“Buoni a nulla ma capaci di tutto. La Sicilia sbranata dalle sue classi dirigenti” di Davide Romano

 




“I capi mafiosi parlano come preti e i preti parlano come capi mafiosi, entrambi uniti dalla stessa lingua: quella dell'ammiccamento, della circonlocuzione e della retorica vuota” - Leonardo Sciascia, “L'affaire Moro” (Adelphi, 1978)



La Sicilia, e con essa tutto il Mezzogiorno, continua a rappresentare l'ennesima occasione mancata di una nazione che di occasioni mancate ne ha fatte ormai una specialità gastronomica. Ma tra tutte le ricette del fallimento italiano, quella siciliana ha un sapore particolare: è un misto di baronale arroganza, di clientelismo secolare e di quella particolare forma di fatalismo che trasforma ogni catastrofe in destino ineluttabile, ogni scandalo in pettegolezzo da bar.

La classe dirigente meridionale non è un semplice prodotto della storia, è una casta che della storia si è nutrita, fagocitandone le possibilità di riscatto e trasformandole in mero mantenimento dello status quo. Una casta che ha saputo conservarsi immutata attraverso i secoli con una capacità di adattamento degna dei migliori camaleonti.



I gattopardi eterni

Quando nel 1860 i garibaldini sbarcarono in Sicilia, trovarono una classe dirigente che aveva già perfezionato l’arte di sopravvivere ai cambiamenti. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, diceva il Principe di Salina ne “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Feltrinelli, 1958). Non immaginava che questa sarebbe diventata la costituzione non scritta di un’intera classe politica per i successivi 165 anni.

Il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, ne è l'emblema contemporaneo. Nato politicamente sotto le ali protettrici di Berlusconi, ha navigato per decenni tra le acque tempestose della politica italiana con la leggerezza di chi sa che, qualunque cosa accada, ci sarà sempre una poltrona con il suo nome. Nel febbraio 2023, mentre il termometro segnava temperature record e i siciliani affrontavano una delle peggiori siccità degli ultimi decenni, Schifani si limitava a dichiarare: “La situazione è sotto controllo” (La Repubblica, 18 febbraio 2023). Peccato che appena due mesi dopo, con il razionamento dell'acqua in diverse province, fosse costretto a dichiarare lo stato di emergenza (ANSA, 16 aprile 2023).



L’arte di non decidere

La siccità non è arrivata all'improvviso come un ladro nella notte. Gli esperti lanciavano allarmi da anni. Ma gli invasi siciliani continuano a perdere fino al 50% dell'acqua per colpa di infrastrutture fatiscenti. Secondo il rapporto annuale dell’ANBI (Associazione Nazionale Bonifiche Irrigazioni) del 2023, degli 82 invasi presenti nell'isola, solo 25 sono pienamente funzionanti. Gli altri? Incompiuti, danneggiati, abbandonati. Un monumento al non-finito che farebbe impallidire qualsiasi artista concettuale.

La classe dirigente siciliana ha elevato il non decidere a forma d'arte. Quando Michele Emiliano, presidente della Puglia, nel marzo 2024 dichiarava di “dover parlare con i mafiosi” per risolvere alcuni problemi del territorio (Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2024), non faceva altro che confessare pubblicamente quello che in Sicilia è prassi consolidata: la negoziazione permanente con poteri paralleli, l'eterna mediazione con forze che dello Stato dovrebbero essere nemiche.



La retorica come sistema di governo

“Ci sono due tipi di problemi in Sicilia”, mi disse una volta un anziano funzionario regionale. “Quelli troppo grandi per essere risolti e quelli troppo piccoli per meritare attenzione”. È in questo limbo che prospera la retorica salvifica, fatta di promesse grandiose e realizzazioni microscopiche.

L'esempio più eclatante? Il Ponte sullo Stretto, eterno miraggio che ritorna ciclicamente nel dibattito pubblico. Un’opera che dal 1970 ad oggi è costata oltre 300 milioni di euro solo in progetti, studi di fattibilità e società di gestione, senza che sia mai stata posata una singola pietra, come riportato da un'inchiesta de L’Espresso (maggio 2023). Eppure, nell'aprile 2024, il ministro Salvini annunciava trionfante l’ennesimo “via libera definitivo” ai lavori (Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2024), mentre in Sicilia mancavano le strade per collegare i paesi dell’entroterra e i treni impiegavano ancora quattro ore per percorrere i 200 chilometri che separano Palermo da Catania (dati Trenitalia, 2024).



Il clientelismo come metodo di governo

In Sicilia non esistono cittadini, esistono clienti. La politica non è servizio pubblico, è gestione del consenso attraverso il favore personale. Lo dimostrano i numeri: secondo il rapporto ISTAT “La Pubblica Amministrazione in Italia” (2023), la Sicilia ha il più alto tasso di dipendenti pubblici pro capite d'Italia, con circa 340 dipendenti ogni 10.000 abitanti, contro una media nazionale di 220.

Il caso della sanità è emblematico. Nel 2023, il deficit sanitario siciliano ha superato i 300 milioni di euro, secondo i dati della Corte dei Conti (Giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Siciliana, settembre 2023). Eppure, nello stesso anno, sono state effettuate oltre 2.000 assunzioni negli ospedali dell’Isola, molte delle quali a ridosso delle elezioni regionali, come denunciato da Cittadinanzattiva Sicilia (comunicato stampa, dicembre 2023). Una coincidenza, naturalmente. Come è una coincidenza che l'ASP di Palermo abbia assunto come consulente esterno per “l'ottimizzazione dei processi comunicativi” il figlio di un noto deputato regionale, con un compenso di 80.000 euro annui (La Sicilia, inchiesta del 7 marzo 2024).


