"Il cane di mio nonno votava meglio di me" di Davide Romano


Mio nonno aveva un cane, un bastardino pezzato, cieco da un occhio e claudicante da una zampa. Si chiamava Filippo, come l’apostolo, ma lo trattavamo tutti come un vecchio garibaldino sopravvissuto a tutte le guerre, comprese quelle contro i piccioni del cortile. Ebbene, se oggi si votasse per scegliere fra l’intelligenza media dell’elettore moderno e l’istinto infallibile di Filippo nel fiutare una carogna, io non avrei dubbi: darei il mio seggio parlamentare al cane. E pure la pensione.

Non è nostalgia, questa. È statistica. È cronaca. È tragedia.
Siamo diventati un Paese dove l’informazione è un meme, la politica un TikTok, la verità una voce da verificare su WhatsApp. Dove il governo si fa per sondaggi e l’opposizione per like. Dove il ministro si sceglie in base al numero di follower e la competenza si misura in gradi di arroganza.

Chi glielo spiega a Cavour, che si è fatto venire la gotta per costruire l’Unità d’Italia, che oggi l’unità si misura in gigabyte e il patriottismo consiste nel tifare per la nazionale con la faccia pitturata?

Il cane di mio nonno, dicevo, almeno abbaiava solo quando serviva. Fiutava il ladro e ignorava l’amico. Oggi, invece, sembriamo tutti in un gigantesco canile elettorale, dove si abbaia per partito preso, si morde per riflesso condizionato, e si vota con l’istinto dell’ultimo reel visto la sera prima.

Ci hanno detto che siamo liberi. E noi ci siamo liberati di tutto: della memoria, della cultura, della vergogna. Abbiamo abolito la grammatica nei temi scolastici perché "l’importante è esprimersi". Abbiamo tolto la storia dagli esami perché "tanto è passata". Abbiamo messo l’educazione civica nelle scuole, ma abbiamo lasciato il Parlamento senza educazione.

Una volta i padri fondatori della Repubblica scrivevano discorsi che facevano piangere. Oggi twittano emoticon. E si offendono pure se glielo fai notare.

Il problema non è tanto chi ci governa, ma chi li vota. E qui torniamo al cane. Mio nonno, uomo serio, prima di mettere una scheda nell’urna, si sedeva la sera con il Corriere della Sera e leggeva tutti i programmi. Discutere con lui significava essere pronti a citare almeno due encicliche e un articolo della Costituzione. Oggi, invece, la gente va al seggio come al supermercato: guarda il simbolo, prende il più colorato e torna a casa col sacchetto pieno di promesse scadute.

Abbiamo scambiato il benessere con l’apparenza, la sicurezza con il controllo, la giustizia con l’invidia sociale. E quando il Paese affonda, non cerchiamo chi ha bucato la nave, ma chi urla più forte: "È colpa loro!".

Loro chi? I marziani? I cinghiali? Le scie chimiche?
No, signori miei. Siamo noi. Noi che abbiamo lasciato il Paese in mano ai venditori di sogni a rate. Noi che ci indigniamo per tre secondi e poi cambiamo canale. Noi che abbiamo dimenticato che la libertà si difende ogni giorno, anche leggendo una notizia in più, anche votando con la testa invece che con il fegato.

Il cane di mio nonno, alla fine, morì in silenzio. Non chiese pensioni né onorificenze. Non aveva mai avuto un account né un curriculum. Ma aveva un olfatto che oggi farebbe comodo a molti.
E se potesse ancora votare, probabilmente annuserebbe l’urna e scapperebbe via.

Noi, invece, restiamo lì, convinti che il futuro dipenda da chi urla di più.
Ma non è così. Il futuro dipende da chi ascolta in silenzio. E poi, magari, si mette a studiare.

Ecco perché, se domani ci fosse da eleggere un presidente con criterio, io darei la preferenza a Filippo. Aveva una zampa zoppa, è vero. Ma almeno non inciampava nel pensiero.

 

Nota dell’autore:
Questo pezzo non è né di destra né di sinistra. È scritto a mano, senza algoritmo. Con la rabbia lucida di chi ha visto tempi peggiori e non li rimpiange, ma teme che stiano tornando. Con il tono ironico di chi non si prende troppo sul serio, ma prende sul serio il proprio Paese. E con l’odore di un cane che sapeva distinguere la verità dalla menzogna, anche a occhi chiusi.

 

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