“La figura dello stupido nella Bibbia. Spunti per una lettura teologica e patristica” di Davide Romano
La figura dello stupido occupa un posto peculiare e significativo nell'economia della rivelazione biblica. Lungi dall'essere un mero oggetto di scherno o di condanna superficiale, lo stupido rappresenta nella Scrittura una categoria antropologica e teologica di fondamentale importanza per comprendere la condizione umana davanti a Dio. La tradizione esegetica, dai Padri della Chiesa fino ai grandi teologi medievali e moderni, ha riconosciuto in questa figura non solo un paradigma morale, ma un vero e proprio archetipo esistenziale che illumina le dinamiche profonde del rapporto tra sapienza divina e stoltezza umana.
Sant'Agostino, nelle sue Confessioni,
riflettendo sulla propria esperienza di conversione, scrive: "Tarde te
amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, tarde te amavi!" (Troppo tardi
ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova!). Questa tardività
nell'amore per la verità divina è precisamente ciò che caratterizza lo stupido
biblico: non tanto l'incapacità intellettuale, quanto piuttosto l'ottusità
spirituale che impedisce di riconoscere e accogliere la sapienza di Dio.
San Tommaso d'Aquino, nella Summa
Theologica, distingue tra diverse forme di ignoranza, specificando che
"ignorantia quae est peccatum, est eius quod quis scire tenetur"
(l'ignoranza che è peccato riguarda ciò che uno è tenuto a sapere). Questa
distinzione tommasiana risulta cruciale per comprendere come la tradizione
cristiana abbia interpretato la stoltezza biblica non come un difetto naturale,
ma come una scelta esistenziale che coinvolge la volontà e la responsabilità
morale dell'uomo.
La terminologia
biblica della stoltezza
L'Antico
Testamento: kesil, naval e ivvelet
L'Antico Testamento ebraico utilizza
diversi termini per designare lo stupido, ciascuno con sfumature semantiche
specifiche che rivelano la ricchezza e la complessità di questa figura. Il
termine più frequente è kesil (כסיל), che ricorre oltre settanta volte
nelle Scritture, principalmente nei libri sapienziali. Questo vocabolo,
etimologicamente legato alla radice ksl che indica pesantezza e
ottusità, designa colui che è spiritualmente ottuso, incapace di discernere la
volontà divina.
Il Salmo 49,11 dichiara: "Perché
si vede che i sapienti muoiono, così periscono lo stolto (kesil) e
l'insensato (ba'ar), e lasciano ad altri le loro ricchezze". Qui la
stoltezza viene presentata come una condizione che accomuna l'uomo nella sua
finitudine, ma che assume connotazioni particolarmente gravi quando si traduce
in presunzione e autosufficienza.
Un secondo termine fondamentale è naval
(נבל), che indica non solo la stupidità, ma anche l'empietà e la corruzione
morale. Il naval è colui che nega praticamente l'esistenza di Dio, come
si legge nel Salmo 14,1: "Lo stolto (naval) ha detto in cuor suo:
'Non c'è Dio'. Sono corrotti, fanno cose abominevoli; non c'è nessuno che
faccia il bene".
San Giovanni Crisostomo, commentando
questo versetto, osserva: "Non dice che lo stolto ha pensato, ma che ha
detto nel suo cuore. Infatti, nessuno può convincersi completamente che Dio non
esiste, ma alcuni si sforzano di persuadersene per vivere senza freni". Il
Crisostomo coglie qui un aspetto essenziale della stoltezza biblica: essa non è
primariamente un errore intellettuale, ma una scelta esistenziale che nasce dal
desiderio di sottrarsi al giudizio divino.
Il terzo termine significativo è ivvelet
(אולת), che designa una stoltezza più legata all'immaturità e alla mancanza di
esperienza. Proverbi 22,15 afferma: "La stoltezza (ivvelet) è
legata al cuore del fanciullo, ma la verga della correzione l'allontanerà da
lui". Qui emerge la dimensione pedagogica della stoltezza, che può essere
corretta attraverso l'educazione e la disciplina.
Il Nuovo
Testamento: moros, aphron e anoetos
Il Nuovo Testamento greco riprende e
approfondisce questa ricca terminologia ebraica utilizzando principalmente tre
termini: moros (μωρός), aphron (ἄφρων) e anoetos
(ἀνόητος). Il termine moros, da cui deriva il nostro "morto"
spirituale, designa colui che è privo di intelligenza spirituale. San Paolo
utilizza frequentemente questo termine, specialmente nella Prima Lettera ai
Corinzi, dove sviluppa la sua teologia della sapienza e della stoltezza.
In 1 Corinzi 1,25, l'Apostolo scrive:
"Perché la stoltezza (moria) di Dio è più sapiente della sapienza
degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini".
Qui Paolo opera un paradosso teologico fondamentale: ciò che appare stoltezza
agli occhi umani - la croce di Cristo - rivela in realtà la suprema sapienza
divina.
