“Nelle valli degli eretici. Un pellegrinaggio tra pietre e pregiudizi” di Davide Romano


 

Ho sempre diffidato dei pellegrini. Non quelli medievali, si capisce, che almeno avevano il coraggio delle proprie superstizioni e l'onestà di confessare che andavano in Terra Santa più per commerciare che per pregare. Diffido di quelli moderni, di questi weekend warriors dello spirito che partono da Milano col fuoristrada carico di provviste biologiche e tornano convinti di aver scoperto l'America, o almeno l'anima.

Eppure eccomi qui, nelle Valli Valdesi, a fare anch'io la mia brava camminata penitenziale. Non per fede, sia chiaro ma per quella curiosità morbosa che mi ha sempre spinto a ficcare il naso dove la Storia ha lasciato le sue cicatrici più profonde.

È un sabato mattina di ottobre e la nebbia sale dal fondovalle come l'anima di un morto che non si rassegna. Parcheggio l'auto a Luserna San Giovanni - nome che già suona come un compromesso tra sacro e profano - e comincio a salire verso Torre Pellice. La strada è quella che hanno percorso per secoli i mercanti, i soldati, i fuggitivi. E i predicatori, naturalmente. Sempre i predicatori, con la loro dannata abitudine di complicare la vita alla gente semplice.

Le Valli del Pellice, del Chisone e della Germanasca. Nomi che suonano dolci come una ninna nanna piemontese, ma che per secoli sono stati sinonimo di sangue e di fuoco. Qui, in questi anfratti che sembrano disegnati da Dio per nascondere i suoi figli più scomodi, si è consumata una delle tragedie più lunghe e più dimenticate d'Europa: la persecuzione dei valdesi.

Mi fermo a comprare il giornale in un'edicola che ha visto tempi migliori. Il venditore, un signore sui settanta con la barba da caprone e l'aria di chi ha letto troppi libri per i propri gusti, mi chiede con tono da novello inquisitore: "Cosa ci fa qui?". "Turismo", rispondo. Lui sorride: "Turismo della memoria, immagino. Bene. Qui di memoria ce n'è tanta, forse troppa. Ma bisogna saperla cercare".

 

All’inizio furono i Poveri di Lione

La storia comincia nel XII secolo, quando un mercante di Lione, tal Pietro Valdo, ebbe la malaugurata idea di prendere sul serio il Vangelo. Vendette tutto, distribuì i suoi beni ai poveri e si mise a predicare la povertà evangelica. Errore madornale. La Chiesa, che in fatto di povertà aveva le sue idee piuttosto confuse, non gradì. Valdo e i suoi seguaci furono scomunicati, ma invece di sparire come tutti i movimenti ereticali del tempo, questi testardi si rifugiarono qui, in queste valli che sembrano fatte apposta per chi vuole vivere secondo coscienza lontano dai potenti.

Ma chi erano davvero questi valdesi? Non erano intellettuali raffinati come i catari, non erano mistici esaltati come i flagellanti. Erano gente pratica, contadini e artigiani che avevano capito una cosa semplice: se il Vangelo dice che bisogna essere poveri per entrare nel regno dei cieli, allora bisogna esserlo davvero. Non a parole, come facevano i preti che predicavano la povertà dai pulpiti dorati, ma nei fatti.

Cammino per Torre Pellice, il loro "capoluogo" se così si può dire, e mi colpisce subito una cosa: qui non ci sono monumenti ai grandi condottieri, non ci sono statue di re o di papi. Ci sono invece lapidi che ricordano i massacri, le deportazioni, le "missioni" armate che per secoli si sono abbattute su questa gente colpevole soltanto di voler leggere la Bibbia nella propria lingua e di non riconoscere l'autorità temporale del Papa.

Il centro storico è quello tipico dei paesi alpini: case di pietra, tetti di lose, portici che sembrano fatti per ripararsi non solo dalla pioggia ma anche dai nemici. Qui ogni angolo racconta una storia di resistenza. Mi fermo davanti alla Casa valdese, oggi sede del museo e della biblioteca. Un edificio sobrio, quasi spartano, che riflette perfettamente la mentalità di chi lo ha costruito: niente fronzoli, niente decorazioni superflue, solo l'essenziale.

