“Le Pie Zoccolanti: l’ordine delle peccatrici redente (e ricadute)” di Davide Romano, giornalista



Se c’è una pagina di storia religiosa che il tempo ha volutamente sfumato nei contorni e negli eccessi, questa è senza dubbio quella delle Pie Zoccolanti. Un ordine femminile di clausura che visse la sua effimera parabola tra il Seicento e il Settecento, nascendo come un pio esperimento di redenzione e concludendosi come un grottesco fallimento della volontà umana di opporsi alla propria natura.

Fondato a Napoli intorno al 1623, l’ordine, il cui nome ufficiale era "Venerabile Congregazione delle Figlie Non Più Immacolate di Maria, delle Pentite Peccatrici Redente, delle Donne Ravvedute per Grazia Divina e Consacrate alla Vita di Orazione e Penitenza nell’Attesa della Redenzione Finale", aveva una missione chiara: sottrarre le donne di malaffare alla dannazione e condurle in un cammino di penitenza e preghiera. A concepire l’idea fu il canonico don Prospero de’ Liguori, un uomo di Chiesa ma anche di mondo, che aveva visto le miserie della strada e si era convinto che una clausura severa e una rigida disciplina avrebbero potuto trasformare le traviate in sante.

Le Pie Zoccolanti - così chiamate perché, in segno di umiltà, calzavano rozzi zoccoli di legno al posto dei sandali conventuali - si ritiravano in un monastero eretto nei pressi di Porta Capuana, a Napoli. L’ordine prometteva loro una nuova vita, fatta di preghiera, lavoro e castità assoluta. Ma il destino di queste donne, abituate a tutt’altre abitudini, si rivelò meno docile di quanto il buon don Prospero potesse immaginare.

In principio, il monastero delle Pie Zoccolanti sembrò un successo. Le giovani accolte vi entravano con entusiasmo, sedotte forse più dall’idea di una casa sicura e di pasti garantiti che da un’autentica vocazione. La vita quotidiana era scandita da preghiere interminabili, da pasti frugali e da lavori manuali, in particolare la tessitura di pizzi e merletti destinati alla nobiltà napoletana.

Ma ben presto i problemi emersero. Per quanto le Pie Zoccolanti si sforzassero di dimenticare il mondo esterno, era il mondo esterno a non dimenticare loro. Alcune suore, nottetempo, riuscivano a fuggire dal convento, e più d’una fu sorpresa a girovagare per le stesse strade che l’avevano portata alla rovina. Si vociferava di messaggi scambiati attraverso i muri del convento con vecchi amanti e di torbide tresche che si consumavano nelle stanze più remote del monastero.

La Chiesa, allarmata, cercò di correre ai ripari con pene più severe. Le suore colte in flagrante venivano sottoposte a digiuni estenuanti e penitenze umilianti, persino alla pena del carcere conventuale. Ma ogni tentativo di correggere il vizio sembrava soltanto accenderlo di più.

Nel 1711, dopo anni di scandali soffocati e di fughe disperate, il monastero fu chiuso per decreto papale. Le superstiti furono trasferite in altri conventi o lasciate tornare al mondo, molte delle quali senza indugi e con evidente sollievo. Di don Prospero de’ Liguori si persero le tracce: alcuni dicono si sia ritirato in un eremo in Calabria, altri sostengono che sia morto di crepacuore nel tentativo di salvare un’opera che, in fondo, aveva fatto i conti senza l’oste.

Oggi, di quell’ordine non resta che qualche rudere coperto d’edera e qualche documento polveroso negli archivi ecclesiastici. Le Pie Zoccolanti, con il loro maldestro tentativo di redimere la carne senza comprenderne la natura, hanno lasciato dietro di sé una storia che oscilla tra la tragedia e la farsa. Forse a Napoli, tra i vicoli dove un tempo camminavano con passo incerto, il loro spirito ancora vaga, sospeso tra il desiderio di espiazione e il richiamo di una vita che non hanno mai saputo davvero rinnegare.

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