“Quando anche Dio sorride. L’umorismo nella Bibbia e nelle vite dei santi” di Davide Romano



«Signore, facci vivere la nostra vita, non come un gioco di scacchi dove ogni mossa è calcolata, non come una partita dove tutto è difficile, non come un teorema rompicapo, non come un debito da pagare ma come una festa senza fine dove l’incontro con Te si rinnova come una danza, fra le braccia della tua grazia, nella musica universale dell’Amore. Signore, vieni ad invitarci!» (Madeleine Delbrêl)


Quando Dio si diverte

C'è un pregiudizio duro a morire: quello secondo cui la religione e l'umorismo sarebbero incompatibili come l'acqua e l'olio. Dio sarebbe un severo contabile celeste, sempre pronto a prendere appunti sui nostri peccati, e i santi sarebbero individui così immersi nell'estasi da non accorgersi nemmeno se gli cade il cappello. Niente di più falso. Basta aprire la Bibbia o sfogliare le vite dei santi per scoprire che il Padreterno ha un senso dell'umorismo raffinatissimo, e che molti dei suoi migliori amici sulla terra sono stati dei veri e propri mattacchioni.

Cominciamo dall'inizio. Adamo ed Eva si nascondono dietro gli alberi dopo aver fatto il pasticcio con la mela. Arriva Dio che fa una passeggiata nel giardino - evidentemente aveva l'abitudine di fare due passi la sera per digerire - e chiama: «Adamo, dove sei?» (Gen 3,9). Domanda retorica, naturalmente. L'Onnisciente sapeva benissimo dove si trovavano i due fuggiaschi. Ma voleva vedere fino a che punto potevano spingersi nel ridicolo. E infatti Adamo, invece di battere un dignitoso mea culpa, se ne esce con la perla: «La donna che tu mi hai messo accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato» (Gen 3,12). Tradotto: è colpa sua, anzi è colpa tua che me l'hai data. Il primo caso di scaricabarile della storia umana. Dio doveva essere scoppiato a ridere, anche se i teologi non lo dicono.

 

Abramo e la risata di Sara

Ma il vero campione dell'umorismo divino è Abramo. Novantanove anni, moglie Sara di novanta, e Dio che gli promette un figlio. La reazione di Abramo è da manuale: «Si prostrò con la faccia a terra e rise» (Gen 17,17). Ride prostrato, che è un'acrobazia non da poco. E pensa tra sé: «A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all'età di novanta anni potrà partorire?». Domanda legittima, direi.

Quando poi i tre angeli confermano la notizia, Sara - che origliava dietro la tenda - «rise dentro di sé» (Gen 18,12). Ride dentro, mica fuori. Aveva ancora un briciolo di educazione. Ma Dio la sente lo stesso e chiede: «Perché ha riso Sara?». Lei nega: «Non ho riso». E Dio: «Sì, invece hai riso» (Gen 18,13-15). Scena da commedia, con tanto di battibecco tra il Creatore e la creatura. Quando poi nasce il bambino, lo chiamano Isacco, che significa "riso". Il primo bambino della storia il cui nome celebra una barzelletta divina.

G.K. Chesterton, che di umorismo se ne intendeva, scrisse: «Gli angeli possono volare perché si prendono alla leggera». Forse aveva ragione. Di certo, Dio si prende alla leggera le nostre pretese di serietà.

 

Elia e i profeti di Baal: satira biblica

Ma il campione assoluto dell'ironia biblica è il profeta Elia. Siamo sul monte Carmelo, sfida all'ultimo sangue tra il profeta del Signore e i 450 profeti di Baal. Questi ultimi preparano il loro sacrificio e cominciano a invocare il loro dio perché mandi il fuoco. Niente. Gridano più forte. Niente. Si feriscono con coltelli e lance. Niente.