Origene, nel suo Commento al
Vangelo di Giovanni, spiega questo paradosso paolino: "Dio ha scelto
le cose stolte del mondo per confondere i sapienti, non perché siano veramente
stolte, ma perché appaiono tali a coloro che non possono comprendere l'altezza
della sapienza divina". L'Alessandrino coglie qui la dimensione kenotica
della rivelazione cristiana, dove l'abbassamento divino diventa criterio di
discernimento tra vera e falsa sapienza.
La stoltezza nei
libri sapienziali
I Proverbi: la
scuola della sapienza
Il libro dei Proverbi rappresenta il
testo biblico che più sistematicamente affronta il tema della stoltezza,
presentandola come l'antitesi della sapienza divina. Fin dal primo capitolo, il
testo stabilisce una chiara contrapposizione: "Il timore del Signore è
principio della scienza; gli stolti (evilim) disprezzano la sapienza e
l'istruzione" (Pr 1,7).
Questa dichiarazione programmatica
rivela che la stoltezza non è semplicemente ignoranza, ma rifiuto attivo della
sapienza divina. San Gregorio Magno, nei suoi Moralia in Job, commenta:
"Stultus est qui Deum non timet" (Stolto è colui che non teme Dio).
Il timore di Dio, inteso come riverenza e riconoscimento della sovranità divina,
diventa così il criterio discriminante tra sapienza e stoltezza.
Proverbi 12,15 afferma: "La via
dello stolto (evil) è diritta ai suoi occhi, ma chi ascolta i consigli è
saggio". Qui emerge un aspetto psicologico fondamentale della stoltezza:
l'autocompiacimento e l'incapacità di accettare la correzione. Lo stolto è
caratterizzato da una forma di cecità spirituale che gli impedisce di
riconoscere i propri errori.
San Girolamo, nella sua Lettera a
Eustochio, osserva: "Proprium stulti est sua laudare et aliorum
vituperare" (È proprio dello stolto lodare le proprie cose e biasimare
quelle altrui). Questa osservazione geronimiana coglie un aspetto centrale
della psicologia dello stolto biblico: la tendenza all'autoglorificazione che
nasce dall'incapacità di vedere se stesso nella verità.
Particolarmente significativo è
Proverbi 26,4-5, che presenta un apparente paradosso: "Non rispondere allo
stolto secondo la sua stoltezza, perché tu non gli assomigli. Rispondi allo
stolto secondo la sua stoltezza, perché egli non si creda saggio". Questo
doppio comando ha suscitato l'interesse degli esegeti di ogni epoca.
Sant'Agostino, nel De Doctrina
Christiana, risolve questa apparente contraddizione spiegando che
"aliquando tacendum est stulto, aliquando respondendum" (talvolta
bisogna tacere con lo stolto, talvolta rispondere). La sapienza pastorale
consiste nel discernere quando la correzione può essere fruttuosa e quando
invece rischia di alimentare la presunzione dello stolto.
Qoelet: la vanità
della sapienza umana
Il libro di Qoelet (Ecclesiaste)
presenta una riflessione più complessa e sfumata sulla stoltezza, inserendola
nel quadro più ampio della vanità (hevel) dell'esistenza umana. In
Qoelet 2,14-16, l'autore scrive: "Il saggio ha gli occhi in testa, mentre
lo stolto cammina nelle tenebre. Ma mi sono anche accorto che tutti e due hanno
la stessa sorte. Allora ho pensato: 'Anche a me toccherà la sorte dello stolto!
Allora perché essere saggio?'"
Questa riflessione introduce una
dimensione tragica nella considerazione della stoltezza. Se da un lato Qoelet
riconosce la superiorità della sapienza sulla stoltezza ("Meglio un
ragazzo povero ma saggio che un re vecchio e stolto" - Qo 4,13),
dall'altro constata l'universalità della morte che relativizza ogni differenza.
San Gregorio di Nissa, nell'Omelia
sull'Ecclesiaste, interpreta questa apparente disperazione qoeletiana come
un invito alla vera sapienza: "Quando l'uomo comprende la vanità delle
cose terrene, allora inizia a cercare quelle eterne". La stoltezza, in questa
prospettiva, diventa un momento dialettico necessario nel cammino verso la vera
sapienza.
Siracide: la
pedagogia della correzione
Il Siracide (Ecclesiastico) sviluppa
ulteriormente la riflessione sapienziale sulla stoltezza, con particolare
attenzione alla dimensione pedagogica. Sir 22,9-10 dichiara: "Chi
istruisce uno stolto incolla un coccio. Chi parla con chi dorme sveglia dal
sonno. Parla con lo stolto chi racconta a uno che sonnecchia; alla fine quello
dirà: 'Che c'è?'"
Questa immagine vivace illustra la
difficoltà dell'opera educativa nei confronti dello stolto. Tuttavia, il
Siracide non cade nel pessimismo, ma propone strategie concrete per la
correzione. Sir 22,6 afferma: "Musica in un lutto è un discorso
intempestivo, ma botte e correzione sono sempre sapienza".
