Se c’è una pagina di storia religiosa
che il tempo ha volutamente sfumato nei contorni e negli eccessi, questa è
senza dubbio quella delle Pie Zoccolanti. Un ordine femminile di clausura che
visse la sua effimera parabola tra il Seicento e il Settecento, nascendo come
un pio esperimento di redenzione e concludendosi come un grottesco fallimento
della volontà umana di opporsi alla propria natura.
Fondato a Napoli intorno al 1623,
l’ordine, il cui nome ufficiale era "Venerabile Congregazione delle Figlie
Non Più Immacolate di Maria, delle Pentite Peccatrici Redente, delle Donne
Ravvedute per Grazia Divina e Consacrate alla Vita di Orazione e Penitenza nell’Attesa
della Redenzione Finale", aveva una missione chiara: sottrarre le donne di
malaffare alla dannazione e condurle in un cammino di penitenza e preghiera. A
concepire l’idea fu il canonico don Prospero de’ Liguori, un uomo di Chiesa ma
anche di mondo, che aveva visto le miserie della strada e si era convinto che
una clausura severa e una rigida disciplina avrebbero potuto trasformare le
traviate in sante.
Le Pie Zoccolanti - così chiamate
perché, in segno di umiltà, calzavano rozzi zoccoli di legno al posto dei
sandali conventuali - si ritiravano in un monastero eretto nei pressi di Porta
Capuana, a Napoli. L’ordine prometteva loro una nuova vita, fatta di preghiera,
lavoro e castità assoluta. Ma il destino di queste donne, abituate a tutt’altre
abitudini, si rivelò meno docile di quanto il buon don Prospero potesse
immaginare.
In principio, il monastero delle Pie
Zoccolanti sembrò un successo. Le giovani accolte vi entravano con entusiasmo,
sedotte forse più dall’idea di una casa sicura e di pasti garantiti che da
un’autentica vocazione. La vita quotidiana era scandita da preghiere
interminabili, da pasti frugali e da lavori manuali, in particolare la
tessitura di pizzi e merletti destinati alla nobiltà napoletana.
Ma ben presto i problemi emersero.
Per quanto le Pie Zoccolanti si sforzassero di dimenticare il mondo esterno,
era il mondo esterno a non dimenticare loro. Alcune suore, nottetempo,
riuscivano a fuggire dal convento, e più d’una fu sorpresa a girovagare per le
stesse strade che l’avevano portata alla rovina. Si vociferava di messaggi
scambiati attraverso i muri del convento con vecchi amanti e di torbide tresche
che si consumavano nelle stanze più remote del monastero.
La Chiesa, allarmata, cercò di
correre ai ripari con pene più severe. Le suore colte in flagrante venivano
sottoposte a digiuni estenuanti e penitenze umilianti, persino alla pena del
carcere conventuale. Ma ogni tentativo di correggere il vizio sembrava soltanto
accenderlo di più.
Nel 1711, dopo anni di scandali
soffocati e di fughe disperate, il monastero fu chiuso per decreto papale. Le
superstiti furono trasferite in altri conventi o lasciate tornare al mondo,
molte delle quali senza indugi e con evidente sollievo. Di don Prospero de’
Liguori si persero le tracce: alcuni dicono si sia ritirato in un eremo in
Calabria, altri sostengono che sia morto di crepacuore nel tentativo di salvare
un’opera che, in fondo, aveva fatto i conti senza l’oste.
Oggi, di quell’ordine non resta che
qualche rudere coperto d’edera e qualche documento polveroso negli archivi
ecclesiastici. Le Pie Zoccolanti, con il loro maldestro tentativo di redimere
la carne senza comprenderne la natura, hanno lasciato dietro di sé una storia
che oscilla tra la tragedia e la farsa. Forse a Napoli, tra i vicoli dove un tempo
camminavano con passo incerto, il loro spirito ancora vaga, sospeso tra il
desiderio di espiazione e il richiamo di una vita che non hanno mai saputo
davvero rinnegare.
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