“Palermo, la città che non si racconta. A proposito di una Palermo che forse non esiste” di Davide Romano
Dicono che Palermo sia antica. Ma l'antichità presuppone una storia, e Palermo ha invece una condizione: quella di essere eternamente presente a se stessa, come certi malati cronici che hanno dimenticato di essere mai stati sani. Non è decadenza, quella che si vede camminando per le sue strade - la decadenza implica un "prima" migliore. È piuttosto una forma di esistenza parallela al tempo, un modo di abitare il mondo che non prevede né progresso né regresso, ma solo durata.
Il venditore di pesce ai Quattro Canti - quelli che un tempo rappresentavano le quattro stagioni e ora rappresentano solo quattro angoli di traffico - non mente quando dice che il pesce è fresco. Mente per professione, che è cosa diversa. È il mestiere che glielo impone, come al politico di promettere, al prete di assolvere, al poliziotto di non vedere. Ognuno recita la sua parte in una commedia che tutti conoscono a memoria, ma di cui nessuno ricorda più l'autore.
Al mercato di Ballarò ho visto una scena che Borgese avrebbe chiamato "eternamente siciliana": un turista che fotografava un capretto appeso, mentre il macellaio lo guardava con quella espressione che sta tra il disprezzo e la pietà, e che i siciliani riservano a chi non capisce che certe cose non si fotografano, si vivono o si subiscono. Il turista credeva di immortalare il "folklore", il macellaio sapeva di essere immortalato come "folkloristico". Entrambi avevano torto, entrambi avevano ragione.
Mi sono fermato a bere caffè in un bar dove il proprietario aveva l'aria di chi sa qualcosa che tu non sai, e non te lo dirà mai. È l'espressione tipica del siciliano davanti al forestiero: una cortesia impenetrabile, una disponibilità che è anche una distanza. Il caffè era amaro come dev'essere il caffè, e lui non ha sorriso perché i sorrisi gratuiti sono una forma di spreco che qui non ci si può permettere.
Nella cattedrale, tra le tombe dei re e l'oro dei mosaici, una donna pregava con l'intensità di chi sa che Dio ascolta solo le preghiere disperate. Palermo è piena di questo tipo di fede: non quella dei beati, ma quella di chi ha ancora conti aperti con la Provvidenza. È una religiosità pratica, quasi commerciale. Do ut des. Ma siccome Dio paga sempre in ritardo, la città ha imparato a arrangiarsi.
Il teatro dei pupi mi ha fatto pensare a Pirandello. Anche qui la vita imita l'arte: i paladini di Francia che combattono i Saraceni sono la metafora perfetta di una Sicilia che combatte sempre contro qualcuno, senza mai vincere del tutto né perdere completamente. I bambini che guardano lo spettacolo sanno già come andrà a finire, ma guardano lo stesso. Come gli elettori che votano sapendo già chi vincerà, come i tifosi che vanno allo stadio sapendo già che la squadra perderà.
Ho pranzato in una trattoria dove il proprietario mi ha servito pasta con le sarde spiegandomi che la ricetta era della nonna, morta nel '43 durante il bombardamento. Ogni piatto tipico a Palermo ha la sua brava storia di guerra, di fame, di morte. Non è nostalgia, è archeologia del palato. Si mangia il passato, letteralmente.
Nel pomeriggio, quando il caldo trasforma la città in un set di Antonioni, ho capito perché Tomasi di Lampedusa scriveva di notte. Il sole siciliano non è quello di una cartolina: è un'entità fisica che modifica i comportamenti, rallenta i pensieri, impone ritmi che la modernità non contempla. I turisti si aggirano come fantasmi, i palermitani si barricano in casa. È una tregua quotidiana tra l'uomo e il clima.
Alla Cala i pescatori riparano le reti con gesti che vengono dal Neolitico. Ma i loro figli studiano informatica e sognano Milano. È il dramma delle tradizioni: sopravvivono solo finché qualcuno accetta di sacrificarsi per mantenerle vive. I figli se ne vanno non per tradire il padre, ma per non tradire se stessi. È una forma di pietà filiale al contrario.
La sera, nei vicoli della Kalsa, ho visto ragazzi giocare a calcio contro un muro su cui era scritto "Vietato giocare a pallone". Il muro era del Settecento, il divieto degli anni Novanta, i ragazzi di oggi. Tre temporalità che convivono senza conflitto, perché a Palermo tutto è contemporaneo: la storia, la cronaca, l'eternità.
Sul lungomare le coppie passeggiano senza guardare il mare. È giusto così: quando si ha l'infinito sotto casa, non lo si contempla, lo si ignora. È il privilegio di chi nasce dove gli altri vengono in vacanza: poter essere indifferenti alla bellezza.
Monte Pellegrino, che D'Annunzio chiamò "il promontorio più bello del mondo", veglia sulla città con la pazienza dei santi e l'indifferenza dei ministri. Santa Rosalia, che protegge dalla peste, non può nulla contro la burocrazia. I miracoli hanno i loro limiti.
La notte palermitana è un fenomeno antropologico: la città si svuota di giorno e si riempie di notte, come se esistessero due popolazioni distinte che si danno il cambio. È l'unico momento in cui Palermo assomiglia a una città normale, e forse per questo i palermitani la amano.
Al mattino, davanti a un cannolo che era perfetto come dev'essere un cannolo (la ricotta fredda, la scorza calda, la coscienza pulita), ho pensato che Palermo non è una città da capire. È una città da abitare o da lasciare. Chi cerca di capirla è già perduto. Chi la accetta così com'è, forse ha una possibilità.
Il venditore di pesce ai Quattro Canti era sempre lì, con le sue mani nodose e i suoi pesci non freschissimi. Mi ha guardato come si guarda un cliente abituale, anche se era la seconda volta che lo vedevo. È il tempo siciliano: non lineare ma circolare, dove tutto torna sempre e niente è mai uguale.
Domani sarà uguale e diverso. Come sempre, a Palermo.
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