Entro e mi trovo davanti a un mondo che credevo scomparso: libri in provenzale, documenti in francese antico, lettere scritte di nascosto nelle carceri sabaude. C'è una sezione dedicata alle "barbe", i pastori itineranti che per secoli hanno tenuto viva la fede valdese girando di valle in valle, di casa in casa, rischiando ogni giorno la vita per celebrare un matrimonio, battezzare un bambino, dare l'estrema unzione a un moribondo.

La bibliotecaria, una signora di mezza età con gli occhi intelligenti e le mani che sanno maneggiare i libri antichi, mi mostra un manoscritto del XV secolo. "Questo è un Nuovo Testamento copiato a mano", dice. "Ci sono voluti tre anni per finirlo. Chi lo ha scritto sapeva che se lo avessero scoperto sarebbe finito al rogo. Ma l'ha fatto lo stesso". Domando perché. "Perché senza la Parola non si è niente", risponde. "E la Parola deve essere di tutti, non solo dei preti".

 

Le Pasque Piemontesi

Il duca Carlo Emanuele I, nel 1655, scatenò quella che la propaganda dell'epoca chiamò pudicamente "missione" e che la storia ricorda come le "Pasque Piemontesi". Pasque di sangue, si capisce. Cinquemila valdesi massacrati in pochi giorni, con quella creatività nella crudeltà che solo il fanatismo religioso riesce a ispirare. Bambini infilzati sulle baionette, donne violentate e poi bruciate, vecchi gettati dai precipizi.

Ma prima di arrivare a quel sabato santo del 1655, bisogna capire cosa era successo. I valdesi avevano commesso l'errore di fidarsi delle promesse del duca. Nel 1561 Emanuele Filiberto aveva firmato un trattato che garantiva loro una certa libertà di culto, limitata però alle valli più remote. Un ghetto dorato, insomma, ma sempre un ghetto.

Per quasi un secolo questo equilibrio precario aveva retto. I valdesi pagavano le tasse, fornivano soldati per l'esercito ducale, si comportavano da sudditi fedeli. In cambio potevano pregare il loro Dio a modo loro, purché lo facessero in sordina e senza dare fastidio ai vicini cattolici.

Ma nel 1655 le cose cambiarono. Il nuovo duca, Carlo Emanuele I, aveva sposato Cristina di Francia, una cattolica fervente che vedeva nell'eresia valdese un'offesa personale al Signore. E poi c'era la questione politica: Luigi XIV stava unificando religiosamente la Francia, e i Savoia non volevano essere da meno.

Il 25 gennaio 1655 fu pubblicato l'editto che imponeva ai valdesi di convertirsi al cattolicesimo o di abbandonare le loro terre entro venti giorni. Chi si fosse rifiutato sarebbe stato considerato ribelle e trattato di conseguenza. Era una trappola perfetta: chi partiva perdeva tutto, chi restava rischiava la vita.

I valdesi scelsero la resistenza. Si barricarono nei loro villaggi, organizzarono una difesa disperata. Avevano poche armi, nessuna esperienza militare, ma conoscevano ogni pietra, ogni sentiero, ogni nascondiglio delle loro montagne.

La notizia fece scalpore in tutta Europa. Persino Cromwell, che di massacri se ne intendeva, protestò ufficialmente. Milton scrisse un sonetto famoso: "Avenge, O Lord, thy slaughtered saints". Vendica, o Signore, i tuoi santi massacrati. Ma il Signore, evidentemente, aveva altro da fare.

Salgo verso Bobbio Pellice, dove il sentiero si fa più ripido e i castagni lasciano il posto agli abeti. Qui la natura sembra voler cancellare le tracce della barbarie umana, ma non ci riesce del tutto. Ogni tanto, su una roccia o su un muro diroccato, spunta una targa, un nome, una data. Sono i segni di una memoria ostinata, di una gente che non ha mai voluto dimenticare.

