani potessero non solo convivere, ma amarsi come fratelli nella fede
nell'unico Dio.
Nel 1991 fondò la Comunità al-Khalil – "l'amico di Dio",
l'epiteto di Abramo nel Corano. Una comunità monastica mista, uomini e donne,
cattolici e ortodossi, che scelse tre priorità radicali: preghiera, lavoro
manuale e ospitalità. Quest'ultima, nel mondo arabo, è virtù sacra, e a Mar
Musa divenne il cuore pulsante di tutto. Migliaia di persone salirono quei
gradini negli anni: cristiani, musulmani, ebrei, atei. Giovani siriani in cerca
di senso, intellettuali europei, beduini della zona. Nel 2010, trentamila
visitatori attraversarono quella porta bassa che costringe chiunque a piegarsi
per entrare – gesto simbolico e necessario.
La chiesa del monastero custodisce affreschi dell'XI secolo che raccontano
anch'essi di quel dialogo antico. Il Giudizio universale dipinto dal pittore
Sarkis tra il 1192 e il 1208 porta iscrizioni in arabo cristiano che utilizzano
espressioni coraniche: "Nel nome di Dio clemente e misericordioso".
Una commistione inevitabile, spiegava Dall'Oglio, visto che le Chiese d'Oriente
adottarono l'arabo come lingua liturgica, la stessa del Corano, quella che a
Pentecoste fu l'ultima citata tra le lingue in cui si udì l'annuncio degli
apostoli.
Il dialogo come vocazione
La regola della comunità, approvata dalla Congregazione per la Dottrina
della Fede dopo quattro anni di esami scrupolosi (2002-2006), parlava chiaro.
Alla base c'è quello che padre Paolo chiamava il voto di "badaliya":
amare i musulmani e offrire la vita per la loro salvezza. Non era retorica. Era
convinzione radicale che l'amore di Cristo abbracciasse anche l'islam, che si
dovesse "scoprire come Cristo ama i musulmani, in che modo Cristo stesso
li guarda".
Un'idea estrema, certamente. Lo ammetteva lui stesso con autoironia. Ma
Roma, dopo attenti controlli, approvò. Nel 2009 l'Università Cattolica di
Lovanio gli conferì la laurea honoris causa. Il Premio per la Pace della
Regione Lombardia arrivò nel 2012. E nel 2006 il monastero ricevette il Premio
euromediterraneo per il dialogo tra le culture. Riconoscimenti che
testimoniavano come quell'utopia nel deserto avesse prodotto frutti concreti.
La comunità crebbe. Si aggiunsero monasteri affiliati: Mar Elian a
Qaryatayn (poi distrutto dall'Isis nel 2015), Deir Maryam al-Adhra nel
Kurdistan iracheno, il monastero del Santissimo Salvatore a Cori, nel Lazio.
Oggi la comunità conta otto membri, un novizio e due postulanti. Piccola,
fragile, ma viva.
La primavera che divenne inverno
Poi venne il 2011, e con esso la cosiddetta primavera araba. In Siria si
trasformò rapidamente in tragedia. Dall'Oglio non poteva tacere. Scrisse un
testo proponendo una transizione democratica pacifica, un'architettura
istituzionale basata sul consenso delle diverse componenti religiose e sociali
del paese. Il regime di Bashar al-Assad rispose con la minaccia di espulsione.
Nell'estate 2012, dopo una lettera aperta all'inviato speciale dell'ONU Kofi
Annan, Dall'Oglio fu costretto a lasciare la Siria.
Ma non poteva stare lontano. Nel luglio 2013 riuscì a rientrare nel nord
del paese, controllato dai ribelli. Si recò a Raqqa, la futura
"capitale" del sedicente Stato Islamico, per tentare di mediare tra
gruppi curdi e jihadisti arabi, e per trattare la liberazione di ostaggi. Era
un folle? Un eroe? Forse semplicemente un uomo che credeva davvero in quello
che predicava.
Il 29 luglio 2013, a cinquantanove anni, Paolo Dall'Oglio scomparve.
Rapito, presumibilmente, da miliziani legati ad al-Qaeda. Da allora, silenzio.
