Giancarlo Siani |
Talvolta mi chiedono chi siano i miei santi, le figure a cui guardo con ammirazione nel mio contraddittorio cammino cristiano d'ogni giorno. E io quasi esito a rispondere, perché i miei santi non hanno pose devote, né aureole d'oro attorno al capo. Hanno le mani sporche di fango, il viso scavato dalla fatica, spesso una ferita aperta nel cuore. Sono uomini e donne che hanno dato tutto senza chiedere nulla, che hanno vissuto e amato fino alla fine.
Penso a don Pino Puglisi, il prete di
Brancaccio che sorrideva al suo assassino perché la forza del male, di fronte
alla luce della fede, si rivela nient'altro che polvere. Penso a don Peppe
Diana, il parroco di Casal di Principe che ha sfidato la camorra con l'arma
della parola, fino a pagarne il prezzo supremo. E come non ricordare Oscar
Romero, l'arcivescovo di San Salvador che è stato martire per un popolo intero,
la sua voce a difesa degli oppressi spezzata sull'altare.
Accanto a loro vedo Ignazio Ellacuría,
intellettuale e gesuita, una delle menti più lucide del nostro tempo, che ha
scelto di condividere il destino dei poveri dell'America Latina. Ma i miei
santi non abitano solo le sacrestie. Li trovo anche nei tribunali, nelle
redazioni e nei luoghi di lavoro.
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone sono per
me modelli di integrità e coraggio. Hanno combattuto una mafia che non era solo
organizzazione criminale, ma un sistema di potere che inquinava la società
dalle radici. "Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una
volta sola," disse Falcone. E così fecero entrambi, scegliendo di morire
una volta sola.
C'è Rosario Livatino, il "giudice
ragazzino" che ha portato la giustizia fino alle estreme conseguenze,
sacrificandosi per un'idea più alta di legalità e dignità umana. E Pio La
Torre, che ha pagato con la vita il suo impegno per una Sicilia libera dalla
mafia e il suo contributo alla legge sul sequestro dei beni mafiosi, un'arma
potente contro il potere criminale.
Tra i miei santi ci sono anche i
sindacalisti, come Giuseppe Di Vittorio e Placido Rizzotto, che hanno lottato
per i diritti dei lavoratori, spesso a costo della vita. La loro forza stava
nell'idea che la giustizia sociale non fosse un sogno, ma un dovere collettivo.
C'è anche Peppino Impastato, che con la sua
Radio Aut ridicolizzava i boss, sapendo di camminare su un filo sottilissimo. E
Giancarlo Siani, giovane cronista che con il suo motorino e la sua penna
affrontava un mondo di silenzi e connivenze, scrivendo articoli che gli
costarono la vita. “Scrivere è sempre un atto di coraggio”, disse Oriana
Fallaci, e quanto avevano ragione lei e Giancarlo.
Penso a Pippo Fava, che ha fatto della sua
penna un'arma contro i poteri oscuri della mafia, e a Mauro Rostagno, che ha
unito l'impegno giornalistico a una visione di cambiamento sociale. E non posso
non ricordare Giuseppe "Beppe" Alfano, altro martire della verità.
La loro forza non veniva solo dalla fede o
dal senso del dovere, ma da un amore più grande: per gli altri, per la verità,
per il bene comune. Non si sono tirati indietro di fronte al sacrificio, e per
questo li venero come santi moderni, santi civili.
Io prego che Dio mi conceda la grazia di una
morte altrettanto bella e giusta, perché non c'è nulla di più nobile che dare
la vita per un ideale. Di non vivere invano, di lasciare qualcosa che duri
oltre di me, una scintilla in questo mondo di ombre. Prego che, come loro,
possa avere il coraggio di sporcarmi le mani, di restare in piedi, di non
tradire mai la mia coscienza.
E mi aggrappo alle parole di Albert Camus,
che diceva: “Ciò che conta è impedire al mondo di distruggere ciò che in noi
grida per la giustizia”. Questo, in fondo, è il cammino dei santi. E il mio.
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