A Bobbio Pellice c'è una piccola chiesa, costruita nel XVII secolo sui resti di quella distrutta durante le Pasque. Il pastore che me la fa visitare è un uomo giovane, sui quarant'anni, con la barba curata e l'aria di chi ha studiato teologia a Ginevra ma non ha mai dimenticato di essere figlio di contadini. "Vede quella pietra lì?", mi dice indicando un masso vicino all'altare. "Lì si rifugiò una famiglia intera durante i massacri. Sette persone in uno spazio grande come un armadio. Ci stettero tre giorni, finché non passò il pericolo".

Domando se è vero che resistettero. "Resistettero quanto poterono", risponde. "Ma alla fine dovettero cedere. Cinquemila morti sono tanti, per una popolazione di quindicimila anime. Praticamente un genocidio, diremmo oggi. Solo che allora nessuno usava questa parola".

 

Il Glorioso Rimpatrio

Nel 1686 Luigi XIV, il Re Sole, revocò l'editto di Nantes e scatenò una persecuzione generale contro tutti i protestanti francesi. I valdesi del Piemonte, che erano sudditi dei Savoia ma parlavano francese e guardavano alla Francia come alla loro patria spirituale, si trovarono nella posizione più scomoda che si possa immaginare: eretici per i cattolici, stranieri per i francesi.

Furono deportati in massa nelle carceri del Piemonte e in Svizzera. Molti morirono di stenti, altri si convertirono per disperazione. Sembrava la fine di una storia durata cinque secoli. Ma un gruppo di irriducibili, guidato da Henri Arnaud, un pastore-soldato che sembrava uscito da un romanzo di Dumas, organizzò quello che loro chiamano ancora oggi il "Glorioso Rimpatrio".

Arnaud non era un uomo qualunque. Nato nelle Valli Valdesi, educato a Ginevra, aveva combattuto come ufficiale nell'esercito del duca d'Orange. Sapeva maneggiare la spada quanto la Bibbia, parlava quattro lingue e aveva quella caratteristica tipicamente valdese di non mollare mai, neanche quando la situazione sembrava disperata.

Nell'agosto del 1689, partirono da Ginevra in trecento. Attraversarono la Savoia combattendo contro i francesi, risalirono le Valli Valdesi battendosi contro i sabaudi, riconquistarono palmo a palmo la loro terra. Quando arrivarono a destinazione erano rimasti in novecento, perché lungo il cammino si erano uniti a loro i valdesi che erano riusciti a fuggire dalle prigioni.

Fu un'impresa militare straordinaria, studiata ancora oggi nelle accademie militari. Trecento uomini, per lo più ex contadini e artigiani, riuscirono a battere eserciti regolari, a superare fortezze considerate inespugnabili, a riconquistare un territorio che tutti davano per perduto. Come ci riuscirono? Semplice: conoscevano ogni pietra, ogni sentiero, ogni grotta delle loro montagne. E soprattutto, sapevano per cosa stavano combattendo.

Arrivo a Prali seguendo il percorso che fecero i "rimpatriati" di Arnaud. La strada è quella di sempre, ma oggi è asfaltata e piena di curve pericolose che fanno impazzire i camionisti. Allora era un sentiero di muli, percorribile solo da chi era nato qui e sapeva dove mettere i piedi.

 

La fortezza della fede

Prali è l'ultimo paese prima del colle del Baracun, il valico che porta in Francia. Qui l'aria è sottile e il silenzio così profondo che sembra di sentire i passi dei fantasmi. Mi siedo su una panca davanti alla chiesa e cerco di immaginare cosa doveva essere questo posto nel 1689, quando Arnaud e i suoi compagni arrivarono dopo mesi di marce forzate e di combattimenti.

La chiesa è piccola, essenziale, senza decorazioni superflue. All'interno, panche di legno consumate dalle ginocchia di generazioni di fedeli, un pulpito semplice, una tavola di legno scuro che fa da altare. Niente crocifissi, niente statue, niente ori. Solo la Bibbia aperta e un crocifisso semplice, senza la figura del Cristo. "Dio si adora in spirito e verità", dice il pastore che mi accompagna. "Non ha bisogno di fronzoli".

È un valdese della quinta generazione, mi racconta. I suoi antenati erano qui quando arrivò Arnaud, erano qui durante le Pasque Piemontesi, erano qui quando i primi missionari portarono il Vangelo di Valdo. "Noi siamo i guardiani della memoria", dice. "Non per nostalgia, ma per responsabilità. Chi dimentica la propria storia è condannato a ripeterla".