Voci contrastanti sulla sua sorte: chi lo dava morto, chi vivo sotto custodia
dell'Isis. Nel giugno 2025 circolò la notizia che i suoi resti fossero stati
ritrovati in una fossa comune, ma senza conferme certe.
L'eredità vivente
Chi scrive di storia sa che la fanno gli uomini liberi, quelli che non
hanno paura di pagare il prezzo delle proprie idee. Dall'Oglio era di questa
razza. Nel libro-testamento pubblicato nel 2023, "Il mio testamento",
che raccoglie conferenze tenute prima dell'espulsione, Papa Francesco nota con
emozione come padre Paolo parlasse del "giorno della sua offerta finale
per Gesù", aggiungendo che "la nostra vocazione nel contesto
musulmano dovrebbe essere adornata da una risata di gioia".
Una risata di gioia. In mezzo alla tragedia siriana, all'odio settario,
alla barbarie dell'Isis. Ci vuole una fede incrollabile, o una follia sacra,
per pensare una cosa simile. Eppure la comunità di Mar Musa è ancora lì. Padre
Jihad Youssef, che guida oggi il monastero con sei confratelli, racconta che
dopo la caduta del regime Assad l'immagine di padre Paolo è diventata icona
della Siria libera, presente nelle piazze e nei cuori. Jacques Mourad, il primo
monaco arrivato a Mar Musa nel 1989, rapito anch'egli dall'Isis e
fortunatamente liberato, è stato nominato vescovo di Homs.
Dal giugno 2022 il monastero ha riaperto le porte ai visitatori, dopo dieci
anni di isolamento dovuti alla guerra e poi alla pandemia. I gradini sono
sempre lì, ripidi e faticosi. La porta è ancora bassa. Gli affreschi millenari
resistono. E la regola della comunità continua a parlare di preghiera, lavoro e
ospitalità. Di un cristianesimo incarnato nel mondo arabo-islamico. Di un
dialogo che il sangue non è riuscito a cancellare.
Epilogo
C'è chi dirà che l'esperienza di Mar Musa è marginale, che in Medio Oriente
il dialogo islamo-cristiano è utopia. Forse. Ma senza esperienze come questa, o
come Taizé e Tibhirine, non sarebbero stati possibili il viaggio di Papa
Francesco in Iraq o il Documento sulla Fratellanza Umana firmato ad Abu Dhabi
nel 2019. Le pietre che parlano, talvolta, pesano più delle bombe.
Padre Paolo Dall'Oglio probabilmente non tornerà da Raqqa. Più di dodici
anni sono molti, troppi. Ma il monastero che ha fatto rinascere dalle rovine è
ancora vivo. E con esso vive quell'idea così semplice e così difficile che
animava il gesuita romano: che nell'amicizia siamo sacramento gli uni per gli
altri dell'amore di Dio. Cristiani, musulmani, tutti. Senza distinzioni, senza
condizioni.
Nel deserto del Qalamun, dove Mosè l'Abissino cercò Dio sedici secoli fa,
quella piccola comunità continua a salire 345 gradini ogni giorno. A pregare in
arabo secondo il rito siriaco. Ad accogliere chi bussa alla porta. A credere
che il dialogo sia possibile, necessario, benedetto. È la lezione di padre
Paolo: testarda, estrema, evangelica. Un'utopia che non si arrende.
Fonti principali:
- Francesca
Peliti, "Paolo Dall'Oglio e la Comunità di Deir Mar Musa. Un deserto,
una storia", Effatà Editrice, 2022
- "Il
mio testamento", conferenze di padre Paolo Dall'Oglio, Centro
Ambrosiano, 2023, con prefazione di Papa Francesco
- Vatican
News, articoli sulla comunità di Mar Musa (2022)
- Avvenire,
reportage sul monastero (2022-2024)
- Gesuiti.it,
biografia e testimonianze
- 30Giorni,
"Un monastero in mezzo all'islam" di Gianni Valente

Grazie per la condivisione . Una storia interessante e raccontata con passione. 🌻
RispondiEliminaCi vorrebbero più pensieri come quelli proposti in questo testo per realizzare la redenzione del nostro mondo. Grazie AL
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