“Sulle orme del Poverello. Appunti di viaggio” Davide Romano


 

 

La preparazione. Quando le parole perdono senso

Era luglio e la redazione sembrava un forno. Seduto alla mia scrivania, fissavo lo schermo del computer con la sensazione di non aver scritto niente di significativo da mesi. Anzi, da anni. Articoli che si assomigliavano tutti, notizie che dimenticavo appena mandate in stampa, interviste che non lasciavano traccia né in me né, probabilmente, in chi le leggeva. A quarant'anni, dopo quasi vent'anni di professione, sentivo di essere diventato un ingranaggio in una macchina che produceva rumore al posto dell'informazione.

La stanchezza non era solo fisica. Era una spossatezza dell'anima che mi faceva svegliare ogni mattina con la sensazione di recitare sempre la stessa parte. Battevo la fiacca, lo sapevo bene. I colleghi più giovani correvano dietro alle breaking news, io arraricavo facendo il minimo indispensabile. Il direttore aveva smesso di affidarmi i pezzi importanti, relegandomi alle cronache locali e ai riempitivi.

Ma la verità era che non me ne importava più niente. Avevo la sensazione che la mia vita girasse a vuoto, come un motore che continua a girare senza essere innestato. Mi alzavo, andavo in redazione, scrivevo, tornavo a casa, guardavo la televisione, andavo a dormire. E il giorno dopo ricominciavo, identico al precedente. Era questo il "successo" che avevo inseguito per anni?

Una sera, vagando tra le librerie del centro, mi ritrovai davanti al bancone delle offerte con in mano un volume delle Fonti Francescane. Non so cosa mi spinse a comprarlo. Forse la copertina consumata, forse il prezzo ridicolo, forse una nostalgia inconscia per i tempi in cui credevo ancora in qualcosa. Quella notte lo aprii quasi per caso e mi imbattei nel Testamento di San Francesco: "Il Signore dette a me, frate Francesco, d'incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava troppo amaro vedere i lebbrosi..."

C'era qualcosa in quelle parole che mi colpì dritto al petto. Francesco parlava di una vita che aveva smesso di avere senso, di una ricerca che partiva proprio dal disgusto per quello che si era diventati. Era la storia di un uomo che un giorno si era fermato e aveva detto: "Basta, questa non è la mia vita".

Nelle settimane successive divorai tutto quello che riuscii a trovare: la biografia di Jacques Le Goff, la Legenda Maior di San Bonaventura, gli scritti di Tommaso da Celano, i Fioretti, le Considerazioni sulle Stimmate. Leggevo di notte, dopo le giornate vuote in redazione, e per la prima volta da anni sentivo qualcosa che assomigliava alla sete. Non era curiosità professionale, era fame di senso.

Francesco mi ossessionava perché anche lui aveva attraversato una crisi profonda. Figlio di un ricco mercante, aveva tutto quello che un giovane del suo tempo poteva desiderare: denaro, successo, riconoscimento sociale. Ma a un certo punto si era fermato e aveva capito che stava vivendo la vita di un altro. Come me, forse. Come tutti noi che ci ritroviamo a quarant'anni a chiederci dove sia finito il tempo e chi sia quella persona che ci guarda dallo specchio.

Fu leggendo la Leggenda di Santa Chiara che decisi di partire per Assisi. Chiara, diciottenne, nobile, bella, con un futuro di privilegi già scritto, una notte scappa di casa per seguire Francesco. Era la storia di chi ha il coraggio di buttare via tutto per cercare la verità. Io non avevo diciott'anni, non ero nobile, e forse non avevo nemmeno il suo coraggio. Ma avevo bisogno di capire cosa li aveva spinti a cambiare vita così radicalmente.

 

Primo giorno. L'arrivo di uno sconfitto

Il treno regionale per Assisi era quasi vuoto. Erano le prime ore di un martedì mattina del mese di agosto e io ero seduto accanto al finestrino con addosso la sensazione di essere un fuggiasco. Avevo detto in redazione che prendevo qualche giorno di ferie, senza specificare dove andavo. La verità era che avevo paura del loro sguardo, del loro giudizio su un giornalista di circa mezza età che andava in pellegrinaggio.