A questo punto Elia non resiste e attacca: «Gridate più forte, perché è un dio! Forse è soprappensiero o indaffarato o è in viaggio; o forse dorme e bisogna svegliarlo» (1Re 18,27). Tradotto in termini moderni: forse il vostro dio è in bagno, o in riunione, o in vacanza, o sta facendo la pennichella. Sarcasmo puro, che avrebbe fatto invidia a Voltaire.

Poi tocca a Elia. Fa scavare un fossato intorno all'altare, ci versa sopra tanta acqua che il fossato si riempie, e invoca il Signore. Fuoco dal cielo, sacrificio consumato, acqua evaporata. Spettacolo pirotecnico garantito. I profeti di Baal fanno una brutta fine, ma la lezione di comunicazione è servita. Elia aveva capito che per convincere la gente bisogna prima farla sorridere.

 

Gesù e l'umorismo divino

Chi pensa che Gesù fosse un personaggio tutto lacrime e sospiri non ha mai letto attentamente i Vangeli. Il Figlio di Dio aveva un senso dell'umorismo sottile e penetrante, fatto di ironia intelligente e di paradossi illuminanti.

Prendiamo la famosa frase sulla trave e la pagliuzza: «Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?» (Mt 7,3). L'immagine è volutamente comica: uno che cammina con una trave infilata nell'occhio e fa il pignolo per una pagliuzza. Gesù voleva che la gente ridesse, per poi riflettere.

O la parabola del cammello e della cruna dell'ago: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mt 19,24). I suoi ascoltatori dovevano immaginare un dromedario che cerca di infilarsi in un buco microscopico. Immagine surreale, che però fa centro meglio di qualsiasi trattato di teologia morale.

E che dire di Zaccheo? «Cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura» (Lc 19,3). Piccolo di statura ma grande di curiosità. Così si arrampica su un sicomoro. Gesù lo vede e gli dice: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scena da film comico: il pubblicano che scende dall'albero tutto imbarazzato e la folla che mormora scandalizzata.

Henri Bergson, il filosofo del riso, osservò che «il riso nasce quando si scorge qualcosa di meccanico incrostato sul vivente». Gesù aveva capito che l'umorismo è una forma di intelligenza, e che far ridere la gente è il modo migliore per farla pensare.

 

I santi e l'arte del sorriso

Se Dio ha senso dell'umorismo, i suoi amici migliori non potevano essere da meno. La letteratura agiografica è piena di santi che praticavano quello che si potrebbe chiamare "umorismo mistico": la capacità di ridere di se stessi, delle proprie debolezze, e persino delle proprie virtù.

San Filippo Neri, il santo della gioia, era un maestro in questo genere. Quando la gente lo venerava troppo, lui si metteva a ballare per strada o si faceva radere mezza barba per ridicolizzarsi. Una volta, per umiliare un suo penitente troppo orgoglioso, gli ordinò di portare una coda di volpe attaccata al cappello mentre attraversava Roma. Il poveretto protestò: «Padre, mi prenderanno per matto!». E Filippo: «Appunto. È quello che voglio».

Un'altra volta, alcuni giovani aristocratici lo presero in giro perché giocava con i bambini. Lui non si scompose e disse: «Figlioli, è meglio giocare con le noci che con i vizi». Risposta che li zittì all'istante. Filippo aveva capito che l'umorismo può essere un'arma potentissima contro l'ipocrisia e la presunzione.

Santa Teresa d'Avila, la grande mistica spagnola, aveva un carattere vivacissimo e un senso dell'umorismo tutto andaluso. Quando le monache si lamentavano del cibo scadente, lei rispondeva: «Tra i piatti di cucina passeggia anche il Signore». Una volta, cadendo da cavallo nel fango durante un viaggio, esclamò: «Signore, se è così che tratti i tuoi amici, non c'è da stupirsi se ne hai così pochi!». Preghiera poco ortodossa, ma efficacissima.