Mi mostra il registro dei morti della parrocchia. Pagine e pagine di nomi, date, cause di morte. "Morto per la fede", "ucciso dai soldati", "bruciato come eretico". Una litania di martirio che va avanti per secoli. "Vede", dice, "noi non siamo stati eroi. Siamo stati semplicemente testardi. Troppo testardi per arrenderci, troppo testardi per dimenticare".

Fuori, il vento suona tra gli abeti come un organo gigantesco. È il vento che ha accompagnato i valdesi per otto secoli, che ha portato via le loro preghiere e i loro lamenti, che ha coperto i loro passi quando fuggivano dai persecutori. Un vento che sa di libertà e di solitudine, di grandezza e di dolore.

Mi incammino verso il colle del Baracun, dove c'è un monumento ai caduti del Glorioso Rimpatrio. Non è un monumento retorico, non celebra la gloria delle armi o l'eroismo dei comandanti. È una pietra semplice, con incisi i nomi di chi non è tornato. Trecento partiti, novecento arrivati, ma molti altri morti lungo la strada. Il conto finale è sempre in perdita, quando si tratta di libertà.

 

La lezione dei vinti

Torno verso valle mentre il sole tramonta dietro le cime del Monviso. La luce radente fa brillare le foglie degli aceri come monete d'oro sparse per terra. È l'ora in cui le montagne diventano magiche, l'ora in cui anche il più scettico dei giornalisti si lascia prendere dalla poesia del paesaggio.

Ma mentre guido lungo la strada che serpeggia tra i castagni, non riesco a togliermi dalla mente l'immagine di quelle pagine di nomi, di quelle date, di quelle cause di morte. "Morto per la fede". Una frase che oggi suona ridicola, anacronistica. Chi muore più per la fede, nell'epoca di internet e dei viaggi low cost?

Mi fermo a Luserna San Giovanni, dove tutto è cominciato stamattina. Il paese è immerso in quella quiete provinciale che sa di domenica anche se è sabato. Davanti alla chiesa cattolica - perché qui, naturalmente, ci sono due chiese, una cattolica e una valdese, che si guardano con la discrezione di due ex fidanzati che si sono lasciati male - c'è una piccola folla di pensionati che discute animatamente.

Mi avvicino e sento che parlano di calcio, di politica, di pensioni. Le solite cose di cui parla la gente normale quando non deve preoccuparsi di essere bruciata viva per le proprie idee. È una conquista, questa normalità. Una conquista pagata con il sangue di generazioni di uomini e donne che non avevano altra colpa che quella di voler pregare il loro Dio a modo loro.

Entro nel bar del paese e ordino un caffè. Il barista, un giovane sui trent'anni con i capelli tinti di biondo e un tatuaggio sul braccio, mi riconosce. "Lei è quello del giornale", dice. "Cosa scrive delle nostre valli?". "Che sono piene di fantasmi", rispondo. "Fantasmi di gente che non si è mai arresa".

Lui sorride. "Mio nonno era valdese", dice. "Diceva sempre che noi siamo come i castagni: più ci potano, più ricresciamo. Sembra retorica, ma è vero. Guardate quante ne abbiamo passate e siamo ancora qui".

È vero. Sono ancora qui. Non sono più i valdesi di una volta, naturalmente. Non parlano più il provenzale, non sanno più a memoria i versetti della Bibbia, non si nascondono più nelle grotte per celebrare i matrimoni. Sono diventati cittadini italiani come tutti gli altri, con gli stessi problemi, le stesse ansie, le stesse piccole gioie di tutti gli altri.

Ma qualcosa è rimasto. Non so cosa, esattamente. Forse è una certa rigidità morale, un certo rifiuto del compromesso, una certa diffidenza verso i potenti. O forse è semplicemente la consapevolezza di essere i discendenti di gente che ha preferito morire piuttosto che mentire a se stessa.

Forse è proprio questo che mi affascina: la loro testardaggine. La loro capacità di resistere per secoli a un potere che disponeva di tutti i mezzi per annientarli. Non erano eroi, erano contadini, pastori, artigiani. Gente normale che aveva avuto la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata della Storia.

