Ho sempre diffidato dei pellegrini. Non quelli medievali, si capisce, che
almeno avevano il coraggio delle proprie superstizioni e l'onestà di confessare
che andavano in Terra Santa più per commerciare che per pregare. Diffido di
quelli moderni, di questi weekend warriors dello spirito che partono da Milano
col fuoristrada carico di provviste biologiche e tornano convinti di aver
scoperto l'America, o almeno l'anima.
Eppure eccomi qui, nelle Valli Valdesi, a fare anch'io la mia brava
camminata penitenziale. Non per fede, sia chiaro ma per quella curiosità
morbosa che mi ha sempre spinto a ficcare il naso dove la Storia ha lasciato le
sue cicatrici più profonde.
È un sabato mattina di ottobre e la nebbia sale dal fondovalle come l'anima
di un morto che non si rassegna. Parcheggio l'auto a Luserna San Giovanni -
nome che già suona come un compromesso tra sacro e profano - e comincio a
salire verso Torre Pellice. La strada è quella che hanno percorso per secoli i
mercanti, i soldati, i fuggitivi. E i predicatori, naturalmente. Sempre i
predicatori, con la loro dannata abitudine di complicare la vita alla gente
semplice.
Le Valli del Pellice, del Chisone e della Germanasca. Nomi che suonano
dolci come una ninna nanna piemontese, ma che per secoli sono stati sinonimo di
sangue e di fuoco. Qui, in questi anfratti che sembrano disegnati da Dio per
nascondere i suoi figli più scomodi, si è consumata una delle tragedie più
lunghe e più dimenticate d'Europa: la persecuzione dei valdesi.
Mi fermo a comprare il giornale in un'edicola che ha visto tempi migliori.
Il venditore, un signore sui settanta con la barba da caprone e l'aria di chi
ha letto troppi libri per i propri gusti, mi chiede con tono da novello
inquisitore: "Cosa ci fa qui?". "Turismo", rispondo. Lui
sorride: "Turismo della memoria, immagino. Bene. Qui di memoria ce n'è
tanta, forse troppa. Ma bisogna saperla cercare".
All’inizio furono i Poveri di Lione
La storia comincia nel XII secolo, quando un mercante di Lione, tal Pietro
Valdo, ebbe la malaugurata idea di prendere sul serio il Vangelo. Vendette
tutto, distribuì i suoi beni ai poveri e si mise a predicare la povertà
evangelica. Errore madornale. La Chiesa, che in fatto di povertà aveva le sue
idee piuttosto confuse, non gradì. Valdo e i suoi seguaci furono scomunicati, ma
invece di sparire come tutti i movimenti ereticali del tempo, questi testardi
si rifugiarono qui, in queste valli che sembrano fatte apposta per chi vuole
vivere secondo coscienza lontano dai potenti.
Ma chi erano davvero questi valdesi? Non erano intellettuali raffinati come
i catari, non erano mistici esaltati come i flagellanti. Erano gente pratica,
contadini e artigiani che avevano capito una cosa semplice: se il Vangelo dice
che bisogna essere poveri per entrare nel regno dei cieli, allora bisogna
esserlo davvero. Non a parole, come facevano i preti che predicavano la povertà
dai pulpiti dorati, ma nei fatti.
Cammino per Torre Pellice, il loro "capoluogo" se così si può
dire, e mi colpisce subito una cosa: qui non ci sono monumenti ai grandi condottieri,
non ci sono statue di re o di papi. Ci sono invece lapidi che ricordano i
massacri, le deportazioni, le "missioni" armate che per secoli si
sono abbattute su questa gente colpevole soltanto di voler leggere la Bibbia
nella propria lingua e di non riconoscere l'autorità temporale del Papa.
Il centro storico è quello tipico dei paesi alpini: case di pietra, tetti
di lose, portici che sembrano fatti per ripararsi non solo dalla pioggia ma
anche dai nemici. Qui ogni angolo racconta una storia di resistenza. Mi fermo
davanti alla Casa valdese, oggi sede del museo e della biblioteca. Un edificio
sobrio, quasi spartano, che riflette perfettamente la mentalità di chi lo ha
costruito: niente fronzoli, niente decorazioni superflue, solo l'essenziale.
