"Ridateci la nostra America" di Davide Romano

 


Quella dei film, dei libri, di Hemingway. Quella che ci faceva sognare

C'era una volta l'America. Non quella dei sondaggi, dei tweet, delle polarizzazioni che ci arrivano ogni mattina insieme al caffè. C'era l'America che ci aveva fatto innamorare, quella che ci aveva cresciuti a pane e cinema, a sogni e letteratura. Era l'America di Hemingway che pescava marlin nelle acque di Cuba, di Steinbeck che raccontava la polvere dell'Oklahoma, di Capra che ci insegnava che un uomo solo può cambiare il mondo.

Dove è finita quell'America? Quella dei film in bianco e nero dove Gary Cooper camminava solo contro tutti a mezzogiorno in punto, dove James Stewart scopriva che la vita vale la pena di essere vissuta, dove Humphrey Bogart salutava Ingrid Bergman nella nebbia di Casablanca dicendo che i problemi di due persone non contano molto in questo mondo pazzo. Era l'America che ci faceva credere nell'eroismo quotidiano, nella possibilità di essere migliori, nella forza delle idee giuste.

Noi europei, cresciuti tra le macerie di due guerre mondiali, guardavamo a quell'America come alla terra promessa della modernità. Non solo per i grattacieli di New York o le automobili cromate, ma per qualcosa di più profondo: l'idea che si potesse ricominciare da capo, che bastasse attraversare un oceano per reinventarsi, che il futuro potesse essere migliore del passato. Era l'America del sogno americano, quando ancora si chiamava sogno e non incubo.

L'America di Hemingway non era perfetta, anzi. Il vecchio Santiago de "Il vecchio e il mare" lottava contro la natura e la solitudine, i personaggi di "Addio alle armi" scoprivano che l'amore non salva dalla guerra, quelli di "Per chi suona la campana" imparavano che ogni uomo è un'isola ma che la morte di ciascuno ci diminuisce tutti. Era un'America che guardava in faccia la realtà senza trucchi, ma che non smetteva di cercare il senso, la bellezza, la dignità anche nella sconfitta.

Era l'America di "Furore" di Steinbeck, dove i Joad attraversavano un continente per inseguire la speranza, e anche quando la speranza si rivelava illusoria, rimaneva la solidarietà, rimaneva l'umanità. Era l'America che sapeva raccontare le proprie contraddizioni senza nasconderle, che sapeva fare autocritica senza autodistruggersi.

Al cinema ci affascinava quell'America che sapeva essere epica senza retorica. John Ford ci mostrava la conquista del West con i suoi eroi ambigui e i suoi paesaggi infiniti. Howard Hawks ci insegnava che l'amicizia tra uomini può essere più forte della paura. William Wyler ci faceva credere che anche i più piccoli gesti possano avere un senso eroico.

Era l'America del jazz che nasceva nei vicoli di New Orleans e conquistava il mondo, della letteratura beat che esplorava l'anima del paese con la libertà di chi non ha niente da perdere, del rock'n'roll che faceva ballare i giovani di tutto il mondo. Era l'America di Miles Davis che suonava "Kind of Blue" e di Elvis che cantava "Love Me Tender", di Marlon Brando che borbottava in "Fronte del porto" e di Marilyn Monroe che sorrideva con malinconia.

Quella era l'America che ci aveva educati al cinema, ai libri, alla musica. L'America che ci aveva insegnato che si può essere potenti e vulnerabili insieme, forti e sensibili, vincenti e poetici. L'America che non aveva paura di mostrare le proprie ferite, che sapeva ridere di se stessa, che credeva ancora nelle grandi narrazioni senza essere ingenua.

Oggi quell'America sembra scomparsa, sostituita da una versione caricaturale di se stessa. Al posto di Gary Cooper abbiamo i social media, al posto di Hemingway abbiamo i blogger, al posto del cinema di Ford abbiamo i cinecomic. Non è che tutto fosse meglio prima - sarebbe retorica da nostalgici. Ma qualcosa si è perso per strada.

Si è persa la capacità di sognare in grande senza perdere il contatto con la realtà. Si è persa l'arte di raccontare storie che parlassero all'anima senza dimenticare la mente. Si è persa la semplicità che non è semplicioneria, la profondità che non è oscurità, la forza che non è arroganza.

L'America di Hemingway sapeva che "il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso", anche se poi aggiungeva di essere d'accordo solo con la seconda parte. Era un'America capace di ironia, di autoironia, di quella saggezza che nasce dalla consapevolezza dei propri limiti.

Forse è ancora lì, quell'America. Nascosta sotto le polemiche, i tweet, le divisioni che dominano i titoli dei giornali. Forse resiste nei piccoli cinema indipendenti, nelle librerie di quartiere, nei club dove si suona ancora jazz vero. Forse vive nei giovani scrittori che provano a raccontare il loro paese con lo stesso sguardo onesto e disincantato dei loro predecessori.

Ma noi, dall'altra parte dell'oceano, la vediamo sempre meno. Ci arriva un'America urlata, polarizzata, sempre arrabbiata per qualcosa. Un'America che ha perso la capacità di raccontarsi con quella miscela di orgoglio e humour, di fiducia nel futuro e consapevolezza del presente che l'aveva resa così affascinante.

Ridateci quell'America. Ridateci i film che ci facevano sognare senza prenderci in giro, i libri che ci facevano pensare senza annoiarci, la musica che ci faceva ballare senza vergognarci. Ridateci l'America che sapeva essere grande senza essere grandiosa, potente senza essere prepotente, moderna senza dimenticare il passato.

Ridateci l'America che ci aveva fatto innamorare dell'idea stessa di America. Quella che ci aveva convinti che, da qualche parte oltre l'Atlantico, esistesse ancora un posto dove tutto era possibile, dove si poteva ricominciare da capo, dove le storie finivano bene non per magia ma per volontà.

Ne abbiamo bisogno, di quell'America. Ne ha bisogno il mondo, che è ancora più piccolo e fragile di quanto immaginassimo negli anni d'oro del sogno americano. Ne ha bisogno soprattutto l'America stessa, che sembra aver dimenticato come si fa a far sognare gli altri senza perdere l'anima.

Commenti

  1. Complimenti Davide: un articolo che monopolizza in una lettura tutta d'un fiato. SL

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