Il familismo amorale

Nel gennaio 2024, il Comune di Messina ha bandito un concorso per 341 posti a tempo indeterminato. Tra i vincitori figuravano la figlia di un assessore comunale, il nipote di un consigliere regionale e la cognata di un dirigente comunale, come riportato da un’inchiesta di Meridionews (febbraio 2024). Quando il caso è finito sui giornali, la difesa è stata: “Hanno vinto regolarmente il concorso”. Senza dubbio. Come regolarmente vincono i concorsi i parenti dei potenti in tutta la Sicilia.

Il “familismo amorale”, teorizzato dall'antropologo Edward Banfield nel saggio “Le basi morali di una società arretrata” (Il Mulino, 1958), continua a prosperare in forme nuove. Non è più solo la famiglia di sangue a essere privilegiata, ma la famiglia allargata del potere: amici, amici degli amici, clienti politici. Un network di favori e contropartite che stritola il merito e trasforma la pubblica amministrazione in un ammortizzatore sociale per i “raccomandati di ferro”. A chi non ha la fortuna di non fa parte di questa singola “famiglia allargata” non resta, naturalmente, che fare la valigia e tentare la fortuna altrove o decidere di rimanere svolgendo abitualmente un lavoro precario e sottopagato.


La cultura dell’alibi

Se c’è un talento in cui la classe dirigente meridionale eccelle, è la capacità di trovare alibi. Roma non ci dà abbastanza fondi. L'Europa non ci capisce. La mafia ci opprime. Il clima è avverso. Gli imprenditori del Nord ci sfruttano.

Nel frattempo, secondo la Relazione annuale 2023 della Corte dei Conti europea sulla gestione dei fondi UE, la Sicilia ha speso solo il 24% dei fondi europei disponibili per il periodo 2014-2020, perdendo oltre 2 miliardi di euro. La Calabria non è stata da meno, con un tasso di utilizzo dei fondi europei del 38%, come riportato dal Sole 24 Ore (12 gennaio 2024).

La Regione Siciliana ha un bilancio annuale di circa 20 miliardi di euro, come risulta dall'ultimo Documento di Economia e Finanza Regionale. Eppure, nel 2023, ha stanziato solo 58 milioni per il sostegno alle imprese innovative, meno di quanto abbia speso per consulenze esterne e comunicazione istituzionale (62 milioni), come denunciato dalla Corte dei Conti nella relazione sul giudizio di parificazione (settembre 2023).


La rassegnazione come virtù civica

“U’ cumannu è cumannu” (Il comando è comando). Questo antico proverbio siciliano, raccolto da Giuseppe Pitrè nel suo “Proverbi siciliani” (1880), racchiude secoli di rassegnazione di fronte all’arbitrio del potere. La classe dirigente meridionale ha trasformato questa rassegnazione in virtù civica, in attesa messianica di un riscatto che non arriva mai.

L’assenteismo record nel pubblico impiego siciliano (con punte del 40% in alcuni uffici regionali, secondo i dati dell'Ispettorato per la Funzione Pubblica, 2023) non è solo un problema di malcostume. È il sintomo di un patto sociale deteriorato, dove il lavoro pubblico è percepito come prebenda e non come servizio.

Quando nel febbraio 2024 il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, denunciava pubblicamente “l'infiltrazione sistemica della criminalità organizzata negli appalti pubblici siciliani” (audizione presso la Commissione Antimafia, 12 febbraio 2024), la reazione della politica locale fu di stizzito fastidio. L'assessore regionale alle Infrastrutture rispose che si trattava di “generalizzazioni che danneggiano l'immagine della Sicilia” (Il Giornale di Sicilia, 13 febbraio 2024). Come se il problema fosse l'immagine e non la sostanza.


Il Sud tradito dai suoi notabili

La vera tragedia del Mezzogiorno non è stata la questione meridionale in sé, ma la clamorosa inadeguatezza di una classe dirigente che ha saputo trasformare ogni risorsa in spreco, ogni opportunità in occasione di clientelismo, ogni riforma in simulacro di cambiamento.

Mentre scriviamo, i fondi del PNRR rischiano di diventare l’ennesimo banchetto per i soliti noti. Secondo il rapporto annuale della Guardia di Finanza (giugno 2023), solo nel 2023 sono state scoperte frodi per oltre 500 milioni di euro sui fondi pubblici in Sicilia e Calabria.

La classe dirigente meridionale non è solo inefficiente, è geneticamente programmata per l’autoconservazione. Ha trasformato il potere in un fine e non in un mezzo, ha eretto a sistema la gestione familistica della cosa pubblica, ha confuso deliberatamente i confini tra lecito e illecito fino a renderli indistinguibili. “Buoni a nulla ma capaci di tutto” avrebbe detto Ennio Flaiano.

E mentre i giovani meridionali continuano a emigrare (oltre 400.000 negli ultimi dieci anni, secondo il Rapporto SVIMEZ 2023), i “gattopardi” continuano a ripetere che “tutto cambierà perché nulla cambi”. Ma la storia, quella vera, prima o poi presenta il conto. Anche in Sicilia.











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