“Il miracolo ecumenico di san Francesco. Come il Poverello d'Assisi riuscì nell'impresa che non era riuscita nemmeno alla diplomazia vaticana” di Davide Romano
Se c'è una cosa che mi ha sempre colpito, nella mia ormai lunga carriera di
cronista delle cose umane e divine, è la capacità di Francesco d'Assisi di
mettere d'accordo tutti. Tutti, persino quelli che si scannano da secoli sui
dogmi, sulla grazia, sulla transustanziazione e su altre diavolerie teologiche
che farebbero impallidire i sofisti della Grecia antica.
Eppure il fatto è sotto gli occhi di tutti: mentre i diplomatici vaticani
si industriano da cinquecento anni per ricucire le ferite della Riforma,
Francesco ci è riuscito da solo. Morto. E senza nemmeno volerlo, se è per
questo. È il miracolo dell'ecumenismo francescano, che forse vale più di tutte
le encicliche e i documenti conciliari messi insieme.
L'eredità
che non si divide
Quando Francesco spirò, nel 1226, sulla nuda terra della Porziuncola, non
immaginava certo che la sua eredità spirituale sarebbe stata rivendicata,
ottocento anni dopo, da anglicani, luterani, ortodossi e perfino da qualche
presbiteriano particolarmente ardito. Eppure è andata proprio così.
Come scriveva Chesterton: "San Francesco è l'unico santo che tutti
i cristiani rivendicano come proprio". E aveva ragione, il vecchio
Gilbert. Perché mentre sant'Agostino divide (è troppo intellettuale per i
semplici, troppo complicato per i pratici), san Benedetto classifica (è il
santo dell'ordine, non della spontaneità) e san Tommaso argomenta (ma non tutti
amano le argomentazioni), Francesco unisce. È il santo dell'evidenza.
L'evidenza di cosa? Che il Vangelo si può vivere, non solo predicare. Che
la povertà è libertà, non privazione. Che l'amore per il creato non è panteismo,
ma riconoscenza. Verità talmente semplici che persino un vescovo anglicano e un
pastore luterano possono trovarsi d'accordo. Miracolo dei miracoli.
Il
protestantesimo riscopre la vita religiosa
Bisogna dire che ci volle del tempo. La Riforma, si sa, era partita con il
piede sbagliato riguardo alla vita religiosa. Lutero aveva sposato una monaca,
Calvino aveva chiuso i conventi, Enrico VIII aveva fatto razzia dei monasteri.
Il matrimonio dei preti, l'abolizione dei voti, il rifiuto della vita consacrata:
sembrava che il protestantesimo avesse chiuso per sempre con l'eredità
monastica.
E invece no. Come spesso accade nella storia, quello che si butta dalla
porta rientra dalla finestra. Nel XIX secolo, in pieno revival gotico e
romantico, gli anglicani riscoprirono il fascino della vita religiosa. E
indovinate chi fu il primo santo a tornare in auge? Proprio lui, Francesco.
La Community of St Francis (CSF) fu fondata nel 1905, seguita nel 1919
dall'Order of St Francis (poi diventato Society of Saint Francis) negli Stati
Uniti. Un ritorno alle origini che fece storcere il naso ai puritani, ma
entusiasmò i seguaci del movimento di Oxford.
Il fenomeno si allargò. I luterani fondarono il loro Order of Lutheran
Franciscans, mentre in Svezia nacque il Franciskus Tredje Orden. Persino le
Chiese Riformate e la Chiesa Vetero-cattolica ebbero le loro comunità
francescane.
I numeri di
un successo
Oggi, la Society of St Francis nella Comunione Anglicana conta circa 3.000
membri nei suoi ordini costitutivi. Non sono moltissimi, certo, ma sono
significativi. Soprattutto se si pensa che rappresentano la rinascita di una
tradizione che il protestantesimo aveva teoricamente rigettato.
La Society of St Francis comprende i Fratelli del Primo Ordine, le Sorelle
del Primo Ordine (CSF), le Sorelle del Secondo Ordine (OSC) e un Terz'Ordine.
Una struttura che ricalca fedelmente quella cattolica, segno che certe
intuizioni di Francesco erano davvero universali.
Ma i numeri, si sa, non dicono tutto. Quello che colpisce è la distribuzione
geografica: dall'America all'Europa, dall'Australia al Sud Africa, i
francescani anglicani hanno creato una rete mondiale che attraversa continenti
e culture. Come i loro confratelli cattolici, ma con una libertà di movimento
che spesso quelli non hanno.
Il
Terz'Ordine: la vera rivoluzione
Se c'è un'intuizione di Francesco che ha davvero rivoluzionato il
cristianesimo ecumenico, è quella del Terz'Ordine. Cattolici, luterani e
anglicani riconoscono tutti gli ordini terzi, e questo non è un caso.