E allora mi viene in mente una cosa che mi disse una volta un vecchio valdese a Torre Pellice: "Noi non abbiamo mai vinto una guerra, ma non abbiamo mai perso una pace". Frase che all'inizio mi era sembrata retorica, ma che ora, qui, in questo silenzio di provincia, acquista un senso diverso.

 

Il prezzo della libertà

Riprendo la strada per Torino mentre la sera scende sulle montagne. Tra un'ora sarò sull'autostrada, tra due ore sarò a casa, davanti al mio computer, a scrivere questo pezzo. Tornerò alla mia vita di borghese metropolitano, alle mie nevrosi quotidiane, ai miei compromessi di giornalista che deve vendere copie e non scontentare nessuno.

Ma mentre guido, penso a una cosa che mi ha colpito durante questa giornata: la sproporzione tra la causa e l'effetto. I valdesi non hanno mai rappresentato una minaccia reale per nessuno. Erano quattro gatti, persi in mezzo alle montagne, che volevano solo pregare in pace. Eppure per secoli hanno scatenato passioni terribili, hanno mobilitato eserciti, hanno fatto scrivere trattati e concordati.

Perché? Cosa c'era di così pericoloso in questi contadini che leggevano la Bibbia in provenzale e non riconoscevano l'autorità del Papa? Forse proprio questo: l'idea che ognuno possa avere un rapporto diretto con Dio, senza intermediari, senza gerarchie, senza compromessi. Un'idea sovversiva, se ci si pensa. Un'idea che mette in discussione tutti i poteri costituiti.

È per questo che i valdesi sono stati perseguitati per otto secoli. Non perché fossero eretici, ma perché erano liberi. O almeno, volevano esserlo. E la libertà, quella vera, fa sempre paura a chi comanda.

Oggi le Valli Valdesi sono un posto per turisti colti, per weekend alternativi, per chi cerca il pittoresco a portata di autostrada. I giovani se ne vanno, le case tradizionali diventano seconde case per i milanesi in fuga dallo smog, la lingua provenzale si parla solo nelle riunioni del circolo culturale.

È il destino di tutti i luoghi dove la Storia ha lasciato il segno più profondo: diventare musei di se stessi. E forse è giusto così. Forse è meglio che queste valli siano invase dai camper dei pensionati tedeschi piuttosto che dai soldati di qualche nuovo fanatico.

Ma camminando per questi sentieri, respirando quest'aria che sa di resina e di memoria, mi viene da pensare che forse, in fondo, i valdesi hanno vinto davvero la loro guerra. Non l'hanno vinta con le armi, ma con la pazienza. Non l'hanno vinta contro i loro persecutori, ma contro l'oblio.

 

L'eredità degli eretici

Scendo verso valle mentre il sole tramonta dietro le cime del Monviso. Domani tornerò a Milano, alle mie nevrosi metropolitane, ai miei dubbi di borghese benestante. Ma qualcosa di questo viaggio me lo porterò dietro.

Forse è la lezione più importante che si può imparare da questi luoghi: che la libertà di coscienza non è un diritto naturale, come ci hanno insegnato a scuola, ma una conquista faticosa, pagata con il sangue e con le lacrime di generazioni di uomini e donne che hanno preferito morire piuttosto che mentire a se stessi.

I valdesi non erano santi. Erano semplicemente persone che avevano deciso di non delegare ad altri il rapporto con il proprio Dio. E per questo hanno pagato un prezzo altissimo. Forse troppo alto per le nostre sensibilità moderne, abituate a compromettersi con tutto e con tutti.

Ma in un'epoca come la nostra, dove la verità è diventata una questione di maggioranza e la coscienza individuale un lusso che non tutti possono permettersi, forse vale la pena di ricordare che esistono ancora luoghi dove la dignità umana ha resistito a tutto. Anche al tempo.

Le valli valdesi sono uno di questi luoghi. Non ci si va per trovare Dio – quello lo si può trovare anche in metropolitana. Ci si va per ricordare che cosa significa essere uomini quando essere uomini costa caro.

Ed è già molto.

 


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