San Giovanni Damasceno, nella sua Esposizione
della Fede Ortodossa, commenta: "La correzione del stolto richiede
fermezza e perseveranza, perché la sua mente è come terra indurita che deve
essere arata più volte prima di accogliere il seme della sapienza".
Gli stolti nei
Vangeli
Le parabole di Gesù
Nei Vangeli, Gesù presenta diversi
tipi di stolti attraverso le sue parabole, utilizzando questa figura per
illustrare atteggiamenti spirituali fondamentali. La parabola del ricco stolto
(Lc 12,16-21) è particolarmente significativa. Il protagonista, dopo un
raccolto abbondante, decide di costruire granai più grandi e si dice:
"Anima mia, hai molti beni ammassati per molti anni; riposati, mangia,
bevi e datti alla gioia".
La risposta divina è immediata e
terribile: "Stolto (aphron)! Questa notte stessa ti sarà richiesta
la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?" (Lc 12,20). Qui la
stoltezza consiste nell'illusione di poter controllare il futuro e
nell'identificazione della propria esistenza con i beni materiali.
Sant'Ambrogio, nel suo Commento al
Vangelo di Luca, osserva: "Stultus est qui temporalia pro aeternis
elegit" (Stolto è colui che sceglie le cose temporali al posto di quelle
eterne). Il vescovo milanese coglie l'essenza della stoltezza evangelica: essa
consiste in una falsa scala di valori che privilegia l'effimero sull'eterno.
La parabola delle vergini stolte (Mt
25,1-13) presenta un altro aspetto della stoltezza spirituale: l'imprevidenza.
Le cinque vergini stolte (morai) non portano olio di riserva e, quando
arriva lo sposo, si trovano impreparate. La loro esclusione dal banchetto
nuziale non è dovuta a malvagità, ma a negligenza spirituale.
San Giovanni Crisostomo, nelle sue Omelie
su Matteo, commenta: "La stoltezza di queste vergini non consisteva
nell'ignoranza, ma nella negligenza. Esse sapevano che lo sposo doveva venire,
ma non si sono preparate adeguatamente". Il Crisostomo evidenzia così un
aspetto cruciale della stoltezza neotestamentaria: essa spesso non nasce dall'ignoranza,
ma dalla mancanza di vigilanza spirituale.
L'insegnamento
Paolino
San Paolo sviluppa una teologia
articolata della stoltezza, specialmente nella Prima Lettera ai Corinzi. In 1
Cor 3,18-19, l'Apostolo scrive: "Nessuno s'inganni. Se qualcuno tra voi si
crede sapiente in questo mondo, diventi stolto (moros) per diventare
sapiente. Perché la sapienza di questo mondo è stoltezza (moria) davanti
a Dio".
Questo paradosso paolino rovescia
completamente i criteri umani di valutazione. La vera sapienza richiede un atto
di spoliazione intellettuale che San Paolo chiama "diventare stolto".
Origene, nel suo Commento alla Prima Lettera ai Corinzi, spiega:
"Paolo non invita all'ignoranza, ma all'umiltà intellettuale che riconosce
i propri limiti davanti al mistero divino".
In Romani 1,21-22, Paolo descrive il
processo di degradazione spirituale dell'umanità: "Pur conoscendo Dio, non
lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani
ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano
sapienti, sono diventati stolti (emóranan)".
Qui emerge chiaramente la dimensione
morale della stoltezza paolina. Essa non è conseguenza dell'ignoranza, ma del
rifiuto volontario di riconoscere Dio. Sant'Agostino, nel Commento alla
Lettera ai Romani, osserva: "Non est ignorantia quae excusat, sed
malitia quae accusat" (Non è ignoranza che scusa, ma malizia che accusa).
La tradizione
patristica
I Padri apostolici
I Padri Apostolici riprendono e
sviluppano il tema biblico della stoltezza, adattandolo alle sfide pastorali
delle prime comunità cristiane. La Didaché, nel capitolo dedicato alla
"via della morte", elenca tra i vizi principali "l'essere stolti
(móroi) e superbi". Qui la stoltezza viene associata alla superbia,
rivelando la sua dimensione spirituale profonda.
San Clemente Romano, nella sua Prima
Lettera ai Corinzi, scrive: "Stolti sono coloro che dubitano e esitano
nel loro cuore, dicendo: 'Queste cose le abbiamo già sentite anche ai tempi dei
nostri padri, ed ecco, siamo invecchiati e nessuna di esse ci è
accaduta'". Il Papa identifica la stoltezza con lo scetticismo
escatologico che nasceva nella Chiesa primitiva di fronte al ritardo della
Parusia.
I Padri apologisti
Gli Apologisti del II secolo
utilizzano il tema della stoltezza nella loro polemica contro la filosofia
pagana. San Giustino, nel suo Dialogo con Trifone, afferma: "I
filosofi pagani, credendosi sapienti, sono diventati stolti, perché hanno adorato
la creatura invece del Creatore". Qui la stoltezza viene identificata con
l'idolatria intellettuale.
