Mio nonno aveva un cane, un bastardino pezzato, cieco da un occhio e
claudicante da una zampa. Si chiamava Filippo, come l’apostolo, ma lo
trattavamo tutti come un vecchio garibaldino sopravvissuto a tutte le guerre,
comprese quelle contro i piccioni del cortile. Ebbene, se oggi si votasse per
scegliere fra l’intelligenza media dell’elettore moderno e l’istinto
infallibile di Filippo nel fiutare una carogna, io non avrei dubbi: darei il
mio seggio parlamentare al cane. E pure la pensione.
Non è nostalgia, questa. È statistica. È cronaca. È tragedia.
Siamo diventati un Paese dove l’informazione è un meme, la politica un TikTok,
la verità una voce da verificare su WhatsApp. Dove il governo si fa per
sondaggi e l’opposizione per like. Dove il ministro si sceglie in base al
numero di follower e la competenza si misura in gradi di arroganza.
Chi glielo spiega a Cavour, che si è fatto venire la gotta per costruire
l’Unità d’Italia, che oggi l’unità si misura in gigabyte e il patriottismo
consiste nel tifare per la nazionale con la faccia pitturata?
Il cane di mio nonno, dicevo, almeno abbaiava solo quando serviva. Fiutava
il ladro e ignorava l’amico. Oggi, invece, sembriamo tutti in un gigantesco
canile elettorale, dove si abbaia per partito preso, si morde per riflesso
condizionato, e si vota con l’istinto dell’ultimo reel visto la sera prima.
Ci hanno detto che siamo liberi. E noi ci siamo liberati di tutto: della
memoria, della cultura, della vergogna. Abbiamo abolito la grammatica nei temi
scolastici perché "l’importante è esprimersi". Abbiamo tolto la
storia dagli esami perché "tanto è passata". Abbiamo messo
l’educazione civica nelle scuole, ma abbiamo lasciato il Parlamento senza
educazione.
Una volta i padri fondatori della Repubblica scrivevano discorsi che facevano
piangere. Oggi twittano emoticon. E si offendono pure se glielo fai notare.
Il problema non è tanto chi ci governa, ma chi li vota. E qui torniamo al
cane. Mio nonno, uomo serio, prima di mettere una scheda nell’urna, si sedeva
la sera con il Corriere della Sera e leggeva tutti i programmi. Discutere con
lui significava essere pronti a citare almeno due encicliche e un articolo
della Costituzione. Oggi, invece, la gente va al seggio come al supermercato:
guarda il simbolo, prende il più colorato e torna a casa col sacchetto pieno di
promesse scadute.
Abbiamo scambiato il benessere con l’apparenza, la sicurezza con il
controllo, la giustizia con l’invidia sociale. E quando il Paese affonda, non
cerchiamo chi ha bucato la nave, ma chi urla più forte: "È colpa
loro!".
Loro chi? I marziani? I cinghiali? Le scie chimiche?
No, signori miei. Siamo noi. Noi che abbiamo lasciato il Paese in mano ai
venditori di sogni a rate. Noi che ci indigniamo per tre secondi e poi cambiamo
canale. Noi che abbiamo dimenticato che la libertà si difende ogni giorno,
anche leggendo una notizia in più, anche votando con la testa invece che con il
fegato.
Il cane di mio nonno, alla fine, morì in silenzio. Non chiese pensioni né
onorificenze. Non aveva mai avuto un account né un curriculum. Ma aveva un
olfatto che oggi farebbe comodo a molti.
E se potesse ancora votare, probabilmente annuserebbe l’urna e scapperebbe via.
Noi, invece, restiamo lì, convinti che il futuro dipenda da chi urla di
più.
Ma non è così. Il futuro dipende da chi ascolta in silenzio. E poi, magari, si
mette a studiare.
Ecco perché, se domani ci fosse da eleggere un presidente con criterio, io
darei la preferenza a Filippo. Aveva una zampa zoppa, è vero. Ma almeno non
inciampava nel pensiero.
Nota
dell’autore:
Questo pezzo non è né di destra né di sinistra. È scritto a mano, senza
algoritmo. Con la rabbia lucida di chi ha visto tempi peggiori e non li
rimpiange, ma teme che stiano tornando. Con il tono ironico di chi non si prende
troppo sul serio, ma prende sul serio il proprio Paese. E con l’odore di un
cane che sapeva distinguere la verità dalla menzogna, anche a occhi chiusi.
Bellissimo articolo ...W Filippo ! PV
RispondiEliminaTutto vero!
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