 

San Francesco e l'umorismo della povertà

San Francesco d'Assisi trasformò la povertà in una forma d'arte comica. Chiamava il suo corpo «fratello asino» e lo trattava con ironia affettuosa. Quando i frati si lamentavano del freddo, lui diceva: «Se avessimo un cavallo, anche il cavallo avrebbe freddo». Logica ineccepibile.

Un giorno, un frate gli chiese il permesso di avere un salterio. Francesco rispose: «Quando avrai il salterio, desidererai un breviario. E quando avrai il breviario, ti siederai sul trono come un gran prelato e dirai al tuo fratello: "Portami il breviario!"». Poi prese un pugno di cenere, se lo versò in testa e disse: «Io breviario, io breviario!». Il frate non osò più chiedere nulla.

Francesco aveva capito che l'umorismo è una forma di libertà. Chi sa ridere di se stesso non può essere schiavo di nulla, nemmeno delle proprie virtù. Charles Péguy, il poeta francese, scrisse di lui: «Francesco ha fatto ridere la povertà, e per questo l'ha resa attraente».

 

Don Bosco e l'educazione allegra

San Giovanni Bosco trasformò l'educazione in una festa permanente. Il suo sistema educativo si basava su tre pilastri: ragione, religione e amorevolezza. Ma il collante era l'allegria. «Fate tutto quello che volete», diceva ai suoi ragazzi, «ma divertitevi». Pedagogia rivoluzionaria per l'epoca.

Una volta, un ispettore ministeriale gli chiese: «Dove sono le vostre punizioni?». Don Bosco rispose: «Le punizioni sono là», e indicò il cortile dove i ragazzi giocavano a pallone. «Non capisco», disse l'ispettore. «Semplice: qui i ragazzi si divertono talmente che la punizione peggiore è mandarli a casa».

Don Bosco sapeva che l'umorismo è il linguaggio universale dell'amore. Un giorno, un ragazzo particolarmente vivace gli chiese: «Don Bosco, ma lei va mai in collera?». «Sì», rispose il santo, «ma quando vado in collera, rido». Saggezza educativa concentrata in una battuta.

 

Padre Pio e l'ironia mistica

Anche Padre Pio, il santo delle stimmate, aveva un senso dell'umorismo tutto pugliese. I suoi confratelli raccontano che durante la ricreazione era un intrattenitore formidabile. Imitava i vari tipi di penitenti, i dialetti delle diverse regioni, i tic dei confratelli. «Rideva tanto che ci faceva ridere tutti», ricordava un testimone.

Una volta, una signora gli chiese: «Padre, mio marito non crede. Cosa devo fare?». Padre Pio rispose: «Signora, preghi per lui. E soprattutto, gli faccia da mangiare bene. La strada per il paradiso passa anche per lo stomaco». Consigli matrimoniali con umorismo incluso.

Un altro giorno, un penitente si confessò dicendo: «Padre, ho fatto una scappatella». Padre Pio: «Una scappatella? E dove è scappato?». Il poveretto, spiazzato, dovette spiegare meglio. L'umorismo come forma di direzione spirituale.

 

Papa Giovanni XXIII: il sorriso sul trono di Pietro

Papa Giovanni XXIII portò il sorriso sul trono di Pietro. Le sue battute sono diventate leggendarie. Quando gli chiesero quante persone lavoravano in Vaticano, rispose: «Circa la metà». A chi gli domandava se fosse difficile essere Papa, replicava: «Difficile? No. Basta non prendersi troppo sul serio».

Durante il Concilio Vaticano II, quando alcuni vescovi protestarono perché i lavori andavano per le lunghe, Giovanni XXIII disse: «Cari fratelli, abbiate pazienza. Quando il Signore iniziò la creazione, lavorò sei giorni e il settimo si riposò. Voi volete fare tutto in una settimana?».

Una volta, ricevendo un gruppo di bambini, uno di loro gli chiese: «Santo Padre, ma lei è davvero infallibile?». Papa Giovanni rispose: «Sì, figliolo, ma solo quando parlo ex cathedra. Quando parlo con la mia mamma, sbaglio come tutti gli altri».