I Terziari, dal latino tertiarius relativo al "terzo", sono
coloro che vivono secondo la Regola del Terz'Ordine, sia all'interno che
all'esterno di una comunità religiosa. In pratica, sono laici che vivono da
religiosi pur rimanendo nel mondo. Un'idea geniale, che permette di aggirare
tutte le obiezioni protestanti sul celibato, la clausura, il distacco dal
mondo.
Il Third Order of the Society of St Francis è un ordine religioso
anglicano/episcopaliano per persone di ogni tipo - single e in relazioni
stabili, laici e ordinati - che vivono secondo i principi francescani "nel
mondo". È l'ordine fondato da Francesco stesso per coloro che erano
attratti dalla sua strada ma si sentivano chiamati a viverla dove erano.
Geniale, no? Francesco aveva capito, già nel XIII secolo, quello che
l'ecumenismo moderno ha riscoperto solo da poco: che l'unità non sta
nell'uniformità, ma nella comunione. Non serve che tutti facciano le stesse
cose nello stesso modo; basta che tutti cerchino la stessa cosa con lo stesso
cuore.
L'ecumenismo
dal basso
Quello che più mi ha convinto, studiando questo fenomeno, è che
l'ecumenismo francescano non nasce dai vertici. Non è il frutto di commissioni
teologiche, dialoghi ufficiali, documenti congiunti. Nasce dal basso, dalla
gente comune che si ritrova attorno alla figura di Francesco senza badare alle
etichette confessionali.
Esistono i Secular Franciscans cattolici (OFS), l'Order of Ecumenical
Franciscans (OEF) e l'Order of Lutheran Franciscans (OLF), ognuno con le sue
caratteristiche ma tutti accomunati dalla stessa ispirazione. È un ecumenismo
pratico, non teorico. Un ecumenismo che funziona perché non si perde nelle
distinzioni dottrinali ma va dritto al cuore del problema: come vivere da
cristiani nel XXI secolo.
E la risposta, per tutti questi francescani di varie confessioni, è la
stessa: seguendo l'esempio di Francesco. Povertà, semplicità, amore per la
creazione, servizio ai poveri. Principi così elementari che persino un teologo
ci può arrivare.
Le
differenze che restano
Non voglio dipingere un quadro troppo idilliaco. Le differenze teologiche
restano, eccome. I francescani anglicani vivono sotto i voti di povertà,
castità e obbedienza esattamente come quelli cattolici, ma la loro comprensione
dell'autorità, dei sacramenti, della successione apostolica resta quella
anglicana.
I luterani hanno un approccio ancora diverso, più centrato sulla
giustificazione per fede che sulla imitatio Christi. Gli ortodossi, quando ci
sono (e ci sono, anche se in numero limitato), portano con sé tutta la tradizione
orientale dell'esicasmo e della teologia apofatica.
Ma qui sta il bello: Francesco è abbastanza grande per contenere tutti
questi approcci. Come diceva Tommaso da Celano, il primo biografo del santo: "Francesco
era tutto a tutti, per guadagnare tutti a Cristo". Una formula che
potrebbe essere il motto dell'ecumenismo moderno.
Il caso dei
Poveri di Lione
C'è un episodio che mi ha sempre colpito, e che spiega meglio di ogni
dissertazione teologica il fenomeno di cui stiamo parlando. Nel 1209, Francesco
si presentò dal Papa per avere l'approvazione della sua Regola. Innocenzo III
era perplesso: questo giovane umbro gli ricordava troppo Valdo di Lione, il
mercante che mezzo secolo prima aveva fondato un movimento di povertà
evangelica poi finito nell'eresia.
La differenza era sottile ma decisiva: Valdo contestava l'autorità della
Chiesa, Francesco la riconosceva. Valdo predicava contro il clero corrotto,
Francesco si limitava a dare l'esempio. Valdo fondò una chiesa parallela,
Francesco rimase dentro quella ufficiale.
Oggi, otto secoli dopo, i Valdesi sono una piccola chiesa protestante di
qualche decina di migliaia di fedeli, rispettabile ma marginale. Francesco è
rivendicato da cattolici, anglicani, luterani, ortodossi, metodisti e perfino
da qualche battista. La lezione è chiara: l'unità si costruisce dal centro, non
dalle periferie. Dall'ortodossia, non dall'eterodossia.
La
spiritualità che non divide
Ma qual è il segreto di questa capacità unificante di Francesco? Provo a
dare una spiegazione, da cronista che ha visto tante divisioni e poche
riconciliazioni.
Francesco non era un teologo. Non ha scritto trattati, non ha fondato
scuole di pensiero, non ha teorizzato sui massimi sistemi. Era un mistico, cioè
uno che aveva sperimentato in prima persona l'incontro con Dio. E l'esperienza
mistica, per sua natura, tende a unire più che a dividere.
La sua spiritualità è elementare: ama Dio, ama il prossimo, rispetta la
creazione. Principi che si trovano in tutte le confessioni cristiane, dal Credo
di Nicea al Piccolo Catechismo di Lutero. Non c'è bisogno di essere cattolici
per capire che la povertà è più evangelica della ricchezza, che l'umiltà è più
cristiana della superbia, che la pace è meglio della guerra.
