C'è chi colleziona farfalle, chi francobolli, chi modellini di treni. Io colleziono universi interi, racchiusi tra copertine che si estendono lungo pareti, corridoi, stanze dedicate. Diecimila volumi. Una cifra che pronuncio con un misto di orgoglio e imbarazzo, come chi confessa una dipendenza troppo piacevole per essere abbandonata.
"I libri non si comprano, si
adottano", diceva Umberto Eco, che di biblioteche personali se ne
intendeva. Ma ciò che il grande semiologo non precisa è che, come ogni
adozione, comporta responsabilità. Ed eccomi qui, genitore adottivo di
diecimila creature di carta, ognuna con la propria storia, il proprio
carattere, il proprio profumo.
Il mio appartamento ha cessato da
tempo di essere un luogo di abitazione per diventare un ricovero per volumi.
Gli scaffali hanno colonizzato ogni parete disponibile, hanno conquistato
corridoi, si sono arrampicati fino al soffitto, hanno invaso il bagno (dove una
piccola collezione di saggi sul pensiero zen accompagna momenti di riflessione
profonda). Persino il frigorifero ospita, magneticamente attaccati alla sua
superficie, frammenti poetici che nutrono lo spirito mentre cerco qualcosa che
nutra il corpo.
"I libri sono come le
persone", sosteneva Jorge Luis Borges, "alcuni ti cambiano la vita, altri
ti fanno solo perdere tempo". Seguendo questo principio, ho accolto nel
mio harem cartaceo sia principi che pezzenti, sia capolavori immortali che
effimere pubblicazioni destinate all'oblio. Democratico fino al midollo, il mio
scaffale non discrimina: "Anna Karenina" può tranquillamente
condividere lo spazio con l'ultimo thriller acquistato in aeroporto.
La mia professione di giornalista ha
certamente contribuito a questa dolce patologia. Come dice Susan Sontag:
"Leggere rende estroversi. Si esce da sé stessi per entrare nella vita
degli altri, in altre epoche, in altre civiltà". E quale miglior
preparazione per chi deve raccontare il mondo se non possedere diecimila
finestre da cui osservarlo?
La mia collezione ha iniziato a
prendere forma durante l'adolescenza, quando scoprii che possedere un libro
significava possedere il tempo. Il tempo dell'autore cristallizzato nelle
pagine, il tempo del lettore che scorre tra le righe, il tempo della storia che
si dipana tra incipit ed explicit. Da allora, ho accumulato tempo come un avaro
accumula monete, temendo sempre che la giornata non basti per leggere tutto ciò
che vorrei.
Naturalmente, come ogni bibliofilo
che si rispetti, ho sviluppato rituali e manie. I libri sono organizzati
secondo un sistema che solo io comprendo pienamente: parte per argomento, parte
per colore della copertina, parte per affinità elettive che sfuggono a
qualsiasi catalogazione razionale. Provo un piacere perverso nel sapere che
posso ritrovare immediatamente qualsiasi volume, muovendomi tra gli scaffali
come un rabdomante che cerca l'acqua nel deserto.
"La biblioteca di una persona
rivela la sua anima", scriveva Flaubert. Se così fosse, la mia anima
risulterebbe piuttosto sovraffollata e disordinata. Ci sono i classici,
naturalmente, quelli che nessuna persona di cultura può permettersi di non
possedere, anche se forse non li leggerà mai. C'è la sezione di poesia, che si
consulta nei momenti di crisi esistenziale. C'è la letteratura di viaggio, per
quando il corpo è stanco ma la mente vuole vagabondare. C'è la filosofia, per
quando si ha voglia di sentirsi intelligenti. E poi, nascosti nei ripiani più
bassi, quei libri che non si mostrano agli ospiti, ma che si leggono con
maggior piacere di tutti gli altri.
Ma il vero orgoglio della mia
collezione, quello che fa brillare i miei occhi di un bagliore particolare
quando ne parlo, sono i libri antichi. Li cerco come un cacciatore di tesori,
in mercatini polverosi, botteghe dimenticate, aste occasionali. Ogni volume
antico ha la sua storia, porta con sé secoli di mani che l'hanno sfogliato, di
occhi che ne hanno assorbito le parole. Ognuno racconta due storie: quella
scritta nelle sue pagine e quella, non meno affascinante, del suo viaggio
attraverso il tempo fino alla mia libreria.
Il bibliomane autentico, quello della
mia specie, non si limita a comprare libri: li corteggia. Li osserva da lontano
nelle vetrine, passa casualmente davanti alla libreria più volte, finge
disinteresse mentre le pupille si dilatano alla vista di un'edizione particolare.
Poi, quando finalmente cede e acquista, prova un misto di estasi e colpa, come
dopo un tradimento consumato con troppa facilità.
Italo Calvino, nel suo "Se una
notte d'inverno un viaggiatore", descrive perfettamente questo rituale:
"C'è chi legge per coltivare l'anima, chi per affilare l'ingegno, chi per
evadere, chi per esercitare le proprie facoltà critiche. E c'è chi legge per
puro vizio, per non poterne fare a meno". Appartengo senza dubbio a
quest'ultima categoria, quella dei tossicodipendenti della parola scritta.
