"Sei monasteri e un mosaico. Pellegrinaggio a Napoli tra silenzi, grate e sole" di Davide Romano

 


“Non vedo l’intera immagine di questo mosaico per adesso,” mi scrive una suora amica. “Ma so che ogni persona incontrata è una tessera che Dio ha voluto.”

Ripensavo a queste parole mentre camminavamo — una trentina di persone, tutti legati in qualche modo alla comunità dei Padri Teatini — sotto il sole cocente di fine giugno.
Avevamo aderito a un’iniziativa dell’Ufficio per la vita consacrata dell’arcidiocesi di Napoli, pensata per far conoscere la vita contemplativa della città.

Napoli ci bruciava la pelle, sì, ma quel calore non era solo climatico. C’era un altro fuoco, più sottile e profondo: un clima interiore di gioia, stupore, ascolto.
Un pellegrinaggio: sei monasteri, ventiquattro chilometri (e forse anche più). Ma non sei semplici visite — sei incontri. E un filo sottile, invisibile e potente, ci ha legati lungo tutto il cammino.

Le Sacramentine di via dei Ruffi sono state il primo incontro nel cuore nascosto della città. Occhi limpidi e sorrisi accesi ci hanno accolto con una pace silenziosa. “Abbiamo pregato per voi”, ci hanno detto, e l’abbiamo sentito. Più che parlare, ci hanno consegnato la loro presenza. Qui padre Carmine Mazza, provinciale dei Padri Teatini, artefice e guida di questo singolare pellegrinaggio, ha celebrato la messa, e in quel momento sacro si sono intrecciati canto e silenzio, parola e contemplazione. Le voci delle suore si alzavano come incenso. Mentre Napoli fuori si risvegliava vociante dal suo torpore notturno, loro dentro sussurravano Dio. La celebrazione eucaristica ha trasformato quello spazio in una cattedrale dell’anima, dove ogni gesto liturgico risuonava di un’intimità profonda.

“Mi ha lasciato un profondo senso di serenità e sicurezza”, mi ha confidato Teresa al termine della visita. “Prima pensavo che le monache di clausura avessero compiuto una scelta personale, quasi chiusa in se stessa. Ora invece comprendo che il loro ruolo è prezioso: pregano per tutti noi, colmando con la loro preghiera quel vuoto che spesso lasciamo, presi come siamo dalle nostre occupazioni quotidiane”.

Poi le Carmelitane Scalze ai Ponti Rossi. Salita dura. Sudore. Sole che spacca la pietra. Ma la fatica svanisce appena ci aprono. Una voce e un volto sorridente ci accoglie. Da dietro la grata è la superiora del convento, suor Gigliola, a parlarci. Sguardi chiari, voce sottile e una dolcezza che disarma. Le suore vivono nel silenzio, ma quel silenzio è abitato. È denso, come l’incenso della loro preghiera costante.

Terza tappa: le Passioniste. È qui che la luminosità cambia. Chiesa moderna e baciata dal sole. Ci accoglie la superiora suor Giuliana. Ci parla dell’amore crocifisso, ma lo fa col sorriso sulle labbra perché quella che narra è una storia d’amore, non di morte. In una sala adiacente hanno imbandito una ricchissima tavola per noi. Dolci, frutta e tanto altro. Le troviamo schierate gioiose nei loro abiti neri. Siamo loro ospiti. Ridono, ci affidano alla Vergine e ci chiedono preghiere. Per loro, per il mondo. E per chi ha sete di senso. Mentre colmano la nostra sete e non solo d’acqua.

“Scherzando, ho detto a tutti che saremmo andati dalle suore ‘Passioniste’ che sono chiamate così perché coltivano molte passioni. Devo ammettere che, in verità, non ci ero andata lontana. Quelle suorine col volto illuminato da un infinito sorriso una passione divorante la coltivano: l’amore per il Signore. Un amore vero, concreto che si tocca in ogni loro gesto e parola. Per me è stata una grande sorpresa. Ho desiderato di rimanere con loro e chissà che un giorno…” ha detto Rita, mentre ci lasciavamo alle spalle il loro monastero.