L'eredità
contemporanea
Oggi, nell'era del riscaldamento globale e della crisi ambientale,
Francesco è più attuale che mai. La sua Lauda delle Creature suona profetica
alle orecchie di ambientalisti di ogni fede e di nessuna fede. Il Third Order
of the Society of St Francis si presenta come "una comunità dal cuore
contemplativo che persegue la giustizia, la pace e l'amorevole cura del
creato". Parole che potrebbero essere sottoscritte da Greta Thunberg come
dal Patriarca Ecumenico di Costantinopoli.
È qui che si vede la genialità profetica di Francesco: aveva capito, già
nel Duecento, che il cristianesimo del futuro sarebbe stato ecologico o non
sarebbe stato affatto. Che la riconciliazione con Dio passa attraverso la
riconciliazione con la natura. Che si può essere mistici senza essere
misantropi, contemplativi senza essere disimpegnati.
Il
paradosso dell'istituzionalizzazione
C'è però un paradosso in tutta questa storia, che non posso ignorare.
Francesco era il santo della spontaneità, dell'improvvisazione, del "sine
glossa" (senza interpretazioni) applicato al Vangelo. Era allergico alle
regole troppo precise, alle gerarchie troppo rigide, alle istituzioni troppo
strutturate.
Eppure la sua eredità è stata raccolta proprio dalle istituzioni: dalla
Chiesa cattolica prima, dalle Chiese anglicana e luterana poi. È stato
inquadrato in ordini, sottordini, province, capitoli generali, costituzioni,
regole particolari. Tutto quello che lui, probabilmente, avrebbe detestato.
Ma forse anche questo fa parte del miracolo francescano. Come scriveva
Reinhold Niebuhr: "Il paradosso della grazia è che trasforma persino le
istituzioni che dovrebbero soffocarla". Francesco è riuscito a
rimanere Francesco pur diventando istituzione. È riuscito a mantenere la
freschezza del Vangelo pur entrando nel sistema.
Le
prospettive future
Dove va l'ecumenismo francescano? È una domanda che mi pongo spesso,
vedendo le Chiese cristiane sempre più divise su questioni morali, sempre più
arroccate nelle loro identità confessionali, sempre più lontane da quella
koinonia primitiva che era il sogno di Gesù.
La risposta, forse, sta proprio nell'esempio francescano. L'unità non si fa
attraverso i compromessi dottrinali - quelli dividono più che unire. Si fa
attraverso la testimonianza comune. Attraverso l'amore condiviso per i poveri,
la pace, la creazione. Attraverso la scoperta che quello che ci unisce è più
importante di quello che ci divide.
I tremila francescani della Comunione Anglicana sono pochi, rispetto al
miliardo e mezzo di cristiani nel mondo. Ma sono significativi. Sono il segno
che l'ecumenismo è possibile, quando si parte dalle cose giuste. Quando si
parte dalla santità invece che dalla dottrina. Dall'amore invece che dalla
logica.
Il santo
che non sapeva di essere ecumenico
Francesco, ovviamente, non sapeva di essere ecumenico. Il termine stesso
sarebbe stato inventato settecento anni dopo la sua morte. Lui pensava
semplicemente di essere cristiano. Di vivere il Vangelo sine glossa, senza
troppe interpretazioni, senza troppi distinguo.
Ma forse è proprio questo il segreto del suo successo ecumenico. Non è
partito dall'idea di mettere d'accordo tutti - sarebbe stata una presunzione
che non gli apparteneva. È partito dall'idea di piacere a Dio. E siccome Dio,
evidentemente, piace a tutti i cristiani, Francesco è finito per piacere a
tutti i cristiani.
È la lezione che dovrebbero imparare tutti gli ecumenisti di professione,
sempre impegnati a limare le differenze dottrinali invece di sottolineare le
convergenze spirituali. L'ecumenismo non si fa con i documenti, si fa con i
santi. Non si costruisce sui tavoli delle trattative, si vive nei chiostri
della contemplazione e nelle strade del servizio.
Francesco l'aveva capito, senza saperlo. Per questo, ottocento anni dopo, è
ancora l'unico santo che mette d'accordo tutti. L'unico cristiano che tutti i
cristiani possono chiamare fratello, senza dover specificare di quale
confessione. Il miracolo dell'ecumenismo francescano è tutto qui: nell'essere
riuscito a rimanere semplicemente cristiano, in un mondo che aveva dimenticato
cosa significasse quella parola.
E forse, in fondo, è questo quello di cui abbiamo bisogno: non di meno
divisioni teologiche, ma di più santi. Non di più documenti ecumenici, ma di
più Francesco d'Assisi. Perché i santi, a differenza dei teologi, sono sempre
ecumenici. Non per scelta, ma per natura.
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