Quella dei film, dei libri, di
Hemingway. Quella che ci faceva sognare
C'era una volta l'America. Non quella
dei sondaggi, dei tweet, delle polarizzazioni che ci arrivano ogni mattina
insieme al caffè. C'era l'America che ci aveva fatto innamorare, quella che ci
aveva cresciuti a pane e cinema, a sogni e letteratura. Era l'America di
Hemingway che pescava marlin nelle acque di Cuba, di Steinbeck che raccontava
la polvere dell'Oklahoma, di Capra che ci insegnava che un uomo solo può
cambiare il mondo.
Dove è finita quell'America? Quella
dei film in bianco e nero dove Gary Cooper camminava solo contro tutti a
mezzogiorno in punto, dove James Stewart scopriva che la vita vale la pena di
essere vissuta, dove Humphrey Bogart salutava Ingrid Bergman nella nebbia di
Casablanca dicendo che i problemi di due persone non contano molto in questo
mondo pazzo. Era l'America che ci faceva credere nell'eroismo quotidiano, nella
possibilità di essere migliori, nella forza delle idee giuste.
Noi europei, cresciuti tra le macerie
di due guerre mondiali, guardavamo a quell'America come alla terra promessa
della modernità. Non solo per i grattacieli di New York o le automobili
cromate, ma per qualcosa di più profondo: l'idea che si potesse ricominciare da
capo, che bastasse attraversare un oceano per reinventarsi, che il futuro
potesse essere migliore del passato. Era l'America del sogno americano, quando
ancora si chiamava sogno e non incubo.
L'America di Hemingway non era
perfetta, anzi. Il vecchio Santiago de "Il vecchio e il mare" lottava
contro la natura e la solitudine, i personaggi di "Addio alle armi"
scoprivano che l'amore non salva dalla guerra, quelli di "Per chi suona la
campana" imparavano che ogni uomo è un'isola ma che la morte di ciascuno
ci diminuisce tutti. Era un'America che guardava in faccia la realtà senza
trucchi, ma che non smetteva di cercare il senso, la bellezza, la dignità anche
nella sconfitta.
Era l'America di "Furore"
di Steinbeck, dove i Joad attraversavano un continente per inseguire la
speranza, e anche quando la speranza si rivelava illusoria, rimaneva la
solidarietà, rimaneva l'umanità. Era l'America che sapeva raccontare le proprie
contraddizioni senza nasconderle, che sapeva fare autocritica senza
autodistruggersi.
Al cinema ci affascinava
quell'America che sapeva essere epica senza retorica. John Ford ci mostrava la
conquista del West con i suoi eroi ambigui e i suoi paesaggi infiniti. Howard
Hawks ci insegnava che l'amicizia tra uomini può essere più forte della paura.
William Wyler ci faceva credere che anche i più piccoli gesti possano avere un
senso eroico.
Era l'America del jazz che nasceva
nei vicoli di New Orleans e conquistava il mondo, della letteratura beat che
esplorava l'anima del paese con la libertà di chi non ha niente da perdere, del
rock'n'roll che faceva ballare i giovani di tutto il mondo. Era l'America di
Miles Davis che suonava "Kind of Blue" e di Elvis che cantava
"Love Me Tender", di Marlon Brando che borbottava in "Fronte del
porto" e di Marilyn Monroe che sorrideva con malinconia.
Quella era l'America che ci aveva
educati al cinema, ai libri, alla musica. L'America che ci aveva insegnato che
si può essere potenti e vulnerabili insieme, forti e sensibili, vincenti e
poetici. L'America che non aveva paura di mostrare le proprie ferite, che
sapeva ridere di se stessa, che credeva ancora nelle grandi narrazioni senza
essere ingenua.
Oggi quell'America sembra scomparsa,
sostituita da una versione caricaturale di se stessa. Al posto di Gary Cooper
abbiamo i social media, al posto di Hemingway abbiamo i blogger, al posto del
cinema di Ford abbiamo i cinecomic. Non è che tutto fosse meglio prima -
sarebbe retorica da nostalgici. Ma qualcosa si è perso per strada.
Si è persa la capacità di sognare in
grande senza perdere il contatto con la realtà. Si è persa l'arte di raccontare
storie che parlassero all'anima senza dimenticare la mente. Si è persa la
semplicità che non è semplicioneria, la profondità che non è oscurità, la forza
che non è arroganza.
L'America di Hemingway sapeva che
"il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso", anche se
poi aggiungeva di essere d'accordo solo con la seconda parte. Era un'America
capace di ironia, di autoironia, di quella saggezza che nasce dalla
consapevolezza dei propri limiti.
Forse è ancora lì, quell'America.
Nascosta sotto le polemiche, i tweet, le divisioni che dominano i titoli dei
giornali. Forse resiste nei piccoli cinema indipendenti, nelle librerie di
quartiere, nei club dove si suona ancora jazz vero. Forse vive nei giovani
scrittori che provano a raccontare il loro paese con lo stesso sguardo onesto e
disincantato dei loro predecessori.
Ma noi, dall'altra parte dell'oceano,
la vediamo sempre meno. Ci arriva un'America urlata, polarizzata, sempre
arrabbiata per qualcosa. Un'America che ha perso la capacità di raccontarsi con
quella miscela di orgoglio e humour, di fiducia nel futuro e consapevolezza del
presente che l'aveva resa così affascinante.
Ridateci quell'America. Ridateci i
film che ci facevano sognare senza prenderci in giro, i libri che ci facevano
pensare senza annoiarci, la musica che ci faceva ballare senza vergognarci.
Ridateci l'America che sapeva essere grande senza essere grandiosa, potente
senza essere prepotente, moderna senza dimenticare il passato.
Ridateci l'America che ci aveva fatto
innamorare dell'idea stessa di America. Quella che ci aveva convinti che, da
qualche parte oltre l'Atlantico, esistesse ancora un posto dove tutto era
possibile, dove si poteva ricominciare da capo, dove le storie finivano bene
non per magia ma per volontà.
Ne abbiamo bisogno, di quell'America.
Ne ha bisogno il mondo, che è ancora più piccolo e fragile di quanto
immaginassimo negli anni d'oro del sogno americano. Ne ha bisogno soprattutto
l'America stessa, che sembra aver dimenticato come si fa a far sognare gli
altri senza perdere l'anima.
Complimenti Davide: un articolo che monopolizza in una lettura tutta d'un fiato. SL
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