Quando il treno si fermò alla stazione di Assisi, vidi le torri medievali stagliarsi contro il cielo e pensai: "Eccomi qui, Francesco. Sono venuto a cercare quello che tu hai trovato". Era ridicolo, lo sapevo, ma in quel momento mi sembrava l'unica cosa sensata da fare.

Avevo prenotato una camera al Domus Pacis, una casa per pellegrini gestita dai frati francescani. Non era per risparmio, era per autenticità. Volevo vivere l'esperienza come chi arriva qui davvero in cerca di qualcosa, non come un turista che consuma spiritualità.

La mia stanza era spartana: un letto di ferro, un armadio, una scrivania, un crocifisso. Dalla finestra si vedeva il cortile dove i frati coltivavano pomodori e basilico. Guardando quella normalità, quella semplicità, sentii per la prima volta da mesi qualcosa che assomigliava alla pace.

Presi il Memoriale nel desiderio dell'anima di Tommaso da Celano e mi diressi verso la Basilica Inferiore. Volevo leggere le parole sulla morte di Francesco proprio davanti alla sua tomba, confrontarmi con la fine di un uomo che aveva saputo vivere davvero.

La cripta era in penombra, illuminata solo dalle candele che tremolavan come piccole preghiere. Mi sedetti su una panca di marmo e aprii il libro: "Quando si avvicinò l'ora della sua morte, chiamò a sé i suoi figli e, benedicendoli, li ammonì dell'amore di Dio, della povertà e del santo Vangelo...".

Lì, in quel silenzio carico di otto secoli di preghiere, mi resi conto di essere arrivato anche io alla fine di qualcosa. Non stavo morendo, ma la mia vita di prima, quella vita che giraya a vuoto, era morta. Era morta da tempo, solo che non avevo avuto il coraggio di ammetterlo. Ero venuto ad Assisi per cercare il coraggio di Francesco, la sua capacità di dire addio a tutto per ricominciare da capo.

 

Secondo giorno. La chiamata alla Porziuncola

All'alba del secondo giorno presi l'autobus per Santa Maria degli Angeli. Avevo dormito poco, ma per la prima volta da mesi non mi sentivo stanco. Era come se la vicinanza alla storia di Francesco mi restituisse un'energia che credevo di aver perduto per sempre.

La Porziuncola, quella piccola chiesa di pietra custodita dentro la grande basilica, era il posto dove tutto era cominciato. Qui Francesco aveva capito la sua vocazione ascoltando il brano del Vangelo di Matteo: "Non procuratevi oro, né argento, né denaro nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone".

Mi sedetti in una delle panche di legno e riaprii la Leggenda dei Tre Compagni: "Udendo ciò, subito esclamò pieno di gioia: Questo è quello che voglio, questo è quello che cerco, questo è quello che dal profondo del cuore bramo di fare!".

Francesco aveva ventiseienne anni quando ebbe quella illuminazione. Io ne avevo quaranta e mi sentivo finito. Ma forse non era troppo tardi. Forse anche a quarant'anni si poteva ricominciare, si poteva dire addio a una vita che non ci apparteneva più.

Pensai al mio lavoro, a tutti quegli articoli scritti senza convinzione, a quelle interviste fatte solo per riempire le pagine. Pensai a come avevo tradito la passione che mi aveva spinto a fare il giornalista: la ricerca della verità, il desiderio di raccontare storie che potessero cambiare qualcosa. Quando avevo smesso di credere in quello che facevo? Quando avevo iniziato a battere la fiacca, a vivere di rendita sul poco talento che avevo?

Visitai anche la cella dove Francesco morì, e la cappella del Transito dove compose l'ultima strofa del Cantico delle Creature: "Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente po' scappare".

Anche io dovevo morire. Dovevo uccidere il giornalista stanco e disilluso che ero diventato, per vedere se dentro di me c'era ancora qualcosa di vivo, qualcosa di vero.

 

Terzo giorno. La forza di Chiara

Il terzo giorno lo dedicai a Santa Chiara. Avevo bisogno di capire cosa avesse spinto una diciottenne nobile ad abbandonare tutto per seguire Francesco. Nella sua storia c'era qualcosa che mi riguardava: la capacità di dire no a una vita già scritta, di rifiutare un futuro che altri avevano deciso per te.