Entro e mi trovo davanti a un mondo che credevo scomparso: libri in
provenzale, documenti in francese antico, lettere scritte di nascosto nelle
carceri sabaude. C'è una sezione dedicata alle "barbe", i pastori
itineranti che per secoli hanno tenuto viva la fede valdese girando di valle in
valle, di casa in casa, rischiando ogni giorno la vita per celebrare un
matrimonio, battezzare un bambino, dare l'estrema unzione a un moribondo.
La bibliotecaria, una signora di mezza età con gli occhi intelligenti e le
mani che sanno maneggiare i libri antichi, mi mostra un manoscritto del XV
secolo. "Questo è un Nuovo Testamento copiato a mano", dice. "Ci
sono voluti tre anni per finirlo. Chi lo ha scritto sapeva che se lo avessero
scoperto sarebbe finito al rogo. Ma l'ha fatto lo stesso". Domando perché.
"Perché senza la Parola non si è niente", risponde. "E la Parola
deve essere di tutti, non solo dei preti".
Le Pasque Piemontesi
Il duca Carlo Emanuele I, nel 1655, scatenò quella che la propaganda
dell'epoca chiamò pudicamente "missione" e che la storia ricorda come
le "Pasque Piemontesi". Pasque di sangue, si capisce. Cinquemila
valdesi massacrati in pochi giorni, con quella creatività nella crudeltà che
solo il fanatismo religioso riesce a ispirare. Bambini infilzati sulle baionette,
donne violentate e poi bruciate, vecchi gettati dai precipizi.
Ma prima di arrivare a quel sabato santo del 1655, bisogna capire cosa era
successo. I valdesi avevano commesso l'errore di fidarsi delle promesse del
duca. Nel 1561 Emanuele Filiberto aveva firmato un trattato che garantiva loro
una certa libertà di culto, limitata però alle valli più remote. Un ghetto
dorato, insomma, ma sempre un ghetto.
Per quasi un secolo questo equilibrio precario aveva retto. I valdesi
pagavano le tasse, fornivano soldati per l'esercito ducale, si comportavano da
sudditi fedeli. In cambio potevano pregare il loro Dio a modo loro, purché lo
facessero in sordina e senza dare fastidio ai vicini cattolici.
Ma nel 1655 le cose cambiarono. Il nuovo duca, Carlo Emanuele I, aveva
sposato Cristina di Francia, una cattolica fervente che vedeva nell'eresia
valdese un'offesa personale al Signore. E poi c'era la questione politica:
Luigi XIV stava unificando religiosamente la Francia, e i Savoia non volevano
essere da meno.
Il 25 gennaio 1655 fu pubblicato l'editto che imponeva ai valdesi di
convertirsi al cattolicesimo o di abbandonare le loro terre entro venti giorni.
Chi si fosse rifiutato sarebbe stato considerato ribelle e trattato di
conseguenza. Era una trappola perfetta: chi partiva perdeva tutto, chi restava
rischiava la vita.
I valdesi scelsero la resistenza. Si barricarono nei loro villaggi,
organizzarono una difesa disperata. Avevano poche armi, nessuna esperienza
militare, ma conoscevano ogni pietra, ogni sentiero, ogni nascondiglio delle
loro montagne.
La notizia fece scalpore in tutta Europa. Persino Cromwell, che di massacri
se ne intendeva, protestò ufficialmente. Milton scrisse un sonetto famoso:
"Avenge, O Lord, thy slaughtered saints". Vendica, o Signore, i tuoi
santi massacrati. Ma il Signore, evidentemente, aveva altro da fare.
Salgo verso Bobbio Pellice, dove il sentiero si fa più ripido e i castagni
lasciano il posto agli abeti. Qui la natura sembra voler cancellare le tracce
della barbarie umana, ma non ci riesce del tutto. Ogni tanto, su una roccia o
su un muro diroccato, spunta una targa, un nome, una data. Sono i segni di una
memoria ostinata, di una gente che non ha mai voluto dimenticare.
A Bobbio Pellice c'è una piccola chiesa, costruita nel XVII secolo sui
resti di quella distrutta durante le Pasque. Il pastore che me la fa visitare è
un uomo giovane, sui quarant'anni, con la barba curata e l'aria di chi ha
studiato teologia a Ginevra ma non ha mai dimenticato di essere figlio di
contadini. "Vede quella pietra lì?", mi dice indicando un masso
vicino all'altare. "Lì si rifugiò una famiglia intera durante i massacri.