Taziano il Siro, nel suo Discorso
ai Greci, è ancora più radicale: "La vostra filosofia è stoltezza
davanti a Dio, perché cerca la sapienza dove non può essere trovata".
Questa posizione, che sarà poi moderata dai Padri successivi, rivela comunque
la coscienza cristiana primitiva della radicale alterità della sapienza divina
rispetto a quella umana.
I Padri del deserto
I Padri del Deserto sviluppano una
spiritualità della "santa stoltezza" che avrà profonda influenza
sulla tradizione monastica. Abba Antonio, secondo la Vita di
Sant'Atanasio, affermava: "Chi conserva la purità della mente non ha
bisogno della sapienza dei libri". Questa affermazione non va intesa come
disprezzo per la cultura, ma come rivendicazione della superiorità
dell'esperienza spirituale sulla speculazione teorica.
L'istituzione dei "folli per
Cristo" (saloi) nasce proprio in questo contesto. Sant'Andrea
Salos, San Simeone Salos e altri santi "folli" incarnano una forma
paradossale di sapienza che si manifesta attraverso l'apparente stoltezza. Come
scrive Evagrio Pontico: "Beato chi è divenuto stolto per amore di Dio,
perché la sua stoltezza è più sapiente della sapienza degli uomini".
I Padri della
Chiesa del IV e V Secolo
Sant'Agostino: la
stoltezza come peccato dell'intelligenza
Sant'Agostino offre l'analisi più
approfondita e sistematica della stoltezza nella letteratura patristica. Nelle Confessioni,
egli distingue tra diverse forme di ignoranza e stoltezza: "Aliud est
nescire, aliud nolle scire, aliud impedire ne sciatur" (Una cosa è non
sapere, un'altra è non voler sapere, un'altra ancora è impedire che si sappia).
Nel De Libero Arbitrio,
Agostino sviluppa una vera e propria fenomenologia della stoltezza:
"Stultitia est aversio mentis a Deo" (La stoltezza è l'avversione
della mente da Dio). Per il vescovo di Ippona, la stoltezza non è primariamente
un deficit cognitivo, ma una scelta esistenziale che orienta male la volontà.
Particolarmente significativa è la
sua interpretazione del "stolto" del Salmo 14. Nel Commento ai
Salmi, Agostino scrive: "Dixit insipiens: stultus dixit, non
cogitavit. Inter dicere et cogitare hoc interest, quod cogitare est apud se
loqui, dicere vero est cogitationes suas aliis aperire" (Ha detto
l'insipiente: lo stolto ha detto, non ha pensato. Tra dire e pensare c'è questa
differenza: pensare è parlare a se stesso, dire invece è aprire i propri
pensieri agli altri).
Questa distinzione agostiniana rivela
la dimensione sociale della stoltezza: lo stolto non solo si inganna, ma
diffonde il suo inganno, diventando strumento di corruzione per gli altri.
San Giovanni
Crisostomo: la stoltezza come malattia dell'anima
San Giovanni Crisostomo, nelle sue Omelie
sui Salmi, sviluppa l'immagine della stoltezza come malattia spirituale:
"Sicut corpus aegrotum medico indiget, ita anima stulta sapiente
doctore" (Come il corpo malato ha bisogno del medico, così l'anima stolta
ha bisogno di un dottore sapiente).
Il Crisostomo è particolarmente
attento alla dimensione pastorale della correzione dello stolto. Nelle Omelie
su Matteo, scrive: "Non debemus stultos contemnere, sed misereri et
sanare" (Non dobbiamo disprezzare gli stolti, ma compatirli e curarli).
Questa prospettiva terapeutica avrà grande influenza sulla tradizione
successiva.
San Girolamo: la
stoltezza come ignoranza volontaria
San Girolamo, nelle sue Lettere,
presenta una visione più severa della stoltezza, identificandola spesso con
l'ignoranza volontaria: "Stultus est qui discere recusat" (Stolto è
colui che rifiuta di imparare). Per il dottore stridonense, la stoltezza è
sempre colpevole perché nasce dal rifiuto della verità disponibile.
Nel Commento a Geremia,
Girolamo osserva: "Multi stulti fiunt non natura, sed voluntate"
(Molti diventano stolti non per natura, ma per volontà). Questa affermazione
sottolinea la responsabilità morale nella stoltezza, tema che sarà ripreso e
sviluppato dalla Scolastica.
La teologia
medievale
Sant'Anselmo
d'Aosta: la stoltezza come contraddizione logica
Sant'Anselmo, nel Proslogion,
affronta il tema dello stolto in relazione alla dimostrazione dell'esistenza di
Dio. Il famoso "stolto" che "ha detto in cuor suo: Dio non
esiste" diventa il paradigma della contraddizione logica. Anselmo
argomenta che negare l'esistenza di Dio è logicamente impossibile per chi
comprende veramente il concetto di Dio.