A differenza di molti contemporanei,
ho mantenuto un rapporto esclusivo con la carta. Non ho mai ceduto alle sirene
dell'e-reader, né all'illusione dei libri elettronici. Un libro deve avere
peso, consistenza, odore. Deve occupare spazio fisico, deve esistere nel mondo
reale, non nella fredda memoria di un dispositivo. Come diceva Umberto Eco:
"Il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una
volta che li hai inventati, non puoi fare di meglio". E io aggiungo: né di
diverso.
In un angolo particolare della mia
biblioteca, custodisco con reverenza quella che considero la mia collezione più
preziosa: edizioni diverse del Corano, della Bibbia e dei testi sacri delle
principali religioni mondiali. Non è una raccolta dettata dalla fede, ma dalla
curiosità intellettuale, dalla convinzione che per comprendere l'umanità
occorra conoscere ciò in cui l'umanità ha creduto. Ogni edizione racconta una
storia diversa, ogni traduzione rivela un'interpretazione, ogni annotazione
offre una prospettiva. È come possedere una mappa dell'anima umana attraverso i
secoli.
Gli amici, quando entrano nel mio
appartamento, reagiscono in due modi: o con ammirazione reverenziale, o con
aperta preoccupazione per la mia salute mentale. "Non hai paura che ti
cada tutto addosso durante un terremoto?", mi chiese una volta una cara
amica. Risposi citando Edmund Wilson: "Nessun uomo può essere
completamente infelice se ha un buon libro da leggere". Anche sepolto
sotto una valanga di volumi, morirei felice.
Vi è poi la questione economica. Se
avessi investito in borsa i soldi spesi in libri negli ultimi trent'anni,
probabilmente ora sarei proprietario di uno yacht. Invece, sono proprietario di
parole, migliaia, milioni di parole allineate su carta, che non si quotano in
borsa ma il cui valore, per me, è inestimabile. Come diceva Oscar Wilde:
"Chi non ama i libri non ama la saggezza; è uno sciocco".
Nel mio caso, vivo solo, in compagnia
esclusiva dei miei diecimila volumi. Non ho mai sentito il bisogno di condividere
questo spazio con un'altra persona. I libri sono compagni discreti, non
invadenti, che parlano solo quando interrogati e tacciono quando si desidera il
silenzio. Come scrisse Proust: "Finché leggi, sei in compagnia
dell'autore. E quando chiudi il libro, sei solo con te stesso". Questa
solitudine popolata di voci è la più confortevole che conosca.
C'è una verità che ogni bibliofilo
conosce ma raramente ammette: non leggeremo mai tutti i libri che possediamo.
La vita è troppo breve, e i libri troppo numerosi. Esiste persino un termine
giapponese, "tsundoku", che descrive l'abitudine di acquistare libri
e impilarli senza leggerli. Walter Benjamin la considerava una forma d'amore:
"Di tutti i modi di procurarsi libri, il più nobile è quello di scriverli
da sé, il più simpatico quello di ereditarli, il più comune quello di
comprarli, e il più semplice quello di prenderli in prestito. Ma di tutti
questi modi, il mio preferito è accumularne talmente tanti da dimenticare quali
si posseggono".
Talvolta mi chiedo se questa passione
non nasconda un'ansia esistenziale, una forma di accaparramento contro la
morte. Come se, circondandomi di libri, potessi garantirmi una sorta di
immortalità per procura. Alberto Manguel scrive: "Ogni biblioteca è una
sorta di autobiografia. Molti dei libri che possediamo non li abbiamo letti, ma
rappresentano ciò che vorremmo essere". Forse i miei diecimila volumi non
sono altro che diecimila versioni di me stesso che non avrò mai il tempo di
diventare.
Ma poi, nelle lunghe serate invernali,
quando la pioggia batte sui vetri e il tè fumante mi fa compagnia, estraggo un
volume a caso da uno scaffale e mi immergo nella lettura. E in quei momenti,
come per magia, tutti i dubbi svaniscono. Come disse una volta Marguerite
Yourcenar: "Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici,
ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio
malgrado, vedo venire".
È vero, sono un bibliomane
incurabile. Ma come ogni malattia d'amore, non cerco la guarigione. E se anche
lo facessi, credo che la prescrizione medica sarebbe semplice: leggere due
libri e chiamare il medico al mattino.
Nel frattempo, continuerò ad adottare
volumi, a dare loro rifugio, a farli dialogare tra loro negli scaffali. Perché,
come diceva Ray Bradbury: "Senza biblioteche cosa abbiamo? Non abbiamo né
passato né futuro". E io, nel mio piccolo, sto costruendo il mio personale
ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà: un ponte fatto di carta, inchiostro e
passione.
E ora, se volete scusarmi, ho appena
ricevuto una notifica: c'è una nuova uscita che mi aspetta in libreria.
Dopotutto, diecimila e uno suona meglio di diecimila, non trovate?
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