Sette persone in uno spazio grande come un armadio. Ci stettero tre giorni,
finché non passò il pericolo".
Domando se è vero che resistettero. "Resistettero quanto
poterono", risponde. "Ma alla fine dovettero cedere. Cinquemila morti
sono tanti, per una popolazione di quindicimila anime. Praticamente un
genocidio, diremmo oggi. Solo che allora nessuno usava questa parola".
Il Glorioso Rimpatrio
Nel 1686 Luigi XIV, il Re Sole, revocò l'editto di Nantes e scatenò una
persecuzione generale contro tutti i protestanti francesi. I valdesi del
Piemonte, che erano sudditi dei Savoia ma parlavano francese e guardavano alla
Francia come alla loro patria spirituale, si trovarono nella posizione più
scomoda che si possa immaginare: eretici per i cattolici, stranieri per i
francesi.
Furono deportati in massa nelle carceri del Piemonte e in Svizzera. Molti
morirono di stenti, altri si convertirono per disperazione. Sembrava la fine di
una storia durata cinque secoli. Ma un gruppo di irriducibili, guidato da Henri
Arnaud, un pastore-soldato che sembrava uscito da un romanzo di Dumas,
organizzò quello che loro chiamano ancora oggi il "Glorioso Rimpatrio".
Arnaud non era un uomo qualunque. Nato nelle Valli Valdesi, educato a
Ginevra, aveva combattuto come ufficiale nell'esercito del duca d'Orange.
Sapeva maneggiare la spada quanto la Bibbia, parlava quattro lingue e aveva
quella caratteristica tipicamente valdese di non mollare mai, neanche quando la
situazione sembrava disperata.
Nell'agosto del 1689, partirono da Ginevra in trecento. Attraversarono la
Savoia combattendo contro i francesi, risalirono le Valli Valdesi battendosi
contro i sabaudi, riconquistarono palmo a palmo la loro terra. Quando
arrivarono a destinazione erano rimasti in novecento, perché lungo il cammino
si erano uniti a loro i valdesi che erano riusciti a fuggire dalle prigioni.
Fu un'impresa militare straordinaria, studiata ancora oggi nelle accademie
militari. Trecento uomini, per lo più ex contadini e artigiani, riuscirono a
battere eserciti regolari, a superare fortezze considerate inespugnabili, a
riconquistare un territorio che tutti davano per perduto. Come ci riuscirono?
Semplice: conoscevano ogni pietra, ogni sentiero, ogni grotta delle loro
montagne. E soprattutto, sapevano per cosa stavano combattendo.
Arrivo a Prali seguendo il percorso che fecero i "rimpatriati" di
Arnaud. La strada è quella di sempre, ma oggi è asfaltata e piena di curve
pericolose che fanno impazzire i camionisti. Allora era un sentiero di muli,
percorribile solo da chi era nato qui e sapeva dove mettere i piedi.
La fortezza della fede
Prali è l'ultimo paese prima del colle del Baracun, il valico che porta in
Francia. Qui l'aria è sottile e il silenzio così profondo che sembra di sentire
i passi dei fantasmi. Mi siedo su una panca davanti alla chiesa e cerco di
immaginare cosa doveva essere questo posto nel 1689, quando Arnaud e i suoi
compagni arrivarono dopo mesi di marce forzate e di combattimenti.
La chiesa è piccola, essenziale, senza decorazioni superflue. All'interno,
panche di legno consumate dalle ginocchia di generazioni di fedeli, un pulpito
semplice, una tavola di legno scuro che fa da altare. Niente crocifissi, niente
statue, niente ori. Solo la Bibbia aperta e un crocifisso semplice, senza la
figura del Cristo. "Dio si adora in spirito e verità", dice il
pastore che mi accompagna. "Non ha bisogno di fronzoli".
È un valdese della quinta generazione, mi racconta. I suoi antenati erano
qui quando arrivò Arnaud, erano qui durante le Pasque Piemontesi, erano qui
quando i primi missionari portarono il Vangelo di Valdo. "Noi siamo i
guardiani della memoria", dice. "Non per nostalgia, ma per responsabilità.
