di Francesca Sibani, giornalista di
Internazionale
Dal 7 aprile i ruandesi
ricorderanno il genocidio di trent’anni fa con una settimana di eventi
commemorativi, a partire dalla visita del presidente Paul Kagame al memoriale
del genocidio di Kigali, costruito sulle fosse comuni in cui furono seppellite
250mila vittime dei massacri. Seguirà una settimana di lutto nazionale, con le
bandiere a mezz’asta, processioni, trasmissioni tv dedicate essenzialmente a
film sul genocidio, racconta il sito Okayafrica.
Si stima che nel genocidio dei
tutsi e degli hutu moderati, durato circa cento giorni, siano state uccise tra
le 800mila e il milione di persone. Ancora oggi si continuano a trovare fosse
comuni che erano state ben nascoste, come quella rinvenuta lo scorso ottobre
nel distretto di Huye, con dentro 119 corpi.
Mai come quest’anno il passato
sembra tutt’altro che sepolto, non solo per i ruandesi, ma anche per il resto
del mondo. La parola “genocidio” (cos’è, come si annuncia, come prevenirlo) è
tornata al centro del dibattito pubblico. Da Gaza al Sudan, infatti, il numero
delle uccisioni di massa registrate è il più alto degli ultimi vent’anni,
scrive l’Economist.
Molti tornano a guardare
indietro, ad analizzare ancora una volta gli errori commessi per capire perché
non si siano imparate le lezioni del passato. In un articolo intitolato “Perché
l’occidente si rifiutò di fermare il genocidio ruandese”, Roméo Dallaire, che
nel 1994 era il comandante della missione dei caschi blu Unamir in Ruanda,
torna sulle accuse che dalla prima ora aveva rivolto alle Nazioni Unite e alle
potenze mondiali. Sul magazine canadese The Walrus scrive che “per la maggior
parte degli osservatori esterni, l’Africa era teatro di crisi sociali ed
economiche generalizzate, accentuate da carestie, guerre civili e atrocità di
massa. I paesi occidentali consideravano l’Africa un continente da compatire,
non una fonte di potenziale; di certo non era una priorità”. Difficile
sostenere che oggi l’Africa sia vista in modo molto diverso.
Dallaire bacchetta anche
l’incapacità dell’Onu di intervenire. Solo dopo sei settimane e cinquecentomila
morti, il consiglio di sicurezza approvò l’invio di cinquemila caschi blu di
rinforzo per fermare quello che si era deciso a considerare un genocidio. Ma le
prime truppe misero piede in Ruanda solo ad agosto, dopo la fine dei massacri.
Inoltre, anche allora la comunità
internazionale dimostrò di applicare due pesi e due misure a seconda del colore
della pelle delle vittime, sostiene Dallaire, secondo il quale ci si mobilitò
con più decisione per l’ex Jugoslavia che per il Ruanda, dove “furono stuprate,
uccise e sfollate più persone in tre mesi che in quattro anni di guerra in
Bosnia”.
“Un genocidio dovrebbe essere
importante. Dovremmo preoccuparci. Ma nessuna nazione volle investire le
risorse per fermare il bagno di sangue. A quanto pare, alcuni esseri umani non
sono degni delle protezioni offerte dalle convenzioni sui diritti umani
elaborate dai paesi ricchi, che invece dovrebbero essere applicate
universalmente”, conclude Dallaire.
La parola “genocidio” appare
molte volte anche nelle lettere, negli appelli e negli articoli scritti in
quegli anni dalla ricercatrice e attivista statunitense Alison De Forges, che
era la referente dell’ong Human rights watch in Africa. De Forges era in
contatto costante con persone sul campo in Ruanda e cercò di far capire al
resto del mondo che si stava preparando un disastro.
Di recente l’organizzazione in
difesa dei diritti umani ha pubblicato un archivio di materiali sul genocidio
in Ruanda, molti dei quali raccolti e prodotti dalla ricercatrice. Hrw insiste
sul tema della responsabilità e della giustizia: “Il trentesimo anniversario
del genocidio ruandese è il momento opportuno per fare il punto sui progressi
compiuti, a livello sia nazionale sia internazionale, nel chiamare a rispondere
le persone sospettate di aver pianificato, ordinato ed eseguito le atrocità. È
urgente accelerare questi sforzi visto che alcune delle menti dietro il
genocidio non ci sono più e uno – Félicien Kabuga, finanziatore della
famigerata radio Mille Collines – è stato dichiarato non idoneo a sostenere un
processo”.
C’è infine un altro motivo per cui non possiamo considerare storia passata il genocidio del Ruanda: quell’evento ha innescato un conflitto enorme che continua ancora oggi nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Secondo il ricercatore Christoph Vogel, questa crisi “sta entrando nel quarto e forse più pericoloso decennio, con il forte rischio di un’escalation regionale.
Il conflitto, che attualmente
coinvolge un centinaio di gruppi armati diversi, ha causato milioni di morti e
sfollati nel corso degli anni. Dal 2021 è entrato in una nuova fase, segnata
dal ritorno dei ribelli del Movimento 23 marzo (M23, che secondo il governo
congolese e alcuni rapporti dell’Onu sono sostenuti da Kigali). Compagnie di
sicurezza private e stati confinanti si sono uniti alla mischia e la vasta
gamma di combattenti si è divisa su due fronti ben definiti: uno allineato con
Kinshasa, l’altro con l’M23. La situazione deteriora di giorno in giorno e le
prospettive di pace sono più lontane che mai”.
Questo testo è tratto della newsletter Africana.
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