La Basilica di Santa Chiara, con la sua struttura gotica severa, rifletteva il carattere determinato della santa. Qui, davanti al crocifisso di San Damiano che aveva parlato a Francesco, rilessi la prima lettera a Agnese di Praga: "O beata povertà, che procura ricchezze eterne a coloro che l'amano e l'abbracciano!".

Chiara mi affascinava perché aveva avuto tutto e aveva scelto di non avere niente. Io non avevo mai avuto molto, ma anche quel poco mi sembrava ormai un peso. Il mio lavoro, le mie sicurezze, le mie abitudini: tutto mi sembrava una prigione dorata dalla quale non riuscivo a evadere.

Trascorsi il pomeriggio nella cripta, dove è conservato il corpo di Santa Chiara. C'era un silenzio che puliva la mente, che faceva tacere tutte le voci che mi dicevano di essere un fallito, un giornalista finito, un uomo che non aveva saputo costruirsi una vita degna di questo nome.

Pensai a Chiara che a diciotto anni aveva avuto il coraggio di dire no a tutto. Io a quaranta avevo ancora tempo per dire no? Potevo ancora scegliere una vita diversa, anche se non sapevo quale?

 

Quarto giorno. San Damiano e l'inizio della riparazione

Il quarto giorno raggiunsi San Damiano a piedi, percorrendo lo stesso sentiero che Francesco faceva per andare a trovare Chiara. Camminando sotto il sole di agosto, sentivo che ogni passo mi allontanava dalla mia vita di prima e mi avvicinava a qualcosa di nuovo, di cui ancora non vedevo i contorni.

San Damiano è il luogo dove tutto ebbe inizio. Qui il crocifisso parlò a Francesco: "Va', Francesco, e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina". Il giovane prese alla lettera quelle parole e iniziò a restaurare la piccola chiesa con le proprie mani. Solo più tardi capì che la casa da riparare era la Chiesa universale.

Seduto davanti al posto dove un tempo si trovava il crocifisso (ora nella Basilica di Santa Chiara), pensai a cosa significasse "riparare". Francesco aveva iniziato con pietre e malta, ma in realtà stava riparando la propria vita, la propria anima. Forse anch'io dovevo iniziare a riparare qualcosa: non una chiesa, ma me stesso.

Da quanto tempo non scrivevo un articolo di cui fossi fiero? Da quanto tempo non facevo un'intervista che mi lasciasse qualcosa dentro? Avevo smesso di riparare la mia professione, l'avevo lasciata andare in rovina. E con essa, era andato in rovina anche il mio rapporto con me stesso.

Nel piccolo oratorio dove Chiara aveva vissuto per quarant'anni, guardai le semplici celle delle clarisse. Qui la santa aveva scritto le sue lettere, aveva governato la sua comunità, aveva pregato per la salvezza di Assisi. Qui aveva trasformato la rinuncia in pienezza, la povertà in ricchezza spirituale.

Forse anche io dovevo iniziare a rinunciare: al cinismo che mi aveva corroso, alla pigrizia che mi aveva reso mediocre, alla rassegnazione che mi aveva convinto di essere finito. Dovevo smettere di battere la fiacca e ricominciare a lottare, anche se non sapevo ancora per cosa.

 

Quinto Giorno. L'eremo e il silenzio che cura

Il quinto giorno salii all'Eremo delle Carceri con l'animo di chi cerca una medicina per la propria anima malata. Il sentiero era faticoso, ma ogni passo mi sembrava un passo verso la guarigione. La natura selvaggia del Monte Subasio mi accoglieva come una madre accoglie un figlio ferito.

L'Eremo delle Carceri è fatto di piccole celle scavate nella roccia, luoghi dove Francesco si ritirava per pregare e meditare. Visitai la sua grotta e rimasi colpito dall'essenzialità di quel luogo. Niente decorazioni, niente comfort: solo la roccia nuda e il silenzio.

Seduto in quella grotta, sentii per la prima volta da anni un vero silenzio. Non quello forzato delle notti di insonnia, ma un silenzio che guariva. Un silenzio che faceva tacere le voci che mi dicevano di essere un fallito, un giornalista finito, un uomo che non aveva saputo costruirsi una vita degna.

Rilessi il capitolo dei Fioretti che racconta come Francesco predicasse agli uccelli: "Fratelli miei uccelli, voi dovete molto lodare il vostro Creatore e sempre amarlo". Anche io dovevo imparare a lodare, a ringraziare, a vedere la bellezza che la mia stanchezza aveva oscurato.