Chi dimentica la propria storia è condannato a ripeterla".
Mi mostra il registro dei morti della parrocchia. Pagine e pagine di nomi,
date, cause di morte. "Morto per la fede", "ucciso dai
soldati", "bruciato come eretico". Una litania di martirio che
va avanti per secoli. "Vede", dice, "noi non siamo stati eroi.
Siamo stati semplicemente testardi. Troppo testardi per arrenderci, troppo
testardi per dimenticare".
Fuori, il vento suona tra gli abeti come un organo gigantesco. È il vento
che ha accompagnato i valdesi per otto secoli, che ha portato via le loro
preghiere e i loro lamenti, che ha coperto i loro passi quando fuggivano dai
persecutori. Un vento che sa di libertà e di solitudine, di grandezza e di
dolore.
Mi incammino verso il colle del Baracun, dove c'è un monumento ai caduti
del Glorioso Rimpatrio. Non è un monumento retorico, non celebra la gloria
delle armi o l'eroismo dei comandanti. È una pietra semplice, con incisi i nomi
di chi non è tornato. Trecento partiti, novecento arrivati, ma molti altri
morti lungo la strada. Il conto finale è sempre in perdita, quando si tratta di
libertà.
La lezione dei vinti
Torno verso valle mentre il sole tramonta dietro le cime del Monviso. La
luce radente fa brillare le foglie degli aceri come monete d'oro sparse per
terra. È l'ora in cui le montagne diventano magiche, l'ora in cui anche il più
scettico dei giornalisti si lascia prendere dalla poesia del paesaggio.
Ma mentre guido lungo la strada che serpeggia tra i castagni, non riesco a
togliermi dalla mente l'immagine di quelle pagine di nomi, di quelle date, di
quelle cause di morte. "Morto per la fede". Una frase che oggi suona
ridicola, anacronistica. Chi muore più per la fede, nell'epoca di internet e
dei viaggi low cost?
Mi fermo a Luserna San Giovanni, dove tutto è cominciato stamattina. Il
paese è immerso in quella quiete provinciale che sa di domenica anche se è
sabato. Davanti alla chiesa cattolica - perché qui, naturalmente, ci sono due
chiese, una cattolica e una valdese, che si guardano con la discrezione di due
ex fidanzati che si sono lasciati male - c'è una piccola folla di pensionati
che discute animatamente.
Mi avvicino e sento che parlano di calcio, di politica, di pensioni. Le
solite cose di cui parla la gente normale quando non deve preoccuparsi di
essere bruciata viva per le proprie idee. È una conquista, questa normalità.
Una conquista pagata con il sangue di generazioni di uomini e donne che non
avevano altra colpa che quella di voler pregare il loro Dio a modo loro.
Entro nel bar del paese e ordino un caffè. Il barista, un giovane sui
trent'anni con i capelli tinti di biondo e un tatuaggio sul braccio, mi
riconosce. "Lei è quello del giornale", dice. "Cosa scrive delle
nostre valli?". "Che sono piene di fantasmi", rispondo.
"Fantasmi di gente che non si è mai arresa".
Lui sorride. "Mio nonno era valdese", dice. "Diceva sempre
che noi siamo come i castagni: più ci potano, più ricresciamo. Sembra retorica,
ma è vero. Guardate quante ne abbiamo passate e siamo ancora qui".
È vero. Sono ancora qui. Non sono più i valdesi di una volta, naturalmente.
Non parlano più il provenzale, non sanno più a memoria i versetti della Bibbia,
non si nascondono più nelle grotte per celebrare i matrimoni. Sono diventati
cittadini italiani come tutti gli altri, con gli stessi problemi, le stesse
ansie, le stesse piccole gioie di tutti gli altri.
Ma qualcosa è rimasto. Non so cosa, esattamente. Forse è una certa rigidità
morale, un certo rifiuto del compromesso, una certa diffidenza verso i potenti.
O forse è semplicemente la consapevolezza di essere i discendenti di gente che
ha preferito morire piuttosto che mentire a se stessa.
Forse è proprio questo che mi affascina: la loro testardaggine. La loro
capacità di resistere per secoli a un potere che disponeva di tutti i mezzi per
annientarli. Non erano eroi, erano contadini, pastori, artigiani. Gente normale
che aveva avuto la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata della Storia.
