Il sole arriva presto, a Palermo. Non chiede il
permesso. Passa dai balconi, colpisce i muri scrostati, picchia sulle lamiere
parcheggiate in salita. S’infila nelle fessure dei vicoli come un ladro, ma con
la prepotenza di un re. Chi dorme male si sveglia peggio. Chi non ha dormito
affatto, tira avanti. Nessuno si lamenta. Palermo ha imparato a ingoiare il
caldo come si beve l’acqua del rubinetto: sporca, ma necessaria.
È estate. Le panchine di marmo sono vuote fino
al tramonto. I vecchi giocano a carte all’ombra dei ficus. I ragazzini urlano
in dialetto stretto, troppo veloce per i turisti. Si tuffano dal molo come se
il mare fosse ancora loro. Ma non lo è. Il mare cambia padrone ogni giorno. Le
barche bianche lo dividono a fette, le navi lo solcano senza salutare. E
intanto i pescatori rimasti — quelli veri — tengono in mano più sigarette che
pesci.
Alle nove, in Piazza Pretoria, i primi gruppi
si mettono in fila. La guida parla di fontane e peccato, ride, si asciuga la
fronte con un fazzoletto. Non guarda mai in alto. Nessuno guarda mai in alto
d’estate, a Palermo. Il cielo acceca. È un occhio enorme che ti giudica, senza
dire nulla.
Io cammino. Porto i sandali. Il marciapiede mi
brucia sotto i piedi. Passo davanti a un forno chiuso, poi a una chiesa aperta.
Entro. Dentro è buio e fresco. La pietra è umida. Le candele odorano di fede e
di cera. Una donna piange nel primo banco. Un uomo dorme nell’ultimo. Un
crocifisso li guarda entrambi.
Fuori, il mercato balla. Il Capo, Ballarò, la
Vucciria. I nomi sembrano canzoni. Il sudore sa di cipolla e basilico. La carne
appesa, il pesce che respira a fatica, la frutta lucida come plastica. Le urla
sono teatro. Nessuno vende, tutti recitano. “Signora, le metto anche il
prezzemolo”. Sembra che nessuno lo voglia davvero, il prezzemolo. È solo un
gesto. Un’estensione della voce.
Nel pomeriggio la città si siede. È l’ora del
silenzio. Palermo non dorme: resiste. I ventilatori gracchiano, le persiane
tremano. Rombano sordi i motori dell’aria condizionata. Si aspetta. Si beve caffè
freddo o una limonata. I pochi turisti che camminano sono persi. Nessuna mappa
tiene il passo della luce. Il tempo evapora.
Mi fermo in un bar. Il ragazzo dietro il
bancone ha diciotto anni. Mi serve una granita al caffè con panna. Sorride poco.
Lavora troppo. Il padrone lo guarda da dietro, in piedi, con la sigaretta
spenta in bocca. È un'estate di apprendistato e sudore.
Poi la sera si avvicina. Lo capisci dal vento,
non dal cielo. L’aria cambia direzione. Le luci dei lampioni si accendono un
secondo prima che serva. La gente esce. Palermo cammina di notte, più che di
giorno. Si veste bene, anche per poco. Si siede ai tavolini, si abbraccia,
ride, litiga, canta. I motorini passano senza targa. I cani si accucciano
accanto ai mendicanti. I gatti si infilano tra i tavoli. Qualcuno legge le
carte. Qualcun altro le ha già giocate tutte.
In Piazza Marina, le radici dei ficus sono più
larghe delle gambe degli uomini. Sembrano dita antiche che tengono la terra
ferma. Le luci dei locali si riflettono sui bicchieri. Si parla di politica, di
Dio, di calcio. Nessuno ha davvero ragione, ma tutti parlano con passione.
Palermo ascolta e non risponde.
Verso mezzanotte la città si confessa. I
vicoli puzzano di birra e piscio. Le chiese restano mute. I santi dormono. I
balconi si aprono. Qualcuno fuma. Qualcuno prega. Qualcuno aspetta. Palermo è
fatta di attese.
Io mi perdo per il Cassaro. Passo davanti a
una libreria chiusa, un teatro abbandonato, una bottega di articoli sacri,
paccottiglia in vetrina. Una donna canta in napoletano, dietro una finestra. Il
marito ascolta, seduto su una sedia di plastica. Non dice niente. Tiene il
tempo con il piede.
Quando rientro a casa, le voci si dissolvono
nel silenzio, come se la notte le inghiottisse una ad una. I muri sudano. La
notte è un’illusione di pace. Ma anche questo è Palermo. Una città che non si
riposa, perché non ha mai avuto un giorno intero per sé. Una città che ti
guarda da sotto in su, perché da sopra la guardano tutti. Ma chi ci vive sa che
la verità è a livello della strada. Nella polvere, nei semini dei gelsi, nel
chiacchiericcio dei balconi, nei sogni sfiancati che resistono anche oggi.
Un’estate palermitana non si racconta. Si beve
a piccoli sorsi. Si respira a pieni polmoni. Si sopporta, e se si è fortunati,
si ama.
Commenti
Posta un commento