In quel silenzio iniziai a fare i conti con me stesso. Quando aveva iniziato a morire il giornalista che ero stato? Quando avevo smesso di cercare la verità e mi ero accontentato di ripetere luoghi comuni? Quando avevo iniziato a vivere di rendita sul poco talento che avevo?

Forse non era troppo tardi. Forse anche a quarant'anni si poteva ricominciare, si poteva ritrovare quella passione che mi aveva spinto a fare questo mestiere. Francesco aveva iniziato la sua conversione a venticinque anni, ma c'erano stati santi che avevano cambiato vita molto più tardi.

 

Sesto Giorno. Giotto e la bellezza che salva

Il sesto giorno mi immersi negli affreschi di Giotto nella Basilica Superiore. Avevo bisogno di bellezza, di quella bellezza che può salvare un'anima che sta annegando nel grigiore della quotidianità.

Ogni affresco era come un capitolo di un libro che raccontava la trasformazione di un uomo. Francesco che riceve l'omaggio dell'uomo semplice, Francesco che rinuncia ai beni paterni, Francesco che sogna il palazzo di armi, Francesco che riceve le stimmate. Era la storia di una conversione, ma anche la storia di una rinascita.

Quello che mi colpiva era la gioia che traspariva dai volti dipinti da Giotto. Francesco non era un santo triste, era un uomo che aveva trovato la felicità nella rinuncia, la pienezza nella povertà, la libertà nell'obbedienza a Dio.

Davanti all'affresco della rinuncia ai beni paterni, pensai a cosa dovessi abbandonare io. Non avevo ricchezze da restituire, ma avevo pigrizia da abbandonare, cinismo da rinnegare, rassegnazione da rifiutare. Dovevo spogliarmi di tutto quello che mi impediva di essere il giornalista che avevo sognato di diventare.

Per la prima volta da anni, sentii il desiderio di scrivere qualcosa di importante. Non sapevo ancora cosa, ma sentivo che dentro di me si stava risvegliando quella fame di verità che mi aveva spinto a fare questo mestiere.

 

Settimo giorno. Il commiato e la rinascita

L'ultimo giorno salii alla Rocca Maggiore per vedere Assisi dall'alto. Volevo guardare quella città che mi aveva accolto come un rifugio e che ora mi stava restituendo al mondo con un'anima diversa.

Dalla Rocca, la valle umbra si stendeva ai miei piedi come una promessa. Il sole nascente tingeva di oro le cime dei monti, e io sentivo che anche dentro di me stava sorgendo qualcosa di nuovo.

Riaprii per l'ultima volta il Testamento di Francesco: "E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma l'Altissimo stesso mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo".

Anch'io dovevo trovare la mia forma, il mio modo di vivere da giornalista. Non potevo più continuare a battere la fiacca, a scrivere articoli senza anima, a vivere una vita che girava a vuoto. Dovevo tornare alle origini, a quella passione per la verità che mi aveva fatto innamorare di questo mestiere.

Prima di partire, feci un'ultima visita alla tomba di Francesco. Davanti al sarcofago di pietra, feci una promessa: non sarei più tornato a essere il giornalista stanco e disilluso che ero stato. Avrei cercato di scrivere solo cose in cui credevo, di raccontare storie che potessero cambiare qualcosa, di essere fedele a quella vocazione che Francesco mi aveva aiutato a ritrovare.

Il treno per Roma partiva nel pomeriggio. Mentre le colline umbre scorrevano dal finestrino, sapevo che stavo tornando nel mondo con un'anima nuova. Non sapevo ancora come avrei cambiato la mia vita, ma sapevo che l'avrei cambiata.

Francesco mi aveva insegnato che non è mai troppo tardi per ricominciare, che anche a quarant'anni si può dire addio a una vita che non ci appartiene più. Portavo con me la sua lezione più importante: la vita vale la pena di essere vissuta solo se si ha il coraggio di viverla davvero, fino in fondo, senza compromessi.

Tornando a Roma, sapevo che la vera sfida iniziava ora. Dovevo trasformare quella settimana di grazia in una vita nuova, quella conversione interiore in un cambiamento concreto. Ma per la prima volta da anni, non avevo paura del futuro. Avevo ritrovato la speranza, e con essa, il coraggio di ricominciare.

 

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