E allora mi viene in mente una cosa che mi disse una volta un vecchio
valdese a Torre Pellice: "Noi non abbiamo mai vinto una guerra, ma non
abbiamo mai perso una pace". Frase che all'inizio mi era sembrata
retorica, ma che ora, qui, in questo silenzio di provincia, acquista un senso
diverso.
Il prezzo della libertà
Riprendo la strada per Torino mentre la sera scende sulle montagne. Tra
un'ora sarò sull'autostrada, tra due ore sarò a casa, davanti al mio computer,
a scrivere questo pezzo. Tornerò alla mia vita di borghese metropolitano, alle
mie nevrosi quotidiane, ai miei compromessi di giornalista che deve vendere
copie e non scontentare nessuno.
Ma mentre guido, penso a una cosa che mi ha colpito durante questa
giornata: la sproporzione tra la causa e l'effetto. I valdesi non hanno mai
rappresentato una minaccia reale per nessuno. Erano quattro gatti, persi in
mezzo alle montagne, che volevano solo pregare in pace. Eppure per secoli hanno
scatenato passioni terribili, hanno mobilitato eserciti, hanno fatto scrivere
trattati e concordati.
Perché? Cosa c'era di così pericoloso in questi contadini che leggevano la
Bibbia in provenzale e non riconoscevano l'autorità del Papa? Forse proprio
questo: l'idea che ognuno possa avere un rapporto diretto con Dio, senza
intermediari, senza gerarchie, senza compromessi. Un'idea sovversiva, se ci si
pensa. Un'idea che mette in discussione tutti i poteri costituiti.
È per questo che i valdesi sono stati perseguitati per otto secoli. Non
perché fossero eretici, ma perché erano liberi. O almeno, volevano esserlo. E
la libertà, quella vera, fa sempre paura a chi comanda.
Oggi le Valli Valdesi sono un posto per turisti colti, per weekend
alternativi, per chi cerca il pittoresco a portata di autostrada. I giovani se
ne vanno, le case tradizionali diventano seconde case per i milanesi in fuga
dallo smog, la lingua provenzale si parla solo nelle riunioni del circolo
culturale.
È il destino di tutti i luoghi dove la Storia ha lasciato il segno più
profondo: diventare musei di se stessi. E forse è giusto così. Forse è meglio
che queste valli siano invase dai camper dei pensionati tedeschi piuttosto che
dai soldati di qualche nuovo fanatico.
Ma camminando per questi sentieri, respirando quest'aria che sa di resina e
di memoria, mi viene da pensare che forse, in fondo, i valdesi hanno vinto
davvero la loro guerra. Non l'hanno vinta con le armi, ma con la pazienza. Non
l'hanno vinta contro i loro persecutori, ma contro l'oblio.
L'eredità degli eretici
Scendo verso valle mentre il sole tramonta dietro le cime del Monviso.
Domani tornerò a Milano, alle mie nevrosi metropolitane, ai miei dubbi di
borghese benestante. Ma qualcosa di questo viaggio me lo porterò dietro.
Forse è la lezione più importante che si può imparare da questi luoghi: che
la libertà di coscienza non è un diritto naturale, come ci hanno insegnato a
scuola, ma una conquista faticosa, pagata con il sangue e con le lacrime di
generazioni di uomini e donne che hanno preferito morire piuttosto che mentire
a se stessi.
I valdesi non erano santi. Erano semplicemente persone che avevano deciso
di non delegare ad altri il rapporto con il proprio Dio. E per questo hanno
pagato un prezzo altissimo. Forse troppo alto per le nostre sensibilità
moderne, abituate a compromettersi con tutto e con tutti.
Ma in un'epoca come la nostra, dove la verità è diventata una questione di
maggioranza e la coscienza individuale un lusso che non tutti possono
permettersi, forse vale la pena di ricordare che esistono ancora luoghi dove la
dignità umana ha resistito a tutto. Anche al tempo.
Le valli valdesi sono uno di questi luoghi. Non ci si va per trovare Dio –
quello lo si può trovare anche in metropolitana. Ci si va per ricordare che
cosa significa essere uomini quando essere uomini costa caro.
Ed è già molto.
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