“L'Italia e l'Africa. Dal colonialismo ai giorni nostri, storia di un'amnesia collettiva” di Davide Romano
Se c'è una cosa in cui noi italiani
siamo maestri, è nel dimenticare. O meglio, nel ricordare solo ciò che ci fa
comodo. E così, mentre ci agitiamo tra le polemiche sui migranti e ci
stracciamo le vesti per le "invasioni" dal Mare Nostrum, sembriamo
aver rimosso con sorprendente disinvoltura che, non molto tempo fa, gli
invasori eravamo noi.
Sì, proprio noi italiani, che tra il
1885 e il 1943 ci pavoneggiavamo per le strade di Asmara, Tripoli e Addis Abeba
come piccoli lord inglesi mancati. La nostra avventura coloniale, iniziata in
sordina e finita in tragedia, ha lasciato cicatrici che ancora bruciano, anche
se facciamo finta di non vederle.
I numeri, si sa, sono testardi. E i
numeri ci dicono che l'Italia controllava territori per circa 1,4 milioni di
chilometri quadrati in Africa, un'area quasi cinque volte l'Italia stessa. La
Libia, l'Eritrea, parte della Somalia, e poi l'Etiopia: il nostro "posto
al sole", come lo chiamava la propaganda fascista, conquistato con le armi
chimiche e la violenza che tanto ci piace dimenticare.
Ma veniamo al presente, che è figlio
di quel passato quanto noi lo siamo dei nostri nonni. Nel 2023, secondo i dati
del Ministero dell'Interno, sono sbarcate sulle nostre coste oltre 157.000
persone, principalmente dall'Africa. Un numero che fa gridare all'emergenza,
come se non fossimo stati noi, settant'anni fa, a seminare i primi germi di
questo esodo.
I rapporti economici raccontano
un'altra storia interessante. L'ENI, nostro campione nazionale, continua a
essere uno dei principali attori nel continente africano, con investimenti che
nel 2023 hanno superato i 3 miliardi di euro. Una presenza che alcuni
definirebbero "neocoloniale", se non fosse che oggi preferiamo
parlare di "cooperazione economica".
E qui viene il bello, o il brutto,
dipende dai punti di vista. Mentre l'Italia investe in Africa (l'interscambio
commerciale con l'Africa subsahariana ha raggiunto i 19,9 miliardi di euro nel
2022), continuiamo a mantenere un atteggiamento schizofrenico verso il
continente e i suoi abitanti. Da una parte, corriamo a firmare memorandum
d'intesa per il gas con l'Algeria (8 miliardi di metri cubi nel 2023) e accordi
commerciali con il Marocco, dall'altra alziamo muri, reali e metaforici, contro
chi cerca di attraversare il Mediterraneo.
Il "Piano Mattei per
l'Africa", annunciato dal governo italiano nel 2024, con un investimento
previsto di 5,5 miliardi di euro, è l'ultimo tentativo di ricucire questo
strappo storico. Ma come si fa a ricucire qualcosa se non si ammette prima di
averlo strappato?
Le nuove generazioni di
afrodiscendenti in Italia - circa 1,5 milioni di persone secondo le stime più
recenti - ci ricordano quotidianamente questa contraddizione. Sono italiani a
tutti gli effetti, ma devono ancora lottare per vedersi riconosciuti come tali.
La legge sulla cittadinanza resta uno dei nodi irrisolti della nostra
democrazia, come se avessimo paura di guardare in faccia il nostro passato
coloniale.
E mentre a Bruxelles si discute di
nuovi accordi con i paesi africani per il controllo dei flussi migratori (5,7
miliardi di euro stanziati nel fondo UE per l'Africa nel periodo 2021-2027),
noi continuiamo a oscillare tra paternalismo e rimozione. Gli aiuti allo
sviluppo italiano verso l'Africa ammontano a circa lo 0,22% del PIL, ben
lontano dall'obiettivo dello 0,7% fissato dall'ONU. Numeri che raccontano di
un'Italia che ancora non ha deciso che rapporto vuole avere con il continente
africano.
Il colonialismo italiano in Africa è
stato, come lo definì lo storico Angelo Del Boca, un "colonialismo
straccione". Non avevamo i mezzi dell'Impero britannico né
l'organizzazione di quello francese. Ma questo non ci ha impedito di commettere
crimini e soprusi che ancora oggi influenzano i rapporti tra i due continenti.
La verità è che l'Italia non ha mai
fatto davvero i conti con il suo passato coloniale. Non lo insegniamo nelle
scuole, se non in modo superficiale. Non abbiamo un museo nazionale del colonialismo,
come altri paesi europei. E continuiamo a chiamare "missione di pace"
quella che in Libia fu una brutale occupazione militare.
I dati più recenti ci dicono che il
42% delle imprese italiane attive in Africa si concentra in tre paesi: Sudafrica,
Egitto e Marocco. Una presenza economica significativa che però non si traduce
in una vera politica africana. Continuiamo a navigare a vista, tra emergenze
migratorie e opportunità commerciali, senza una strategia di lungo periodo.
E così, mentre il presidente cinese
Xi Jinping ha visitato 39 paesi africani negli ultimi dieci anni, investendo
oltre 170 miliardi di dollari nel continente, noi continuiamo a dibattere se i
migranti africani siano un problema di ordine pubblico o una risorsa per il
nostro mercato del lavoro.
La realtà è che l'Africa non è più
quella dei documentari in bianco e nero che guardavamo da bambini. È un
continente giovane (l'età media è di 19,7 anni), dinamico, con tassi di crescita
economica che in alcuni Paesi superano il 5% annuo. Un continente che sta
cercando di liberarsi dalle catene del passato coloniale, mentre noi sembriamo
incapaci di liberarci dai nostri fantasmi.
Forse è arrivato il momento di
guardare all'Africa non come a un problema da risolvere o a un mercato da conquistare,
ma come a un partner con cui costruire un futuro comune. Ma per farlo, dobbiamo
prima fare i conti con la nostra storia. Una storia che non può essere né
cancellata né dimenticata, ma deve essere compresa e metabolizzata.
Perché, come diceva Benedetto Croce,
"la storia è sempre storia contemporanea". E la nostra storia con
l'Africa è tutt'altro che conclusa.
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