"Certe et insipiens, cum audit
hoc ipsum quod dico: aliquid quo nihil maius cogitari potest, intelligit quod
audit" (Certamente anche l'insipiente, quando sente questo stesso che io
dico: qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore, comprende quello
che sente). Per Anselmo, lo stolto che nega Dio si contraddice logicamente,
perché deve prima comprendere il concetto di Dio per poterlo negare.
San Tommaso
d'Aquino: la stoltezza nella classificazione dei vizi
San Tommaso offre l'analisi più
sistematica della stoltezza nella Summa Theologica. Nella IIa-IIae, q.
46, egli tratta specificamente della stoltezza (stultitia) come vizio
opposto alla sapienza.
"Stultitia importat hebetudinem
circa res divinas" (La stoltezza implica ottusità riguardo alle cose
divine). Tommaso distingue la stoltezza naturale, dovuta a difetti delle
facoltà cognitive, dalla stoltezza morale, che nasce dal peccato:
"Stultitia quandoque causatur ex peccato, quando scilicet homo per
immersionem in carnalibus hebetatur ad intelligenda spiritualia".
Particolarmente importante è la sua
distinzione tra stoltezza (stultitia) e ignoranza (ignorantia):
"Ignorantia respicit defectum cognitionis; stultitia autem respicit
defectum iudicii" (L'ignoranza riguarda il difetto della conoscenza, la
stoltezza invece riguarda il difetto del giudizio).
San Bonaventura: la
stoltezza come cecità spirituale
San Bonaventura, nell'Itinerarium
Mentis in Deum, presenta la stoltezza come una forma di cecità spirituale
che impedisce l'ascesa dell'anima verso Dio: "Stultus est qui non videt
vestigia Dei in creaturis" (Stolto è colui che non vede le tracce di Dio
nelle creature).
Per il Dottore Serafico, la stoltezza
nasce dall'incapacità di leggere il "libro della natura" e il
"libro della Scrittura": "Duplex est liber, unus scilicet
scriptus intrinsecus, qui est aeterna Dei ars et sapientia, et alius scriptus
extrinsecus, mundus scilicet sensibilis" (Duplice è il libro: uno scritto
internamente, che è l'eterna arte e sapienza di Dio, e l'altro scritto
esternamente, cioè il mondo sensibile).
I Mistici Medievali
Maestro Eckhart: la
"stoltezza sapiente"
Maestro Eckhart sviluppa il paradosso
paolino della "santa stoltezza" in direzione mistica. Nei suoi Sermoni
tedeschi, egli parla di una "stoltezza sapiente" (wise
Narrheit) che consiste nell'abbandono di ogni sapienza umana per accogliere
la sapienza divina.
"L'uomo deve diventare stolto se
vuole raggiungere la sapienza di Dio. Tutta la sapienza di questo mondo è
stoltezza davanti a Dio, e tutta la sapienza di Dio è stoltezza davanti a
questo mondo". Questa formulazione eckhartiana influenzerà profondamente
la mistica renana e fiamminga.
San Bernardino da
Siena: la stoltezza del mondo
San Bernardino da Siena, nelle sue Prediche
volgari, presenta una vivace fenomenologia della stoltezza umana, con
particolare attenzione agli aspetti sociali ed economici. "La maggior
stoltezza del mondo è amare le ricchezze più di Dio", afferma il santo
senese, anticipando temi che saranno sviluppati dalla teologia sociale moderna.
La Riforma e la
Controriforma
Martin Lutero: la
stoltezza della ragione
Lutero riprende con forza il tema
paolino della stoltezza della sapienza umana. Nel De Servo Arbitrio,
egli afferma: "Ratio est meretrix diaboli" (La ragione è la
prostituta del diavolo). Questa formulazione estrema nasce dalla convinzione
luterana che la ragione umana, corrotta dal peccato originale, sia incapace di
conoscere Dio.
"Opportet rationem occidi et
fidem nasci" (Bisogna che la ragione sia uccisa e nasca la fede). Per
Lutero, la vera sapienza cristiana richiede la morte della ragione naturale e
la nascita della fede soprannaturale.
Sant'Ignazio di
Loyola: il discernimento degli spiriti
Sant'Ignazio, negli Esercizi
Spirituali, presenta una sofisticata dottrina del discernimento che
permette di distinguere tra vera e falsa sapienza. "Il nemico si comporta
come un falso innamorato... vuole rimanere segreto e non essere scoperto",
scrive nelle Regole per il discernimento degli spiriti.
La stoltezza, in prospettiva
ignaziana, consiste nell'incapacità di discernere i movimenti interiori e nel
lasciarsi ingannare dalle false consolazioni. "È proprio del cattivo
spirito mordere, rattristare e porre impedimenti, inquietando con false ragioni
per impedire di andare avanti".
La teologia moderna
e contemporanea
Søren Kierkegaard:
la stoltezza dell'esistenza estetica
Kierkegaard, in Aut-Aut,
presenta una fenomenologia della stoltezza attraverso la figura dell'esteta.