Jacques Maritain, il filosofo francese, scrisse di lui: «Papa Giovanni ha dimostrato che si può essere santi e insieme profondamente umani. Il suo sorriso era una forma di preghiera».

 

L'umorismo come forma di Sapienza

Che cosa ci insegna tutto questo? Che l'umorismo autentico non è il contrario della santità, ma una delle sue espressioni più alte. Chi sa ridere di se stesso ha già fatto un passo importante verso la saggezza. Chi sa far ridere gli altri senza ferirli ha capito qualcosa dell'amore.

San Tommaso d'Aquino, che non era esattamente un comico, dedicò però una questione della Summa Theologica alle virtù legate al gioco e al divertimento. Secondo l'Aquinate, esiste una virtù che consiste nel «dire e fare cose divertenti». Chi non sa scherzare mai è un burbero. Chi scherza sempre è un buffone. La virtù sta nel mezzo: saper ridere al momento giusto, nel modo giusto, con le persone giuste.

Voltaire, che di santi se ne intendeva poco ma di umorismo molto, scrisse: «Dio ha dato il riso all'uomo per consolarlo della sua intelligenza». Forse aveva ragione, anche se non sapeva di averla. L'umorismo è davvero una consolazione divina, un modo per sopportare il peso dell'esistenza senza perdere la speranza.

 

Il riso escatologico

C'è un aspetto dell'umorismo cristiano che spesso viene trascurato: la sua dimensione escatologica. I santi ridono perché sanno come va a finire la storia. Sanno che alla fine vincerà il bene, che l'amore trionferà sull'odio, che la vita sconfiggerà la morte. È il «riso di Dio» di cui parla il Salmo 2: «Colui che sta nei cieli ride, il Signore si fa beffe di loro».

Non è un riso crudele, ma liberatorio. È il riso di chi sa che le apparenze ingannano, che il male non ha l'ultima parola, che la storia ha un senso anche quando sembra non averlo. San Paolo lo esprime magistralmente: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1,27). È la divina commedia dell'esistenza, dove i primi diventano ultimi e gli ultimi primi.

Dante, che di commedie divine se ne intendeva, non a caso chiama "Commedia" la sua opera maggiore. Comincia con l'inferno ma finisce con il paradiso. Comincia con il pianto ma finisce con il riso. «L'amor che move il sole e l'altre stelle» è anche l'amore che fa sorridere i beati. Perché il sorriso è il linguaggio dell'eternità.

 

Conclusione: ridere per non piangere

In un mondo che spesso sembra aver perso il senso dell'umorismo, la testimonianza dei santi e la sapienza biblica ci ricordano che ridere non è solo un diritto, ma un dovere. Un dovere verso noi stessi, per non prendere troppo sul serio le nostre piccole tragedie quotidiane. Un dovere verso gli altri, per alleggerire il peso della vita comune. Un dovere verso Dio, per riconoscere che anche nei momenti più bui c'è sempre spazio per la speranza.

Oscar Wilde, che di paradossi se ne intendeva, scrisse: «Se vuoi dire la verità alla gente, falla ridere, altrimenti ti ammazza». I santi lo avevano capito prima di lui. Avevano capito che l'umorismo è una forma di carità, che far sorridere è una forma di apostolato, che la gioia è una forma di preghiera.

Forse è per questo che il cristianesimo, nonostante duemila anni di persecuzioni, crisi e scandali, è ancora vivo. Perché i cristiani, nel fondo, sono gente che sa ridere. Ridere dei propri difetti, ridere delle proprie pretese, ridere persino delle proprie virtù. E quando si sa ridere, si sa anche sperare. Perché il riso è l'ultima forma di resistenza contro l'assurdo. È il modo più elegante per dire al mondo: «Tu non mi farai mai paura, perché io so come va a finire la storia».

E la storia, per chi ci crede, finisce sempre bene. Con una risata di Dio che dice: «Bravi, avete capito la barzelletta».

 

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