«Non v'è peggior disgrazia che
nascere in Sicilia», scrisse Leonardo Sciascia. Un'affermazione che sembra
esagerata, ma che chiunque abbia avuto l'opportunità – o la sfortuna – di
vivere in quest'isola, può comprendere. La Sicilia è un teatro in cui si svolge
un dramma perpetuo: quello di una terra che non riesce mai a liberarsi dalle
proprie catene, invisibili ma ferree, imposte dalla storia, dalla geografia, e,
soprattutto, dalla mentalità.
La Sicilia come
metafora della condanna
Per molti, la Sicilia è la terra del
sole, del mare e delle arance. Per chi ci vive, invece, è spesso un inferno di
contraddizioni. Il filosofo Friedrich Nietzsche, che visitò l'isola, descrisse
il sud Italia come «un meraviglioso tramonto, una civiltà in decadenza». Se il
meridione è un crepuscolo, la Sicilia è l'ombra più lunga, un luogo dove la
decadenza non è solo culturale, ma morale e civile.
Tomasi di Lampedusa, nel suo celebre Il
Gattopardo, fece pronunciare al principe di Salina una frase emblematica
continuamente citata quando si parla dell’Isola: «Se vogliamo che tutto rimanga
com'è, bisogna che tutto cambi». Questa mentalità statica, questa resistenza al
cambiamento, è uno dei drammi siciliani più profondi. La rassegnazione che si
cela dietro l’inevitabilità del destino è una catena che lega la popolazione a
una storia di miseria, clientelismo e oppressione.
La religione e il
fatalismo siciliano
Sciascia, con il suo feroce sguardo
critico, osservava che la Sicilia è terra di santi e di mafia, e che l’uno
spesso cammina a braccetto con l’altra. La Chiesa cattolica, in una società
tanto permeata dalla religione, non ha sempre rappresentato un faro di
redenzione, ma ha talvolta contribuito a rafforzare un sistema di potere
fondato sul clientelismo e sul silenzio. Come osservò il teologo Hans Küng, «la
religione può essere la radice tanto del male quanto del bene», e in Sicilia,
troppo spesso, è stata strumento per giustificare l’oppressione e la sottomissione.
Basta camminare per le vie di Palermo
o Catania per percepire l’intreccio tra sacro e profano: chiese maestose
affiancate da palazzi in rovina, processioni religiose in onore di santi che
benedicono i boss locali. Quello che Sciascia chiamava il “consociativismo
mafioso” si è infiltrato persino nei luoghi più sacri, rendendo la fede un
paravento dietro cui si nasconde un sistema di potere opaco e inossidabile.
Il peso della
storia: tra mito e realtà
Lo storico siciliano Rosario Romeo
osservò che «la Sicilia è sempre stata considerata come un’isola ai margini
della civiltà europea». Una definizione che sembra confermare l'idea di
Sciascia secondo cui il siciliano, più che vivere, sopravvive. «Il siciliano
non cerca la felicità, perché sa che non esiste», scriveva Sciascia. Questo
atteggiamento fatalista ha radici profonde: da una parte l'oppressione dei
dominatori stranieri (arabi, normanni, spagnoli, borboni), dall'altra
l'inadeguatezza della classe politica locale, incapace di emanciparsi da quella
“colonizzazione interna” descritta da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal
carcere.
Anche lo scrittore Luigi Pirandello,
originario di Agrigento, esprimeva un concetto simile: «Là dove si vorrebbe
vedere verità, c’è maschera; là dove si cerca autenticità, si trova finzione».
La Sicilia è, per lui, la patria dell'inganno, dove la realtà è perennemente
filtrata attraverso un velo di convenzioni e bugie. Questo gioco di maschere,
questa incapacità di vivere autenticamente, è forse il più grande lascito
dell’isola ai suoi figli.
La speranza nella
fuga: emigrare per non morire
«Fuggire, partire, andar via – questa
è stata sempre la vera utopia del siciliano», scriveva Gesualdo Bufalino, altro
grande interprete della malinconia isolana. La Sicilia è una prigione dorata
per chi vi nasce, e molti trovano salvezza solo lasciandola alle spalle.
Tuttavia, anche l’emigrazione porta con sé un carico di dolore. «Si fugge da
una prigione per entrare in un'altra», osservava lo scrittore. Chi emigra non
trova sempre una vita migliore, ma spesso una nuova forma di alienazione.
Il filosofo Jean-Paul Sartre,
visitando la Sicilia, la descrisse come un’isola in cui «la vita è prigionia, e
la libertà è un miraggio». Questo senso di imprigionamento esistenziale è forse
l’aspetto più tragico della sicilianità. Non si fugge mai davvero dalla
Sicilia, nemmeno lasciandola fisicamente. È una terra che rimane dentro, un
nodo che non si scioglie.
La cultura della
rassegnazione
Nonostante i suoi limiti, la Sicilia
ha prodotto alcune delle menti più brillanti della cultura italiana. Sciascia,
Pirandello, Verga, Quasimodo: tutti accomunati da una visione amara
dell’esistenza, da un senso di rassegnazione che sembra inscritto nel DNA
dell’isola. «La nostra è una cultura di sconfitti», ammetteva Sciascia. Una
cultura che ha saputo trasformare il dolore in arte, ma che non ha mai saputo
liberarsi dal giogo della sottomissione.
Come disse il filosofo
esistenzialista Albert Camus, «in Sicilia, si scopre che il sole può uccidere
tanto quanto la miseria». E questo sole, questa luce implacabile, è il simbolo
di una condizione esistenziale che schiaccia i siciliani sotto il peso della
storia, della tradizione, e della loro stessa terra.
Un destino ineluttabile?
La disgrazia di nascere in Sicilia
non è una condanna alla sofferenza, ma un invito alla consapevolezza. Chi nasce
in Sicilia eredita
una storia complessa, fatta di
grandezza e miseria, di bellezza e corruzione. Come scrisse Ignazio Buttitta,
poeta siciliano: «Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua,
ereditata dai padri: è perso per sempre». E forse è proprio nella lotta per
conservare la propria identità, al di là delle imposizioni esterne e interne,
che risiede la sfida più grande per chi nasce in questa terra.
Non è necessario fuggire per essere
liberi, ma è necessario, come suggeriva Pirandello, guardarsi allo specchio e
riconoscere le proprie maschere. Solo così si potrà sperare in un futuro
diverso, in cui la Sicilia non sia più una disgrazia, ma una possibilità di
rinascita.
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