"L'esteta vive nell'immediatezza e per l'immediatezza, la sua vita è priva
di continuità, e quando questa manca, la vita si dissolve". L'esistenza
estetica rappresenta una forma raffinata di stoltezza che consiste
nell'incapacità di assumere una prospettiva etica ed esistenziale seria.
"Il più terribile di tutti i
sentimenti è quello di aver sprecato la propria vita", scrive il filosofo
danese. Questa forma di stoltezza esistenziale sarà ripresa e sviluppata
dall'esistenzialismo cristiano del XX secolo.
Karl Barth: la
stoltezza della teologia naturale
Karl Barth, nel Commento alla
Lettera ai Romani, riprende con forza il tema paolino della stoltezza della
sapienza umana applicandolo alla critica della teologia naturale. "Dio è
il totalmente Altro, e ogni tentativo di raggiungerlo con la ragione umana è
destinato al fallimento".
"La rivelazione di Dio è sempre
scandalo per la ragione naturale, che cerca di ridurre il mistero divino alle
sue categorie limitate". Barth vede nella teologia naturale una forma
sottile di stoltezza che pretende di catturare Dio nelle reti della logica
umana.
Hans Urs von
Balthasar: la stoltezza dell'amore
Von Balthasar, nella sua Teodrammatica,
presenta una teologia della "stoltezza dell'amore" che riprende e
sviluppa il tema della santa stoltezza patristica. "L'amore vero è sempre
un po' folle agli occhi del mondo, perché trascende ogni calcolo e ogni misura
umana".
"La croce di Cristo è la suprema
stoltezza dell'amore divino, che si dona completamente senza cercare
contropartite". Questa "stoltezza dell'amore" diventa per
Balthasar il criterio ermeneutico fondamentale per comprendere tutta la
rivelazione cristiana.
La dimensione
spirituale della stoltezza
La stoltezza come
peccato capitale
La tradizione spirituale cristiana ha
sempre riconosciuto nella stoltezza una delle radici principali del peccato.
San Gregorio Magno, nei Moralia in Job, elenca la stoltezza tra i vizi
capitali: "Ex stultitia oriuntur multi alii vitii" (Dalla stoltezza
nascono molti altri vizi).
Questa intuizione gregoriana sarà
sviluppata dalla tradizione successiva, che vedrà nella stoltezza la matrice di
peccati come la superbia, l'invidia e l'ira. La stoltezza spirituale consiste
infatti nell'incapacità di vedere la realtà secondo la prospettiva di Dio, il
che porta inevitabilmente a false valutazioni e a scelte sbagliate.
La correzione
fraterna dello stolto
La tradizione cristiana ha sempre
riconosciuto il dovere della correzione fraterna, anche e soprattutto nei
confronti dello stolto. San Tommaso, nella Summa, afferma:
"Correctio fraterna est actus caritatis" (La correzione fraterna è un
atto di carità).
Tuttavia, la correzione dello stolto
presenta particolari difficoltà, come già evidenziato dai Proverbi. San
Giovanni Crisostomo, nelle Omelie sui Proverbi, osserva: "Stultum
corrigere est sicut contra ventum seminare" (Correggere lo stolto è come
seminare contro vento).
Ciononostante, la tradizione
cristiana non ha mai rinunciato a questo compito, sviluppando strategie
pastorali specifiche. Sant'Alfonso Maria de' Liguori, nella Teologia Morale,
distingue tra diverse modalità di correzione: "Aliquando mansuete,
aliquando aspere, aliquando occulte, aliquando publice" (Talvolta
dolcemente, talvolta duramente, talvolta in segreto, talvolta pubblicamente).
La stoltezza come
tentazione del sapiente
Un aspetto spesso trascurato nella
riflessione teologica è la tentazione della stoltezza che può colpire proprio
coloro che si credono sapienti. San Paolo avverte: "Chi crede di stare in
piedi, guardi di non cadere" (1 Cor 10,12). La stoltezza del sapiente è
particolarmente pericolosa perché si maschera sotto l'apparenza della saggezza.
San Bernardo di Chiaravalle, nel De
Consideratione, scrive: "Nulla stultitia maior quam putare se
sapientem" (Non c'è stoltezza maggiore che credersi sapiente). Questa
forma di stoltezza "colta" rappresenta una delle tentazioni più
sottili della vita spirituale.
La stoltezza
nell'escatologia cristiana
Il giudizio finale
e la rivelazione della vera sapienza
L'escatologia cristiana presenta la
stoltezza in una prospettiva definitiva: nel giudizio finale si rivelerà
pienamente chi era veramente sapiente e chi stolto. Gesù, nel discorso
escatologico di Matteo 25, presenta diversi esempi di questa rivelazione
finale: le vergini stolte e sagge, i talenti, il giudizio universale.