Scendendo, incontriamo le Urbaniste. La famiglia francescana ha molti rami. Monastero antico, atmosfera raccolta, quasi sospesa nel tempo. Una delle sorelle, suor Antonietta, con voce quasi flebile, ci racconta del loro carisma francescano: vivere in povertà, fraternità e preghiera. Dietro la grata, parole leggere. “Il Signore ci conduce”, ci dice. Anche qui, nessuna fretta, solo uno spazio in cui Dio può parlare.

Quinta sosta: Santa Chiara, la regina dei chiostri. A pochi passi, i turisti sciamano nel cortile maiolicato, ma a noi interessano le Clarisse. Da dietro la grata si affacciano con il sorriso sul volto; insieme a loro, suor Nunzia, la superiora, e una gioia contagiosa che riempie tutta la stanza. Raccontano, ma soprattutto chiedono. Curiose di ognuno di noi e delle nostre storie. Aprono le orecchie e anche il cuore. La loro preghiera è una presenza che abbraccia tutto, come una fragranza nascosta. Qui, più che altrove, il mosaico comincia a prendere forma: si intuisce che ogni frammento ha un posto, anche quelli che sembrano insignificanti.

Ultima tappa: le Cappuccine delle Trentatré. Entriamo accolti con gratitudine. La chiesa dallo stile austero è immersa nella penombra del pomeriggio. Un po’ di frescura alla fine del nostro pellegrinaggio. Ci accoglie una di loro, non ci parla da dietro una grata, ma è davanti a noi. Suor Pia ha gli occhi vivaci come quelli di chi ha un’intelligenza mai paga. Spiega ma sollecita anche domande. Al polso destro porta due braccialetti. Forse una piccola vanità a cui non vuole rinunciare nel ritmo austero della vita del monastero. Sorride, guarda, quasi scruta.

“Per me è stato un cammino di conoscenza. Di persone, di luoghi, di sentieri... ma, soprattutto, di me stessa. Mai avrei immaginato di poter percorrere tanta strada a piedi, sotto un sole cocente, accanto a persone che nemmeno conoscevo. Eppure è successo. D’altronde, come dice Gesù: ‘Il mio giogo è dolce e il mio peso è leggero.’ E davvero è così: la fatica, condivisa con gli altri, si è trasformata in bellezza e gioia”, mi ha raccontato Anna, una delle partecipanti, mentre affrontavamo l’ultimo pezzo di strada.

Durante il cammino, mi è tornato quanto detto da suor Maria Caterina, monaca sacramentina, che spiegava con cura la storia e la missione delle loro comunità: “Il fine escatologico della nostra vita è quello di sottolineare agli uomini il fine della loro vita che è quello di entrare nell’amore del Padre. Sant'Agostino, nostro padre, diceva ‘per correre bisogna conoscere la meta’ e noi abbiamo il dovere di mostrare la meta perché il mondo corra verso la comunione con Dio”.

Scriveva ancora la mia amica suora, quella dell’inizio di questa sgangherata cronaca: “In Cristo, la vera vicinanza supera le parole, e la vita è un mosaico formato da tutte le persone che Dio ci dona per accompagnarci nel cammino. Io sono un mosaico di tutte le persone che ho incontrato. E lo sei anche tu. Noi tutti lo siamo”.

E noi? Siamo tornati bruciati dal sole, certo. Ma anche segnati da quel bagliore sottile. Più leggeri. Non più devoti, forse, ma più consapevoli. Di una verità semplice: Dio sta componendo un mosaico. Non possiamo vederlo tutto, ma ci è dato di esserne parte. Napoli ce l’ha insegnato. Con i suoi monasteri, le sue grate, le sue suore luminose. Con il sole che scotta fuori… e scalda dentro.

 


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