“Il processo del secolo, condannato a morte il corruttore della gioventù ateniese. La democrazia ateniese mostra il suo volto peggiore” di Davide Romano
Atene, 399 a.C. - Ve lo dico subito:
ieri è stato un giorno nero per Atene. Non tanto per quello che è successo - la
condanna a morte di un vecchio filosofo settantenne - quanto per come è
successo. Ho assistito all'intero processo, e vi assicuro che mai avevo visto
una tale farsa giudiziaria mascherata da democrazia. Ma andiamo con ordine,
perché questa storia merita di essere raccontata dall'inizio.
Il protagonista di questa vicenda, Socrate, lo conoscete tutti. È quel vecchio bizzarro che da decenni gira per l'agorà, fermando i passanti con le sue domande impossibili, mettendo in imbarazzo i potenti con i suoi ragionamenti stringenti, e soprattutto - questo è il suo vero delitto - facendo pensare i giovani con la propria testa. Lo si vede sempre scalzo, con quel suo mantello logoro, a parlare con chiunque abbia la pazienza (o l'imprudenza) di fermarsi ad ascoltarlo. “Opportune, importune”.
Ma chi è veramente quest'uomo che ha
fatto tanto arrabbiare i potenti di Atene? Figlio di uno scultore e di una
levatrice, ha seguito le orme del padre fino a quando non ha scoperto la sua
vera vocazione: fare da levatrice alle idee. “Io faccio come mia madre”, ama
ripetere con quella sua irritante ironia, “aiuto gli altri a partorire la
verità che hanno dentro”.
L'accusa formale, presentata da Meleto,
Anito e Licone, parlava di “empietà verso gli dei” e di “corruzione dei
giovani”. Tre personaggi che meritano un ritratto: Meleto, un poetastro fallito
che non ha mai perdonato a Socrate le sue critiche alla poesia; Anito, un ricco
commerciante di cuoio con ambizioni politiche, rappresentante perfetto di
quella borghesia che vede nella filosofia una minaccia al suo potere; e Licone,
un retore di second'ordine che si è accodato agli altri due fiutando
l'occasione di mettersi in mostra.
Ma dietro questi tre mascalzoni -
chiamiamoli col loro nome - c'era tutto l'establishment ateniese, quella classe
dirigente che non ha mai digerito il fatto che un vecchio filosofo andasse in
giro a smontare pezzo per pezzo le loro certezze. E soprattutto, non hanno mai
perdonato a Socrate di aver formato giovani come Alcibiade e Crizia, anche se
lui ha sempre sostenuto di non essere responsabile delle scelte dei suoi
allievi.
Il processo si è svolto davanti a una
giuria di 501 cittadini, come vuole la democrazia ateniese. Ma che democrazia è
quella che mette sotto processo un uomo per le sue idee? Il vecchio filosofo si
è difeso da solo, rifiutando l'aiuto dei logografi professionisti. “Non sarebbe
decoroso”, ha detto, “che io, che ho passato la vita a cercare la verità, ora
mi metta a recitare discorsi scritti da altri”.
La sua arringa difensiva è stata un
capolavoro di logica e di coraggio civile, ma anche una lezione di dignità che
i suoi accusatori farebbero bene a studiare. Ha ricordato il suo servizio militare
a Potidea, Anfipoli e Delio, dove ha salvato la vita al giovane Alcibiade. Ha
raccontato di quando, sotto i Trenta Tiranni, si è rifiutato di partecipare
all'arresto illegale di Leone di Salamina, rischiando la vita per restare
fedele alla giustizia.
“Non ho mai avuto allievi”, ha spiegato
alla giuria. “Chiunque voglia può venire ad ascoltarmi, e io non chiedo denaro
come fanno i sofisti. Se qualcuno diventa migliore ascoltandomi, non è merito
mio, ma della verità che insieme cerchiamo”.
Ma
il momento più alto - e più drammatico - è arrivato quando gli hanno chiesto di
proporre una pena alternativa alla morte. Qui il vecchio ha dato il meglio di
sé, dimostrando quella miscela unica di coraggio e ironia che lo ha sempre
contraddistinto. Invece di suggerire l'esilio o una multa salata, come ci si
aspettava, ha proposto che la città lo mantenesse a sue spese nel Pritaneo,
l'onore più alto che Atene riserva ai suoi benefattori.