Sant'Agostino, nel De Civitate Dei,
commenta: "In die iudicii apparebit quis vere sapiens, quis vere stultus
fuerit" (Nel giorno del giudizio apparirà chi era veramente sapiente e chi
veramente stolto). Questa prospettiva escatologica relativizza tutti i giudizi
umani sulla sapienza e sulla stoltezza.
La trasformazione
finale dello stolto
La tradizione cristiana ha sempre
mantenuto una speranza di redenzione anche per lo stolto. San Paolo, nella
Prima Lettera ai Corinzi, parla di una trasformazione escatologica universale:
"Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo
trasformati" (1 Cor 15,51).
Origene, nel De Principiis,
sviluppa una teologia della apocatastasi che include anche la possibile
redenzione finale degli stolti: "Omnis stultitia in fine saeculorum
destruetur" (Ogni stoltezza sarà distrutta alla fine dei secoli). Questa
visione, pur non accettata dalla tradizione successiva, testimonia la speranza
cristiana di una vittoria finale della sapienza divina.
La stoltezza nella
vita religiosa e monastica
I "folli per
cristo" nella tradizione orientale
La tradizione cristiana orientale ha
sviluppato una particolare forma di santità nota come "follia per
Cristo" (salos). Questi santi, apparentemente stolti agli occhi del
mondo, incarnavano in realtà una forma suprema di sapienza spirituale.
San Simeone il Folle, vissuto nel VI
secolo, è il prototipo di questa forma di santità. La sua Vita, scritta
da Leonzio di Neapolis, presenta un uomo che sceglie deliberatamente di
apparire stolto per nascondere la propria santità e per sfuggire alla
vanagloria.
"Beato chi diventa folle per
Cristo", scrive San Giovanni Climaco nella Scala Paradisi,
"perché la sua follia è più sapiente della sapienza di tutti i
filosofi". Questa tradizione dei "folli per Cristo" rappresenta
la realizzazione più radicale del paradosso paolino della stoltezza sapiente.
La stoltezza come
strumento di purificazione
La tradizione monastica ha sempre
riconosciuto nella stoltezza volontaria un potente strumento di purificazione
spirituale. San Benedetto, nella Regola, scrive: "Humilitas est via
ad sapientiam" (L'umiltà è la via alla sapienza). Questa umiltà include
spesso l'accettazione di apparire stolto agli occhi del mondo.
I Padri del deserto raccontano di
numerosi esempi di questa "santa stoltezza". Abba Bessarione, secondo
gli Apophthegmata Patrum, "appariva stolto agli uomini, ma era
sapiente davanti a Dio". Questa forma di stoltezza simulata nasceva dal
desiderio di sfuggire alla tentazione della vanagloria.
La stoltezza
nell'arte e nella letteratura cristiana
Dante Alighieri: la
stoltezza nella Divina Commedia
Dante presenta nella Divina
Commedia una ricca galleria di stolti, collocandoli in diversi gironi
dell'Inferno e del Purgatorio secondo la gravità della loro stoltezza. Nel
canto III dell'Inferno, i "pusilli" sono presentati come coloro che
"visser sanza 'nfamia e sanza lodo", una forma di stoltezza che
consiste nell'indifferenza morale.
Particolarmente significativo è il
personaggio di Pier delle Vigne (Inf. XIII), che rappresenta la stoltezza
dell'uomo di cultura che si lascia vincere dalla disperazione. Dante commenta:
"L'animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo col morir fuggir disdegno,
/ ingiusto fece me contra me giusto".
La stoltezza nella
letteratura monastica
La letteratura monastica medievale ha
prodotto numerosi esempi di trattazione della stoltezza. Il Dialogus
Miraculorum di Cesario di Heisterbach presenta diversi racconti di monaci
che scelgono deliberatamente di apparire stolti per crescere nell'umiltà.
Particolarmente interessante è la
figura del "monaco sciocco" che appare in molti racconti monastici.
Questi personaggi, apparentemente privi di cultura e di intelligenza, rivelano
spesso una saggezza superiore a quella dei loro confratelli più colti.
La stoltezza nella
teologia sociale
La critica
profetica alla stoltezza sociale
I profeti biblici hanno sempre
denunciato la stoltezza sociale di coloro che opprimono i poveri e i deboli.
Isaia grida: "Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che
cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre" (Is 5,20). Questa forma
di stoltezza sociale consiste nella perversione dei valori fondamentali.
La tradizione cristiana ha sempre
riconosciuto in questa denuncia profetica un elemento costitutivo della
missione della Chiesa. San Giovanni Crisostomo, nelle Omelie sui poveri,
afferma: "Stultus est qui pauperem contemnit" (Stolto è colui che
disprezza il povero).
La stoltezza del
capitalismo moderno
La teologia della liberazione ha
sviluppato una critica della stoltezza strutturale del capitalismo moderno.
Gustavo Gutiérrez, in Teologia della Liberazione, scrive: "È
stoltezza credere che il progresso economico possa portare automaticamente alla
giustizia sociale".
Questa critica si inserisce nella
tradizione profetica biblica che denuncia l'idolatria delle ricchezze. Papa
Francesco, nell'enciclica Laudato Si', parla di una "stoltezza
ecologica" che distrugge la casa comune per il profitto immediato.
La stoltezza
nell'ecumenismo e nel dialogo interreligioso
La stoltezza delle
divisioni cristiane
L'ecumenismo moderno ha riconosciuto
nella divisione tra i cristiani una forma di stoltezza che contraddice la
preghiera di Gesù: "Perché tutti siano una sola cosa" (Gv 17,21). Il
Concilio Vaticano II, nel decreto Unitatis Redintegratio, afferma:
"Questa divisione contraddice apertamente la volontà di Cristo, è di
scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del
Vangelo ad ogni creatura".
La stoltezza del
fondamentalismo religioso
Il dialogo interreligioso ha messo in
evidenza la stoltezza del fondamentalismo religioso che pretende di possedere
completamente la verità divina. Hans Küng, in Progetto per un'etica mondiale,
scrive: "È stoltezza credere che una sola religione possa esaurire
completamente il mistero di Dio".
Questa prospettiva, pur mantenendo la
convinzione cristiana dell'unicità di Cristo, riconosce la possibilità di semi
di verità anche in altre tradizioni religiose, seguendo l'insegnamento del
Concilio Vaticano II.
La stoltezza nella
teologia spirituale contemporanea
La stoltezza della
secolarizzazione
La teologia contemporanea ha
riflettuto sulla stoltezza della secolarizzazione radicale che pretende di
eliminare completamente la dimensione religiosa dalla vita umana. Joseph
Ratzinger, nell'Introduzione al Cristianesimo, scrive: "È stoltezza
credere che l'uomo possa essere completamente felice senza Dio".
La stoltezza del
relativismo morale
La teologia morale contemporanea ha
identificato nel relativismo morale una forma moderna di stoltezza. Giovanni
Paolo II, nell'enciclica Veritatis Splendor, afferma: "È stoltezza
credere che non esista una verità morale oggettiva alla quale tutti gli uomini
sono chiamati a conformarsi".
Conclusione: la
stoltezza come categoria teologica fondamentale
La riflessione teologica sulla figura
dello stolto nella Bibbia rivela una categoria fondamentale per comprendere la
condizione umana davanti a Dio. Dalla terminologia ebraica e greca dell'Antico
e Nuovo Testamento, attraverso la riflessione patristica e medievale, fino alla
teologia contemporanea, la stoltezza appare non semplicemente come un difetto
intellettuale, ma come una scelta esistenziale che coinvolge tutto l'uomo nella
sua relazione con il divino.
La tradizione cristiana ha riconosciuto
nella stoltezza biblica tre dimensioni fondamentali: quella cognitiva
(l'incapacità di riconoscere la verità), quella volontaria (il rifiuto di
accogliere la sapienza divina) e quella morale (la scelta di vivere come se Dio
non esistesse). Queste tre dimensioni si intrecciano in modo complesso, dando
origine a diverse tipologie di stoltezza che la Scrittura e la tradizione
teologica hanno saputo analizzare con finezza psicologica e profondità
spirituale.
Il paradosso paolino della
"stoltezza di Dio" che è "più sapiente della sapienza degli
uomini" (1 Cor 1,25) rimane il cuore della riflessione cristiana su questo
tema. Esso indica che la vera sapienza non coincide con l'intelligenza umana,
ma richiede una conversione radicale del cuore e della mente che solo la grazia
divina può operare.
La figura dello stolto biblico rimane
così un monito permanente per ogni credente: essa ricorda che la sapienza
umana, per quanto raffinata, rimane sempre parziale e limitata davanti al
mistero di Dio. Allo stesso tempo, essa apre alla speranza: anche lo stolto può
essere trasformato dalla grazia divina e diventare partecipe della sapienza
eterna.
Come scrive San Paolo nella Prima
Lettera ai Corinzi: "Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa;
ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora
conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto" (1 Cor 13,12). Questa
visione escatologica relativizza ogni distinzione terrena tra sapiente e
stolto, aprendo a tutti la possibilità della vera sapienza che viene dall'alto.
La ricchezza della tradizione
cristiana su questo tema dimostra come la Scrittura continui a offrire
categorie interpretative fondamentali per comprendere l'esperienza umana in
ogni epoca. La figura dello stolto biblico, lungi dall'essere un residuo
arcaico, rimane un paradigma antropologico di straordinaria attualità per la
comprensione dell'uomo contemporaneo e delle sue contraddizioni spirituali.
In definitiva, lo studio della
stoltezza biblica ci conduce al cuore stesso del messaggio cristiano: la
chiamata universale alla conversione e alla sapienza che trova il suo
compimento nell'incontro personale con Cristo, "sapienza di Dio" (1
Cor 1,24). Solo in questa prospettiva cristocentrica la stoltezza umana può
essere definitivamente superata e trasformata in partecipazione alla sapienza
divina.
Commenti
Posta un commento