“Che cosa merita”, ha chiesto con quel
suo sorrisetto che ha fatto infuriare i giudici, “un uomo povero che ha
dedicato la vita a rendere migliori i suoi concittadini? Se proprio volete
sapere quanto valgo, vi propongo una multa di una mina d'argento. O trenta, se
Platone e gli altri miei amici qui presenti vogliono garantire per me”.
Naturalmente, questa provocazione ha
fatto infuriare i giudici. La condanna a morte è arrivata con una maggioranza
più ampia di quella che lo aveva dichiarato colpevole: 360 voti contro 140. Ma
anche di fronte alla morte, il vecchio non ha perso il suo spirito. "È ora
di andare," ha detto ai giudici con quella sua calma esasperante, “io a
morire, voi a vivere. Chi di noi vada verso il meglio, è oscuro a tutti, tranne
che al dio”.
Gli hanno concesso trenta giorni prima
dell'esecuzione, il tempo necessario per il ritorno della nave sacra da Delo.
In questi giorni, la sua cella è diventata un pellegrinaggio continuo di amici
e discepoli. Critone, uno dei suoi più vecchi amici, gli ha già proposto un
piano di fuga ben organizzato: denaro, complicità, un rifugio sicuro in
Tessaglia. Ma il vecchio ha rifiutato, fedele fino all'ultimo alla sua
coerenza.
“Come potrei”, ha spiegato a Critone, “dopo
aver predicato per tutta la vita il rispetto delle leggi, ora fuggire solo
perché mi condannano? Se le leggi sono ingiuste, bisogna cambiarle, non
violarle. E se Atene mi condanna a morte, accetterò la sua sentenza, per quanto
ingiusta possa essere”.
Questa è la vera lezione che Socrate ci
lascia: che i principi non sono negoziabili, che la verità vale più della vita
stessa, e che la coerenza è l'unica forma di immortalità a cui un uomo possa
aspirare.
I suoi discepoli sono disperati. Il
giovane Platone, in particolare, non si dà pace. Ho sentito dire che sta già
scrivendo un resoconto di questo processo, e conoscendolo, ne farà un
capolavoro. Ma dubito che riuscirà a rendere giustizia all'ironia socratica, a
quel modo unico che il vecchio aveva di smontare le certezze degli altri senza
mai proporne di proprie.
E così Atene si prepara a uccidere il suo
cittadino più saggio, l'unico che ha avuto il coraggio di dire ai suoi
concittadini che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta. Lo
farà legalmente, democraticamente, con tutti i crismi della giustizia. Gli darà
anche una morte dolce, con la cicuta, come si conviene a un cittadino
rispettabile. Ma resta il fatto che sta per uccidere un uomo la cui unica colpa
è stata quella di pensare troppo e di invitare gli altri a fare altrettanto.
Qualcuno dirà che Socrate se l'è cercata,
che poteva essere più diplomatico, che poteva fare come tutti gli altri
filosofi: insegnare, prendere soldi, e tenere la bocca chiusa sulle questioni
scomode. Ma non sarebbe stato Socrate. E forse è proprio questo che non gli
hanno perdonato: il fatto di essere rimasto se stesso fino alla fine, in un
mondo dove tutti sono pronti a cambiare idea secondo la convenienza del
momento.
Tra qualche giorno, quando berrà la
cicuta, Atene perderà non solo il suo cittadino più saggio, ma anche la sua
coscienza critica. E temo che se ne accorgerà troppo tardi. Ma questa è Atene,
amici miei. La città dove la democrazia può trasformarsi in tirannia della
maggioranza, dove la giustizia può diventare vendetta legalizzata, e dove un
vecchio che ha dedicato la vita alla ricerca della verità può essere condannato
a morte per aver fatto pensare troppo i giovani.
Non è un bel giorno per Atene. Ma forse è
proprio questo che il vecchio Socrate voleva dimostrarci: che la democrazia,
senza saggezza e coraggio, può diventare peggiore della tirannia. E che la
verità, anche quando costa la vita, vale sempre la pena di essere cercata.
Un'ultima nota: mentre uscivo dal
tribunale, ho incrociato Meleto che festeggiava con i suoi amici. Sorrideva, il
mascalzone, come sorridono i mediocri quando riescono a eliminare chi li fa sentire
piccoli. Ma ho come l'impressione che il sorriso gli durerà poco. Perché
Socrate morirà, ma le sue domande continueranno a tormentare le coscienze di
Atene per molto, molto tempo ancora.
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